Riassunto: La Lega disciolta

La Lega disciolta(L. Pirandello) è una storia sulle origini della criminalità organizzata in Sicilia. Pensiamo che, prima di lanciarci nel riassunto, sarebbe utile presentare una parte della storia della Sicilia nel primo-metà del secolo diciannovesimo:

“Ma la mafia siciliana era, fin dall’inizio, molto più potente della camorra napoletana, molto più profondamente intrisa di potere politico, molto più feroce nella sua presa sull’economia. Perché? La risposta breve è che la mafia si è sviluppata su un’isola che non era solo senza legge: era un gigantesco istituto di ricerca per perfezionare modelli di business criminali.  

I problemi iniziarono prima dell’unificazione italiana, quando la Sicilia apparteneva al Regno delle Due Sicilie. L’autorità dello stato borbonico era più fragile in Sicilia che altrove. L’isola aveva una reputazione completamente giustificata come un crogiolo di rivoluzione. Oltre una mezza dozzina di rivolte minori, vi sono stati importanti insurrezioni nel 1820, 1848 e, naturalmente, nel maggio 1860, quando l’invasione rossa di Giuseppe Garibaldi ha innescato il rovesciamento del dominio borbonico sull’isola. La Sicilia ha barcollato tra la rivoluzione e la restaurazione dell’ordine.

Sotto i Borboni, Napoli ha fallito completamente nell’imporre l’ordine ai Siciliani, ei Siciliani si dimostrarono troppo politicamente divisi per imporre l’ordine a se stessi. C’era una volta, prima dell’invenzione della polizia, le milizie private legate ai grandi proprietari terrieri mantenevano la pace sulla gran parte dell’isola. All’inizio del diciannovesimo secolo, nonostante il tentativo di introdurre una forza di polizia centralizzata e moderna, la situazione ha iniziato a degenerare. Troppo spesso, invece d’essere imparziali esecutori della legge, i nuovi poliziotti erano semplicemente un’altra fonte di potere in competizione tra molti — cioè, criminali in uniforme. Accanto ai poliziotti c’erano eserciti privati, gruppi di banditi, bande armate di padri e figli, fazioni politiche locali, allevatori di bestiame: tutti loro hanno ucciso, rubato, estorto e distorto la legge nel loro stesso interesse.

A peggiorare le cose, la Sicilia stava attraversando anche i disordini provocati dal passaggio da un sistema feudale a un sistema capitalistico di proprietà terriera. La proprietà non sarebbe più stata tramandata solo da nobile padre a nobile figlio primogenito. Ora la potrebb’esser acquistato e venduto sul libero mercato. La ricchezza stava diventando più mobile di quanto non fosse mai stata. Nell’ovest della Sicilia c’erano meno grandi proprietari terrieri che a est, e il mercato per l’acquisto di terreni, in particolare per l’affitto e la gestione, era più fluido. Qui diventare un uomo di mezzi era più facile, purché uno fosse bravo con una pistola e potesse comprare buoni amici nella legge e nella politica.

Intorno al 1830 c’erano già segni di quale modello di business criminale sarebbe infine uscito vittorioso. A Napoli i membri delle sette patriottiche stringevano un’alleanza con i duri di strada della camorra. Ma nella Sicilia senza legge, dispersi documenti documentali ci dicono che le sette rivoluzionarie stesse a volte si sono trasformate in crimine. Un rapporto ufficiale del 1830 racconta di una setta ‘Charcoal Burner’ che si stava facendo strada nei contratti del governo locale. Nel 1838 un magistrato d’inchiesta borbonico ha mandato un rapporto da Trapani con notizie di quelli che chiamava ‘Unions or brotherhoods, sects of a kind’: queste Unioni formavano ‘piccoli governi all’interno del governo’; erano una cospirazione in corso contro l’amministrazione efficiente degli affari dello stato. Erano questi sindacati la mafia, o almeno i precursori della mafia? Potrebb’esser stato. Ma la documentazione del documentario è troppo frammentaria e parziale per essere sicuri.

