Riassunto: Certi obblighi

Oltre a riassumere la storia della novella Certi obblighi (L. Pirandello), discuteremo due idee. In primo posto, come, nella società italiana, un ruolo / funzione / titolo potrebb’essere stato associato con determinati aspettative / responsabilità / obblighi / vantaggi. Secondo, il modo in cui le azioni di qualcuno possono avere le conseguenzi. “Se questo, poi quello” sia una citazione che sintetizza quest’idea — in altre parole ed in modo conciso.

***

Quaquèo, il protagonista della novella, è un lampionaio. Il suo lavoro è illuminare di notte la piccola città dove vive. Anche se questo possa sembrare una funzione civica essenziale, non diversamente dalla rimozione dei rifiuti o dalla fornitura d’acqua dolce (cioè, una funzione che naturalmente i cittadini avrebbero affidato e rispettato), siamo rapidamente disabusi di quest’idea.

Quando la civiltà, ancora in ritardo, condanna un uomo a portare una lunga scala in collo da un lampione all’altro e a salire e a scendere questa scala a ogni lampione tre volte al giorno, la mattina per spengerlo, il dopo pranzo per rigovernarlo, la sera per accenderlo; quest’uomo, per forza, quantunque duro di mente e dedito al vino, deve contrarre la cattiva abitudine di ragionar con se stesso, assorgendo anche a considerazioni alte per lo meno quanto quella sua scala.

Quaquèo non è, come vedremo, particolarmente testaduro, ma abusa l’alcol come un mezzo di evitare / affrontare la vita: scopriamo che non è una buon’idea salire una scala mentre uno è intossicato!)

Quaquèo, lampionajo, è caduto una sera, ubriaco, da quell’altezza. S’è rotta la testa, spezzata una gamba. Vivo per miracolo, dopo due mesi d’ospedale, con una cianca piú corta dell’altra, una sconcia cicatrice su la fronte, s’è rimesso a girare, zazzeruto, barbuto e in camiciotto turchino, di nuovo con la scala in collo, da un lampione all’altro.

Quello che segue è un commento un po’ criptico (una pirandelliana classica!) sugli “azioni e conseguenze” nonché “ruoli ed obblighi”.

Arrivato ogni volta su la scala all’altezza da cui è caduto, non può fare a meno di considerare che – è inutile – certi obblighi si hanno. Non si vorrebbero avere, ma si hanno. Un marito può benissimo in cuor suo non curarsi affatto dei torti della propria moglie.

Il commento suggerire a noi che Quaquèo è un becco. Abbiamo il senso che sua moglie l’abbia tradito per un bel po’ di tempo, ma che Quaquèo abbia esitato affrontare / risolvere la situazione. Quaquèo, tuttavia, è ben consapevole di ciò che, come marito, deve fare.

Sembra vero che povero Quaquèo non abbia una scelta,

Ebbene, nossignori, ha l’obbligo di curarsene.

…perché se non affronta l’infedeltà, continuerà ad essere mancato di rispetto / di dignità, cioè, sempre più soggetto alla derisione ed efficacemente ostracizzato dalla sua comunità.

Se non se ne cura, tutti gli altri uomini e finanche i ragazzi glielo rinfacciano e gli dànno la baja.

– Il becco, Quaquèo! Quando li mettono, Quaquèo, questi becchi?

– Muso di cane! – grida Quaquèo dall’alto del lampione. – Ora me lo dici? Ora che debbo illuminare la città?

Fino ad ora Quaquèo l’ha usata sua funzione civica per evitare ciò che deve fare.

Bella scusa, l’illuminazione della città, per sottrarsi all’obbligo di badare ai torti della moglie.

Il lettore trova a chiedersi se la sua esitazione sia dovuta alla sua personalità: è tale che lui non è capace di fare ciò che deve fare?

Ma li vede egli forse? Con questi lumetti a petrolio, vede egli forse quando quelli scassinano le porte o si accoltellano per quei sudici vicoli deserti?

– Ladri svergognati e assassini!

Questo sembra essere un altro commento criptico, ma penso che il Pirandello voglia spiegarci che ci sono molte persone cattive in questo mondo (e che Quaquèo lo sa troppo bene)… la domanda giusta è: “Dunque, è anche Quaquèo capace di essere come loro?”