La condizione della Sicilia sembrava peggiorare solo dopo che divenne parte dell’Italia nel 1860. I governi di Destra ha affrontato problemi ancora più gravi imponendo ordine qui rispetto a quello che ha fatto nel resto del sud. Una buona parte della classe politica della Sicilia ha preferito l’autonomia all’interno del Regno d’Italia. Ma la destra era fortemente riluttante a concedere quell’autonomia. Come poteva la Sicilia governare i propri affari, ragionava il governo di Destra, quando il panorama politico era pieno di una sfilata di demoni popolari? cioè, un clero reazionario che era nostalgico dei re borbonici; rivoluzionari che volevano una repubblica ed erano pronti ad allearsi con fuorilegge per ottenerlo; cricche politiche locali che hanno rubato, ucciso e rapito la loro strada verso il potere. Tuttavia, l’unica alternativa del il governo di Destra all’autonomia era la legge militare. La Destra ha governato la Sicilia con un pugno di ferro e un dito tremante. In tal modo, si è fatto odiare.

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Palermo, 1860: i prigionieri liberati sfilano per le strade il loro carceriere prima di sparargli. La mafia siciliana era incubata nella violenza politica dei primi anni della metà del 1800.

Nel 1865 ha arrivato la prima notizia della ‘cosiddetta Maffia o associazione criminale’. La Maffia era potente, e potentemente invischiata nella politica siciliana (o almeno così ha riferito un inviato del governo). Qualunque cosa significasse questa nuova parola ‘Maffia’ o ‘mafia’ (l’incertezza dello spelling era sintomatica di ogni sorta di misteri più profondi), forniva un’ottima scusa per l’ennesima repressione: rastrelli di massa di disertori, ladri di tiro e sospetti maffiosi debitamente seguito.”(Excerpt From: John Dickie. “Blood Brotherhoods.” iBooks.)

***

La Lega disciolta inizia così:

Al caffè, dove Bòmbolo stava tutto il giorno, col berretto rosso da turco sul testone ricciuto, un pugno chiuso sul marmo del tavolino in atto d’impero, l’altra mano al fianco, una gamba qua, una gamba là, guardando tutti in giro, senza disprezzo ma con gravità accigliata, quasi per dire: «I conti qua, signori miei, lo sapete, bisogna farli con me», venivano uno dopo l’altro i proprietarii di terre non soltanto di Montelusa, ma anche dei paesi del circondario, anche il vecchio marchese don Nicolino Nigrelli (quello che andava sempre col pomo d’avorio della mazzettina d’ebano sulle labbra appuntite, come se sonasse il flauto), anche il barone don Mauro Ragona, anche il Tavella, tutti insomma, con tanto di cappello in mano.

– Don Zulì, una grazia…

E Bòmbolo, all’atto deferente, subito – bisogna dirlo – balzava in piedi, si cavava il berretto, s’impostava sull’attenti e con la testa alta e gli occhi bassi rispondeva:

– Ai comandi, Eccellenza.

Erano le solite lagnanze e le solite raccomandazioni. Al Nigrelli erano spariti dalla costa quattro capi di bestiame; otto al Ragona dall’addiaccio; cinque al Tavella dalla stalla. E uno veniva a dire che gli avevano legato all’albero il garzone che li badava; e un altro, che gli avevano finanche rubato la vacca appena figliata, lasciando il buccelluzzo che piangeva e sarebbe morto di fame senza dubbio.

All’inizio ci viene presentato uno dei quattro protagonisti, don Bòmbolo Zulì. Don Zulì è un italiano (forse di nascita); ha, come vedremo, trascorso gran parte della sua vita adulta in Oriente, probabilmente in Turchia. Attualmente don Zulì vive a Montelusa, un pease nella campagna siciliana. (Cari lettori: Motelusa è un pease che siamo venuti a saperlo abbastanza bene!)

(Oltre don Zulì, gli altri tre protagonisti sono: i contadini che lavorano la terra vicino a Montelusa; gli uomini che possiedono questa terra, cioè i proprietari terrieri o padroni, alcuni dei quali fanno parte dell’aristocrazia; e tre uomini che sono criminali professionisti.)

Ci viene dato un ‘assaggio’ delle origini miste di don Zulì (“col berretto rosso da turco sul testone ricciuto”), che riflette il suo status come un ‘outsider’ a Montelusacosì come un’aspetto caratteristico di qualcuno dal sud Italia. Un uomo aggressivo sicuro arrogante, sembra che don Zulì abbia preso controllo di vita sua (“un pugno chiuso sul marmo del tavolino in atto d’impero, l’altra mano al fianco, una gamba qua, una gamba là, guardando tutti in giro, senza disprezzo ma con gravità accigliata, quasi per dire: «I conti qua, signori miei, lo sapete, bisogna farli con me»”). Mentre al caffè, si siede don Zulì e aspetta mentre i padroni vengano da lui… per lamentarsi e per cercare la sua guida (“venivano uno dopo l’altro i proprietarii di terre non soltanto di Montelusa, ma anche dei paesi del circondario, anche il vecchio marchese don Nicolino Nigrelli (quello che andava sempre col pomo d’avorio della mazzettina d’ebano sulle labbra appuntite, come se sonasse il flauto, il barone don Mauro Ragona, anche il Tavella, tutti insomma, con tanto di cappello in mano”).

I padroni, che possono essere o siciliani o stranieri, sono deferenti ed educati quando parlano (“- Don Zulì, una grazia…”) e vice versa (“E Bòmbolo, all’atto deferente, subito – bisogna dirlo – balzava in piedi, si cavava il berretto, s’impostava sull’attenti e con la testa alta e gli occhi bassi rispondeva: – Ai comandi, Eccellenza.”).

(Questa ‘cortesia / rispetto’ ci sembra essenzialmente falsa… come vedremo, è niente di più che una sottile ‘impiallacciatura’, cioè, qualcosa progettato a coprire una notevole risentimento, rabbia e odio tra di loro.)

Successivamente, apprendiamo che alcuni capi di bestiame sono stati rubati dai padroni su base regolare e continua. In un caso, i bestiami veniva rubato mentre pascolavano, in un altro caso sono stati rubati dall’addiaccio sulla proprietà del padrone, e in un altro caso sono stati rubati nelle loro stalle. Per proteggere i bestiami, alcuni dei padroni hanno fatto ricorso a dare lavoro a un garzone per proteggere gli animali, ma in un caso, dopo una rapina, gli è stata trovata legata ad un albero.

(Anche se, a questo punto, il motivo per cui i padroni vengano a don Zulì non è definito con precisione, ci sembra chiaro che lui non solo comprendele circostanze delle rapine ma è anche in grado di risolverele situazioni, cioè, è in grado d’organizzare il ritorno degli animali ai loro proprietari).

Ci viene anche chiarito che le simpatie di don Zulì non sono allineate con i padroni.

In prima Bòmbolo, invariabilmente, per concedere una giusta soddisfazione all’oltraggio patito, esclamava:

– Ah, birbanti!

Don Zulì richiede tempo per spiegare il motivo delle rapine. Ci sembra che i ladri siano contadini, uomini che in realtà lavorano per i padroni. Impariamo che i contadini sono costretti a lavorare in condizioni orribili per quasi nessuna paga. (I padroni sono descritti come avidi e senza scrupoli). Le condizioni di lavoro ingiuste e abusive sono una fonte di notevole frustrazione, rabbia e disperazione; sembra che non esserci un meccanismo nella società che consenterebbe al popolo di cercare e ricevere giustizia.

Poi, giungendo le mani e scotendole in aria:

– Ma, padroni miei, padroni miei… Diciamo birbanti; in coscienza però, a voltar la pagina, quanto tirano al giorno questi birbanti? Tre «tarì» tirano! E che sono tre «tarì»? Oggi com’oggi, un uomo, un figlio di Dio che lavora, povera carne battezzata come Vossignoria, non come me, io sono turco – sissignore – turco… eccolo qua – (e presentava il fez) – dicevamo, un uomo che butta sangue con la zappa in mano dalla punta dell’alba alla calata del sole, senza sedere mai, altro che per mandar giù a mezzogiorno un tozzo di pane con la saliva per companatico; un uomo che le torna all’opera masticando l’ultimo boccone, dico, padrone mio, pagarlo tre «tarì», in coscienza, non è peccato?

Don Zulì ricorda ai padroni che almeno un altro padrone ha iniziato a pagare i suoi contadini un salario equo e che, da allora, non è stato derubato.

Guardi don Cosimo Lopes! Dacché s’è messo a pagare gli uomini a tre lire al giorno, ha da lagnarsi più di nulla? Nessuno più s’attenta a levargli… che dico? – (allungava due dita, si tirava dal capo con uno strappo netto un capello e lo mostrava) – è buono questo? neanche questo! Tre lire, signorino, tre lire sono giuste!