Dopo un po’ Quaquèo visita l’ufficio dell’assessore cavaliere Bissi, un funzionario governativo locale. Il rapporto tra i due uomini è basato sul potere ed l’autorità: il Bissi ha entrambi!

Pur non di meno Quaquèo è andato al municipio; s’è presentato all’assessore cavalier Bissi, a cui deve il posto e qualche gratificazione di tanto in tanto per lo zelo con cui attende al suo ufficio;

(E, a questo proposito, secondo me, il Bissi assomiglia, diciamo, un padrone o un capo d’una famiglia di criminalità organizzata, mentre Quaquèo è, comicamente, sottomesso.)

Quaquèo vuole sapere se sarebbe protetto dalla derisione mentre lavora come un lampionaio. (Abbiamo visto prima che Quaquèo vuole usare la sua funzione civica come uno scudo contro la derisione che viene sottoposto ogni giorno.)

e gli ha esposto il caso: se egli, cioè, nell’atto d’accendere i lampioni non debba essere considerato come un pubblico funzionario nell’esercizio delle sue funzioni.

– Sicuro, – gli ha risposto l’assessore.

– E dunque chi mi insulta, – ha tirato la conseguenza Quaquèo, – insulta un pubblico funzionario nell’esercizio delle sue funzioni, va bene?

Ma il Bissi sembra esitare… è a conoscenza della fonte della derisione (hahahaha!), ed offre l’opinione che la derisione è personale quindi non è collegato alla funzione civica di Quaquèo.

Pare che non vada bene per il cavalier Bissi. Il quale, sapendo di che genere sono gli insulti di cui Quaquèo viene a lagnarsi, vorrebbe dimostrargli, con bella maniera, che questi insulti non si riferiscono propriamente al lampionajo come tale.

Naturalmente, questo non è ciò che Quaquèo vuole sentire: lancia una difesa spirita:

– Ah no, Eccellenza! – protesta Quaquèo. – La prego di credere, Eccellenza!

…poi inizia il suo argomento / disaccordo con le banalità e l’ossequiosità,

E nel dire Eccellenza stringe gli occhi Quaquèo, come se assaporasse un liquore prelibato. Dà cosí dell’Eccellenza, con tutto il sentimento, a quanti piú può; ma in ispecie al cavalier Bissi che, oltre agli obblighi che anche lui, come privato, forse non vorrebbe avere, ma che pure ha, se ne è assunti anche tanti altri, altissimi, inerenti alla sua carica d’assessore. Quaquèo di tutti questi obblighi, naturali e sociali, è profondamente compenetrato; e se, alle volte, per qualche gocciolina importuna deve passarsi il dorso della mano sotto il naso, non manca mai di farsi prima riparo della falda del lungo camiciotto turchino.

…e poi, Quaquèo segue sottolineando tre punti: primo, sostiene che gli insulti verificano solo mentre sta lavorando; secondo, sottolinea che lui e sua moglie hanno un buon rapporto a casa.

A sua volta, con bella maniera, ma imbrogliandosi un po’, si prova a dimostrare all’assessore, che se l’insulto, di cui è venuto a lagnarsi, ha qualche fondamento di verità, può averlo soltanto nel tempo che egli è nell’esercizio delle sue funzioni di lampionajo; perché quando poi non è piú lampionajo ed è soltanto marito, nessuno può dir nulla né di lui né della moglie. La moglie è con lui saggia, sottomessa, irreprensibile; ed egli non ha potuto mai accorgersi di nulla.

A questo punto Quaquèo spiega che se fosse mai arrivato a casa e trovasse la moglie con un altro,

– M’insultano, Eccellenza, quando illumino la città, quando sto su la scala appoggiata al lampione e sfrego al muro il fiammifero per accendere il lume, cioè, quando sanno che non posso lasciare al bujo la città, per correre a casa a vedere che fa e con chi è mia moglie e, all’occorrenza, fare un macello, signor Cavaliere!

…l’avrebbe uccisa (ma… questo è ‘parlare con coraggio’… qua qua qua!!! I lettori hanno già il senso che lui si è stato molto disturbato / preoccupato con il pensiero del suo obbligo di uccidere sua moglie).