Ancora una volta, don Zulì afferma il suo potere sulla situazione.

Faccia come le dico io; e, se domani qualcuno le manca di rispetto, tanto a lei quanto alle bestie, venga a sputarmi in faccia: io sono qua.

In un particolare giorno, il padrone che è venuto a lamentarsi è il vecchio marchese don Nicolino Nigrelli, da cui sono stati rubati quattro capi di bestiame;

In fine, cangiando aria e tono, concludeva: – Quanti capi ha detto? Quattro?

…don Zulì procede a fare uno ‘show’: tenta altruisticamente di trovare i bestiami. Tutti sembrano scontare.

Lasci fare a me. Vado a sellare.

E fingeva di mettersi in cerca di quei capi di bestiame per le campagne, due o tre giorni, cavalcando anche di notte sotto la pioggia e sotto lo stellato. Nessuno ci credeva, e nemmeno credeva lui che gli altri ci credessero.

(Come vedremo, don Zulì è ben consapevole che quattro capi di bestiame sono stati prelevati da don Nigrelli… dato che è stato proprio lui ad organizzare la rapina in primo luogo!)

Alla fine della sua ricerca, don Zulì torna a casa di don Nigrelli; viene accolto in modo effusivo, con grande cortesia, molto apprezzamento,

Sicché, quando in capo ai tre giorni, si presentava in casa o del marchese Nigrelli o del Ragona o degli altri, e questi lo accoglievano con la solita esclamazione: – «Povero don Zulì, chi sa quanto avete penato!»

…ma quest’ ricchezza di effusioni sembra poco importa a don Zulì: risponde scortesemente, desidera invece di concentrarsi sugli affari a portata di mano,

– egli troncava con un gesto reciso della mano l’esclamazione, chiudeva gli occhi con gravità:

– Lasciamo andare! – diceva.

…cioè, spiega che ha trovato i bestiami rubati e tutti sono vivi e ben curati,

– Ho penato, ma li ho scovati. E prima di tutto le do parte e consolazione che alle bestie hanno dato stalla e cura. Dove stanno, stanno bene.

…e prosegue, dicendo che i ladri sono in realtà i contadini che lavorano la terra vicino a Montelusa: sono uomini di buon carattere che si trovano intrappolati in una situazione lavorativa estremamente ingiusta. Conclude dicendo che è pronto a mediare il ritorno degli animali quella sera.

I «picciotti» non sono cattivi. Cattivo è il bisogno. E creda che se non fosse il bisogno, per il modo come sono pagati… Basta. Pronti a restituire le bestie; però, al solito, Vossignoria m’intende… Oh, trattando con Vossignoria, e con me di mezzo, senza né patti né condizioni: la sua buona grazia, quello che il cuore le detta. E stia sicuro che stanotte, puntuali, verranno a riportarle su la costa le bestie, più belle di prima.

In una digressione notevole, ci viene detto che don Zulì è sicuro di non esser arrestato / consegnato alla giustizia per il furto di bestiame. La sua fiducia deriva dal fatto che don Nigrelli è venuto da lui per chiedere aiuto. In sostanza, i padroni sono anchepresi in una situazione impossibile (anche se uno di loro): il problemache ‘spinge’ la situazione è l’avarizia dei padroni, che ha portato a un orribile trattamento ai contadini; l’azioneche ‘spinge’ la situazione è la decisione dei contadini di prendere cose nelle loro mani e commettere rapine (e, come vedremo, estorsione) per costringere i padroni a pagare un salario giusto. Oltre, i padroni e i contadini sono da soli: devono affrontare la situazione senza l’aiuto d’un governo forte e della regola di leggi giuste ed eque.

Gli sarebbe sembrata una mancanza di rispetto, così a sé come al signore, accennare anche lontanamente al sospetto, che quei bravi «picciotti» potessero trovare la notte in agguato guardie e carabinieri. Sapeva bene che, se il signore s’era rivolto a lui, era segno che stimava inutile il ricorrere alla forza pubblica per riavere le bestie. Non le avrebbe riavute, di sicuro. Nel riaverle così, mediante quel piccolo salasso di denari, con Bòmbolo di mezzo, ogni idea di tradimento doveva essere esclusa.

Poi ci viene rivelata l’estorsione,

E Bòmbolo prendeva il denaro, cinquecento, mille, duemila lire, a seconda del numero delle bestie sequestrate,

…e arriviamo a capire che i contadini sono stati organizzati in un’associazione, la Lega, allo scopo di ricevere giustizia. Don Zulì fa parte di quest’organizzazione.

e questo denaro ogni settimana, il sabato sera, recava intatto ai contadini della Lega, che si raccoglievano in un fondaco su le alture di San Gerlando.

Dopo il pagamento d’un padrone, il denaro pagato viene portato per intero ad un incontro della Lega ogni sabato sera. L’esborso del denaro a coloro che hanno lavoratoè calcolato in questo modo,

Qua si faceva la «giusta». Cioè, a ogni contadino che durante la settimana aveva lavorato per tre «tarì» al giorno (lire 1,25) veniva secondo giustizia computata la giornata in ragione di tre lire, e gli era dato il rimanente.

…ed è calcolato così a quelli che non hanno lavorato, non per colpa loro.

Quelli che, non per colpa loro, avevano «seduto», cioè non avevano trovato lavoro, ricevevano sette lire, una per giorno;

Quindi viene descritto un po’ del ‘sovraccarico’ della Lega. Prima di tutto, c’è un pagamento ogni settimana alle famiglie di tre uomini che, per caso, sono stati sorpresi a rubare i bestiami e poi mandati in prigione per tre anni. Questi uomini sono stati onorati dalla Lega perché si sono rifiutati di identificare i loro associati. Secondo, ci sono pagamenti ad altre potenti fazioni nella zona (“una parte della somma era poi destinata per gli sbruffi ai campieri”). Terzo, ci sono i pagamenti ai guardiani assunte dai padroni per proteggere il loro bestiame… questi pagamenti sono per il loro tempo e problemi mentre sono legati e imbavagliati (“ai guardiani di bestiame che, d’intesa, si facevano legare e imbavagliare”). Se venga lasciato del denaro, venga salvato.

prima però venivano detratte, come per sacro impegno, le pensioncine settimanali assegnate alle famiglie di tre socii, Todisco, Principe e Barrera che, arrestati per caso di notte da una pattuglia in perlustrazione e condannati a tre anni di carcere, avevano saputo tacere; una parte della somma era poi destinata per gli sbruffi ai campieri e ai guardiani di bestiame che, d’intesa, si facevano legare e imbavagliare; il resto, se ne restava, era conservato come fondo di cassa.

Successivamente apprendiamo che don Zulì non riceve nulla di questo denaro: ci viene spiegato che non ne ha bisogno, in parte perché ha fatto fortuna vivendo in Oriente.

Bòmbolo non toccava un centesimo, quel che si dice un centesimo. Erano tutte infamie, tutte calunnie quelle che si spargevano sul conto suo a Montelusa. Già egli non aveva bisogno di quel denaro. Era stato tanti anni nel Levante, e vi aveva fatto fortuna. Non si sapeva dove, precisamente, né come, ma nel Levante aveva fatto fortuna, certo; e non sarebbe andato appresso a quei pochi quattrinucci rimediati a quel modo.

Poi apprendiamo che don Zulì si è sposato la figlia d’una delle famiglie più anziane e più ricche (tra i padroni di Montelusa). Purtroppo sua moglie, la figlia del padrone, è morta dopo quattro anni di matrimonio, ed impariamo che don Zulì è rimasto rinato e amato dai suoi suoceri. Don Zulì ha un figlio da questo matrimonio, e un giorno dovrebbe ereditare la proprietà il figlio.

Aveva poi sposato una dei Dimìno, ch’erano notoriamente tra i più ricchi massari del circondario, massari buoni, di quelli all’antica, che avevano terre che ci si camminava a giornate senza vederne la fine; e zi’ Lisciànnaru Dimìno e sua moglie, quantunque la loro figliola dopo appena quattr’anni di matrimonio fosse morta, gli volevano ancora tanto bene, che si sarebbero levata la camicia per lui.

Per la seconda volta impariamo ‘l’alterità’ di don Zulì (es.) come accennato, non è siciliano… viene da un altro posto, come tutti possono chiaramente vedere / sentire.