Sottolinea le parole fare un macello con un sorriso quasi di mesta rassegnazione, perché riconosce che anche quest’obbligo avrebbe, come marito offeso, e proprio non vorrebbe averlo, ma lo ha.

(A questo punto della trama è improbabile che Quaquèo non conosca, per certo, dell’infedeltà della moglie!)

Alla fine Quaquèo offre un terzo punto: non viene mai offeso quando è fuori lavoro, come potrebbe accadere, ad esempio, quando la città è ben illuminata da una luna piena.

– Ne vuole un’altra prova, Eccellenza? Nelle sere di luna, che i lampioni restano spenti, nessuno mi dice nulla; e perché? perché quelle sere non sono un pubblico funzionario.

Sfortunatamente per Quaquèo, il Bissi non è convinto: dice che se Quaquèo voglia fermare l’abuso, e se l’abuso sia associato al suo lavoro, poi dovrebbe rinunciare il lavoro.

Quaquèo ragiona bene. Ma ragionar bene non basta. Bisogna venire al fatto. E, venendo al fatto, spesso i migliori ragionamenti cascano, come cascò lui, quella volta, ubriaco fradicio, dalla scala.

Che vuole concludere, insomma, con quel ragionamènto? Il cavalier Bissi glielo domanda. Se crede che la sua disgrazia coniugale sia inerente alla pubblica funzione di lampionajo, ebbene, rinunzii a questa pubblica funzione; o, se non vuole rinunziare, si stia quieto, e lasci dire la gente.

– Perentorio? – domanda Quaquèo.

– Perentorio, – risponde il cavalier Bissi.

Quaquèo saluta militarmente:

– Servo di Vostra Eccellenza.

***

I giorni passano, gli insulti continuano, e le preoccupazioni di Quaquèo persistono e intensificano.

La scala gli pesa ogni giorno di piú e ogni giorno di piú Quaquèo stenta ad arrampicarsi sui pioli logori dal lungo uso, con quella cianca piú corta dell’altra.

Come una forma di fuga, Quaquèo riflette inizialmente sullo stato del mondo e sul proprio ruolo.

Ora, quando è agli ultimi lampioni nelle viuzze piú erte in cima al colle, s’indugia un pezzo su la scala, come affacciato, o piuttosto come appeso per le ascelle al braccio del fanale, le mani penzoloni, il capo appoggiato a una spalla; e in quella positura d’abbandono, lassú, seguita a pensare e a ragionar con se stesso.

Pensa cose strane e tristi.

In primo luogo, riflette sul ruolo delle stelle nel cielo. (Le stelle… che illuminano il cielo ma non la terra. Ritiene che questo è strano!)

Pensa, per esempio, che le stelle, per quanto fitte sieno, certe notti, allargano sí e pungono il cielo, ma non arrivano a far lume in terra.

– Luminaria sprecata!

Poi Quaquèo immagina una scala sufficiente alta per raggiungere le stelle.

Ma che bella luminaria! E pensa che una notte sognò che toccava a lui d’accenderla, tutta quella luminaria nel cielo, con una scala di cui non vedeva la fine, e che non sapeva dove appoggiare, e i cui staggi gli brandivano tra le mani incapaci di sorreggere un tal peso. E come avrebbe fatto ad arrampicarsi, sú, sú, per quegli infiniti pioli, fino alle stelle? Sogni! Ma che ambascia e che sgomento nel sogno!

Secondo, Quaquèo pensa al suo lavoro: si rende conto che non illumina semplicemente la città; invece lui crea gli spazi illuminati ed al tempo stesso gli spazi in ombri.

Quaquèo certe sere è arrivato finanche a pensare che egli che fa la luce, fa anche le ombre. Già! Perché non si può avere una cosa, senza il suo contrario. Chi nasce, muore. E l’ombra è come la morte che segue un corpo che cammina. Donde la sua frase misteriosa, che sembra una minaccia gridata dall’alto della scala nell’atto di accendere il lampione, e che non è altro, invece, che la conclusione d’un suo ragionamento:

– Aspetta là, aspetta là, che t’appiccico la morte dietro!

[Che cosa sta succedendo qui? Cosa vuole illustrare il Pirandello per noi? La mia ipotesi è che il Pirandello voglia mostrarci come, a volte, alcuni di noi devono affrontare la prospettiva d’un obbligo inevitabile, cioè, un obbligo spiacevole / terrificante / doloroso / agonizzante. In queste circostanze, potremmo procrastinare / evitare / esitare / rationalizzare / fantasticare. Potremmo pensare ad altre cose (es. cose strane!). Faremmo tutto questo in uno sforzo d’evitare l’inevitabile. Dunque, sotto questa ipotesi, evitare = una forma psichica di difesa contro il dolore in antecipo!]

Continuando il suo ‘flusso di coscienza’, Quaquèo riflette sulla funzione d’un lampionaio, e come questa funzione è collagata alla funzione naturale della luna. Fa una bell’analogia tra le luci della città e una raccolta di lucciole.

Infine Quaquèo pensa, che una certa importanza d’ordine davvero superiore la ha, quel suo mestiere, in quanto ripara a una mancanza della natura, e che mancanza! Quella della luce. C’è poco da dire: egli, per il suo paese, è il sostituto del Sole. Sono due i sostituti: egli e la Luna; e si dànno il cambio. Quando c’è la Luna, egli riposa. E tutta l’importanza del suo mestiere appare manifesta in quelle sere che la Luna dovrebbe esserci, e viceversa poi non c’è, perché le nuvole, nascondendola, la fanno venir meno al suo obbligo di illuminare la Terra; obbligo che la Luna forse non vorrebbe avere, ma che ha; e il paese resta al bujo.

Quant’è bello vedere da lontano, in mezzo alle tenebre della notte, qua e là, qualche paesello illuminato!

Quaquèo ne vede parecchi, ogni notte, quando arriva agli ultimi lampioni in cima al colle, e rimane a contemplarli a lungo, con le mani penzoloni dal braccio del fanale e il capo appoggiato a una spalla, e sospira.

Sí, quei lumini là, come una moltitudine di lucciole a congresso,

Quasi immediatamente i suoi pensieri si rivolgono al lato violento ed insoddisfacente della natura umana. Sembra che le preoccupazioni di Quaquèo siano la fonte di questi pensieri scuri.

…rischiarano penosamente e rimangono tutta la notte a vegliare, nel lugubre silenzio, vicoletti lerci e scoscesi e tane di miseria, forse peggiori di questi del suo paese; ma è certo che, da lontano, fanno un bel vedere, e spirano un dolce e mesto conforto in mezzo a tanta tenebra. Passa di tanto in tanto nella tenebra qualche folata di vento, e tutti quei lumini là aggruppati esitano e pare che sospirino anch’essi.

Quaquèo sembra chiedersi: “È questo il tipo di persona che sarò, se faccio quello che la società richieste, se uccido mia moglie?”

E a guardare cosí da lontano, si pensa che i poveri uomini, sperduti come sono sulla terra, tra le tenebre, si siano raccolti qua e là per darsi conforto e ajuto tra loro; e invece no, invece non è cosí: se una casa sorge in un posto, un’altra non le sorge mica accanto, come una buona sorella, ma le si pianta di contro come una nemica, a toglierle la vista e il respiro; e gli uomini non si uniscono qua e là per farsi compagnia, ma si accampano gli uni contro gli altri per farsi la guerra. Ah, lui, Quaquèo, lo sa bene! E dentro ogni singola casa c’è la guerra, tra quegli stessi che dovrebbero amarsi e star d’accordo per difendersi dagli altri. Non è forse sua moglie la sua piú acerrima nemica?

Ci è spiegato che il suo desiderio di non affrontare le azioni della moglie ha portato al suo alcolismo.

Se Quaquèo beve, beve per questo; beve per non pensare a certe cose che lo farebbero venir meno a tanti di questi obblighi, di cui è cosí profondamente compenetrato. Ma è vero che se ne hanno poi anche certi altri, che non si vorrebbero avere. Non si vorrebbero avere, ma si hanno.

(A questo punto, è sicuro che Quaquèo sa chiaramente che sua moglie lo tradisce, e ciò che è obbligato a fare.

***

Dopo questo interludio, la novella ritorna al presente. Impariamo che il governo della città non è riuscito a pagare il suo fornitore di petrolio per i servizi resi, e che finché il pagamento è ricevuto non ci sarà petrolio per illuminare la città di notte. A sua volta, il buio aumenta la frustrazione dei cittadini, chi, a loro volta, prendono la loro frustrazione su di Quaquèo.