Lo dicevano chiaramente quel suo berretto rosso e l’aria del volto e il sapore dei suoi discorsi e quello speciale odore che esalava da tutta la persona, un odor quasi esotico, di spezie levantine, forse per certi sacchettini di cuojo e bossoletti di legno che teneva addosso, o forse per il fumo del suo tabacco turco, di contrabbando, che gli veniva dalle navi che approdavano nel vicino porto di mare, e con le quali egli era in segreti commerci, almeno a detta di molti, che per ore e ore certe mattine lo vedevano con quel fiammante cupolino in capo guardare, come all’aspetto, sospirando, l’indaco del mare lontano, se da Punta Bianca vi brillasse una vela…

(A questo proposito, sarebbe interessante sapere se il Pirandello ha considerato don Zulì come una metafora della storia di invasione e conquista di Sicilia. Dopotutto, don Zulì è arrivato sull’isola da un altro continente, e adesso sta, apparentemente, dettando i termini da che vive il popolo siciliano (sia l’aristocrazia che la gente comune). Se questa speculazione è vera, può anche spiegare perché i padroni sembrano ‘play the game’ con la Lega: forse hanno imparato, per il duro esempio e l’esperienza, che il modo migliore per sopravvivere dopo invasione e conquista è ‘keeping one’s head down’ e ‘go with the flow’).

Ci è rivelato che don Zulì è il capo della Lega; è interessante notare che, nonostante il fatto che lo sia un uomo potente e aggressivo, ha bisogno della gratitudine / ammirazione dei contadini che serve.

Tutte calunnie. Egli era un apostolo. Egli lavorava per la giustizia. La soddisfazione morale che gli veniva dal rispetto, dall’amore, dalla gratitudine dei contadini che lo consideravano come il loro re, gli bastava.

Don Zulì sembra capire che, quando uno confronta i potenti, la forza sarà avuta dall’organizzazione e dal reclutamento,

E tutti in un pugno li teneva. L’esperienza gli aveva insegnato che, a raccoglierli apertamente in un fascio perché resistessero con giusta pretesa all’avarizia prepotente dei padroni, il fascio, con una scusa o con un’altra, sarebbe stato sciolto e i caporioni mandati a domicilio coatto.

…comprende anche le implicazioni d’un governo debole e corrotto,

Con la bella giustizia che si amministrava in Sicilia! Non se ne fidavano neanche i signori! Là, là nel fondaco di San Gerlando, amministrava lui, la giustizia, quella vera; in quel modo, ch’era l’unico. I signori proprietarii di terre volevano ostinarsi a pagar tre «tarì» la giornata d’un uomo? Ebbene, quel che non davano per amore, lo avrebbero dato per forza.

…e finalmente capisce la necessità di cercare giustizia senza ricorrere alla violenza.

Pacificamente, ohè. Senza né sangue né violenze. E col dovuto rispetto alle bestie.

(Don Zulì non ci sembra un criminale in carriera, invece sembra un uomo attento, pratico e un po’ idealistico.)

Successivamente, apprendiamo che don Zulì è la ‘chiave’ per l’operazione della Lega: decide i cui bestiami saranno rubati, e assembla la squadra di associati che eseguirà il furto.

Aveva un cartolare, Bòmbolo, ch’era come un decimario di comune, dove, accanto a ogni nome erano segnati i beni e i luoghi e il novero delle bestie grosse e delle minute. Lo apriva, chiamava a consulto i più fidati, e stabiliva con essi quali tra i signori dovessero per quella settimana «pagar la tassa», quali tra i contadini fossero più designati, o per pratica dei luoghi o per amicizia coi guardiani o perché d’animo più sicuro, al sequestro delle bestie.

Lui anche ricorda agli uomini d’esercitare cautela e prudenza. Non c’è bisogno d’un errore (‘il sangue è una grande spesa’).

E raccomandava prudenza e discrezione.

– Il poco non fa male!

Don Zulì sembra capire molto bene il concetto che ‘i mezzi che giustificano i fini’, cioè, la premessa dell’impresa criminale della Lega è che gli uomini comuni vengono sfruttati dai padroni avidi. Pertanto, si prende molta cura di assicurare che ogni associato che può lavorare lo faccia: nessun membro della Lega è autorizzato ad abusare il sistema: farlo potrebbe inevitabilmente portare a una criminalità ingiustificata — cioè, l’illegalità per il bene d’illegalità, e a quel punto la Lega avrebbe effettivamente cessare d’esistere.