Ma che deve accendere, se non c’è petrolio?

Il paese questa sera rischia di restare al bujo. L’appaltatore dell’illuminazione è in lite col Comune: da piú mesi non gli dànno un soldo; ha anticipato circa dodicimila lire; ora non vuole piú saperne. Quaquèo non ha potuto rigovernare i lumi, dopo mezzogiorno. Venuta la sera, s’è messo in giro con la scala per provare se si accendono con quel po’ di petrolio rimasto dalla notte scorsa. Si accendono per poco, poi s’abbassano e appestano la via. I cittadini protestano, se la pigliano con lui, come se fosse colpa sua. I piú tristi e i monellacci gli ricantano piú sguajatamente la solita canzone:

– Ci vogliono i becchi! Ci vogliono i becchi! I becchi, Quaquèo, i becchi!

Improvvisamente, lo impariamo che Quaquèo non accetta più l’abuso; è disposto ad agire,

E la gazzarra cresce. Quaquèo non ne può piú. Per sottrarsi alla ressa degli insultatori, lascia la via principale e, con la scala in collo, si mette a salire per uno dei vicoli. Ma parecchi lo seguono. A un certo punto, come Quaquèo, stanco e sfiduciato, s’abbandona secondo il suo solito sul braccio d’un fanale, non si contentano piú di dargli la baja a parole, gli strappano la scala sotto i piedi e lo lasciano lí appeso per le ascelle e sgambettante.

Ah sí? Dunque vogliono proprio ch’egli faccia l’obbligo suo, di marito offeso, non potendo quella sera per mancanza di petrolio attendere alla sua pubblica funzione di lampionajo? Lo hanno colto al laccio, giusto quella sera che non può gridar la scusa dell’illuminazione della città? Ebbene: gli ridiano la scala, e sia fatta la loro volontà! La scala! La scala! Lo facciano discendere, corpo di Dio, e vedranno ciò che egli saprà fare!

Tre, quattro, ridendo, gli rimettono la scala sotto i piedi, e tutti, pigliandoselo a godere, a coro, lo cimentano:

– Il coltello ce l’hai?

– Ce l’ho. Eccolo!

E Quaquèo si tira sú il camiciotto e cava dalla tasca dei calzoni un coltellaccio e lo apre e lo impugna.

– Sangue della Madonna, è buono questo?

…è pronto ad uccidere sua moglie e l’amante!

– La scanni?

– La scanno, e lo scanno, se li trovo insieme! Testimoni tutti! Venitemi dietro!

E si slancia avanti, balzando su la punta della cianca piú corta, e tutti lo seguono schiamazzando e affollandoglisi attorno, per i buj vicoli tortuosi in salita.

Oddio! Naturalmente, i cittadini temono che il loro abuso possa effettivamente portare ad un omicidio!

– La scanni davvero?

Quaquèo s’arresta, si volta e agguanta per il petto uno di quei cimentatori.

– Ah, ve ne pentite? Ora che m’avete preso, perdio, e sono qua armato per fare l’obbligo mio, dovete starci tutti! Tutti, perdio!

Non importa! Quaquèo continua la sua marcia a casa!

E scuote e scrolla quell’agguantato, e riprende la via. Parecchi allora s’impauriscono, lo seguono ancora per qualche passo sconcertati, perplessi; si tirano per la manica; rimangono indietro; se la svignano. Quattro soltanto e due monelli gli tengono dietro fino a casa, ma costernati anch’essi e non piú cimentosi, anzi pronti a impedire che egli faccia per davvero. Difatti, appena davanti alla porta, lo afferrano per le braccia e a coro, con parole scherzose, cercano di portarselo via, in qualche taverna a bere. Ma Quaquèo, stravolto, ansimante, si divincola e li minaccia col coltello impugnato; avventa calci alla porta, e grida alla moglie:

– Apri, mala femmina! Apri! Questa è la volta che la paghi per tutte! Lasciatemi, sangue di… lasciatemi! Lasciatemi, o vi spacco la faccia!

Quelli, alla minaccia, si scostano, e allora egli cava subito dalla tasca del camiciotto, sul petto, la chiave e apre la porta; si ficca dentro e la richiude con fracasso. Quelli si precipitano addosso alla porta e la forzano, gridando ajuto. Si sentono dall’interno grida e pianti in alto.

– Carneficina! Carneficina! – urla Quaquèo, col coltello in pugno, dopo aver afferrato per i capelli e buttata a terra la moglie scarmigliata e discinta; e cerca sotto il letto, rovesciando tutto quello che gli capita tra i piedi; cerca nella cassapanca; va a cercare in cucina, sempre gridando:

– Dov’è? dimmi dov’è! dove l’hai nascosto?

Confronta la moglie… lei fa finta l’incredulità!

E la moglie:

– Sei pazzo? Sei ubriaco? Che ti salta in mente, buffone?

Quaquèo non si ferma! È come sia stato trasformato, da un uomo pensoso e meditativo ad un uomo d’azione cattive!

Giú, nel vicolo, a loro volta, gridano quei quattro che lo han seguito, e i monelli, e altri accorsi al fracasso; e si schiudono le finestre qua e là, e tutti domandano: – Chi è? Che è stato? – e pugni e calci e spallate alla porta.

Quaquèo balza addosso alla moglie:

– Dimmi dov’è, o t’ammazzo! Sangue, sangue, voglio sangue, questa sera! Sangue!

(Come scritto, la trasformazione potrebbe sembrare brusca ed impulsiva, ma a questo punto della novella capiamo che il cambiamento in personalità era stato in produzione per qualche tempo.)

E poi… e poi…

Quaquèo apre una finestra e scopre l’amante della moglie, nascosto all’esterno. L’amante non è NON ALTRO CHE l’assessore cavaliere Bissi!!!

Non sa piú dove cercare. Gli occhi a un tratto gli vanno alla finestra della cucina che guarda dalla parte opposta del vicolo, su un precipizio. È una finestra piuttosto alta, che sta sempre chiusa, e le cui imposte sono annerite dalla fuliggine.

– Piglia una sedia e apri quella finestra! No? Non vuoi aprirla? Brutta strega, l’apro io!

Monta su uno sgabello, la apre… – orrore! Quaquèo arretra, con gli occhi sbarrati, le mani tra i capelli irti. Il coltello gli casca di mano.

Il cavalier Bissi sta lassú, pericolante, nel vano, sul precipizio.

La novella termina in farsa, cioè, in un commento ironico sulle divisioni delle classe e sui rapporti di potere nella società.

Quaquèo non può aiutarsi: la sua personalità è subito trasformata ancora una volta: non è più un uomo d’azione, ma piuttosto sottopone all’autorità del Bissi. (Naturalmente, questa sottomissione è una forma di evasione!)

– Ma se, Dio liberi, Vostra Eccellenza scivola! – esclama Quaquèo, appena può rinvenire dal terrore, portandosi le pugna presso la bocca; e subito accorre, tutto tremante e premuroso, per ajutarlo a discendere:

– Piano… qua, piano, metta qua un piede su la mia spalla, Eccellenza… Ma come mai Vostra Eccellenza s’è potuto persuadere a nascondersi lassú? Me lo potevo mai figurare? Lassú, col rischio di rompersi il collo per una donnaccia come questa, lei, un Cavaliere! Ma dice sul serio, Vostra Eccellenza?

Si volta alla moglie e, appioppandole un pugno in faccia:

– Ma come? – le grida, – lassú, lassú dovevi farlo nascondere? E non c’era un posto piú pulito? Non hai visto, imbecille, che ho cercato dappertutto tranne che nello stipo a muro, dietro la cortina? Sú, piglia una spazzola per il signor Cavaliere! Abbia la bontà, Vostra Eccellenza; per cinque minuti, dentro a quello stipo! Sente come gridano giú per istrada? Si hanno certi obblighi, Eccellenza, creda pure. Non si vorrebbero avere, ma si hanno. Cinque minuti soli: abbia la bontà; li mando via.

Alla fine Quaquèo tenta di proteggere la reputazione del Bissi!

E, condotto il Cavaliere entro lo stipo a muro, va a spalancare la finestra sul vicolo, per gridare alla folla accorsa:

– Non c’è nessuno! Apro la porta… Chi vuol salire, salga; se volete accertarvene. Ma non c’è nessuno!

 

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