Questa era una delle sue massime favorite. Diventava terribile, ma proprio col sangue agli occhi e la bava alla bocca, quando s’accorgeva o veniva a sapere che qualcuno della Lega «voleva far la carogna», cioè non lavorare. Lo investiva, lo abbrancava per il petto, gli metteva le unghie nel viso, lo scrollava così furiosamente, che gli faceva cader dal capo il berretto e venir fuori la camicia dai pantaloni.

– Cima di birbante! – gli urlava in faccia. – Chi sono io? per chi mi vuoi far conoscere? per chi mi prendi tu dunque? per un protettore di ladri e di vagabondi? Qua sangue s’ha da buttare, carogna! sangue, sudori di sangue! qua tutti con le ossa rotte dalla fatica dovete presentarvi il sabato sera! O questo diventa un covo di malfattori e di briganti! Io ti mangio la faccia, se tu non lavori; sotto i piedi ti pesto! Il lavoro è la legge! Col lavoro soltanto acquistate il diritto di prendere per le corna una bestia dalla stalla altrui e di gridare in faccia al padrone: «Questa me la tengo, se non mi paghi com’è debito di coscienza i miei sudori di sangue!».

Apprendiamo che la maggior parte degli associati rimane in silenzio ogni volta che don Zulì infuria. (Loro sono intimiditi dal suo comportamento).

Faceva paura, in quei momenti. Tutti, muti come ombre, stavano ad ascoltarlo nel fondaco nero, mirando la fiamma filante del moccolo di candela ritto tra la colatura su la tavola sudicia come una roccia di cacio. E dopo la fiera invettiva si sentiva l’ansito del suo torace poderoso, a cui pareva rispondessero, dalla tenebra frigida d’una grotta, che vaneggiava in fondo, i cupi tonfi cadenzati delle gocce d’una cert’acqua amara, renosiccia, piombanti entro una conca viscida, dove alle volte qualche ranocchia quacquarava.

Poi apprendiamo che la nozione che ‘i mezzi che giustificano i fini’ è precisamente ciò che spinge don Zulì in avanti. È convinto che i padroni siano stati avidi e che i contadini siano stati sfruttati. Di conseguenza, ha tentato d’intervenire, di correggere un torto, di migliorare le cose. Tuttavia, per raggiungere i suoi obiettivi ha fatto ricorso ad attività criminali, che gli ha portato ad alcuni disagi. (A volte lui sembra fare un grande sforzo per razionalizzare quello che sta facendo.)

Se qualcuno ardiva di levare gli occhi, vedeva in quei momenti, dopo la sfuriata, un luccicore di lagrime, di lagrime vere negli occhi di Bòmbolo. Era vanto supremo per lui la testimonianza che gli stessi proprietarii di terre rendevano unanimi, che mai come in quei tempi i contadini s’erano dimostrati sottomessi al lavoro e obbedienti. Solo da questo riconoscimento poteva venir purificata, santificata l’opera ch’egli metteva per loro. Orbene, in quei momenti, vedeva ignominiosamente compromessa la giustizia che, sul serio, con santità, sentiva d’amministrare; compromesso il suo apostolato, il suo onore, per quell’uno che poteva infamar tutti. Sentiva enorme, allora, il peso della sua responsabilità, e ribrezzo per l’opera sua, e sdegno e dolore, perché gli pareva che i contadini non gli fossero grati abbastanza di quanto aveva loro ottenuto, di quel salario di tre lire che, batti oggi, batti domani, era riuscito a strappare all’avarizia dei padroni.

Poi veniamo a sapere che ci sono dei momenti in cui la Lega è ‘corto di denaro’, con nessun padrone in programma per un furto. Recentemente, in una di queste situazioni, i suoi associati hanno suggerito un padrone a ‘bersigliare’ per rapina, fuori dalla sequenza normale, ma don Zulì ha rifiutato: farlo avrebbe coinvolto una violazione delle regole della Lega. Invece, notevolmente, don Zulì ha ordinato ai suoi uomini a ‘bersigliare’ il suo suocero per rapina (!) …anche se lui è stato uno dei primi padroni a pagare ai suoi uomini un salario giusto!!

Per lui erano sacri, e sacri voleva che fossero tutti i socii della Lega, quelli che si erano arresi alla sua costante predicazione, concedendo il giusto salario. Se talvolta mancava il danaro e, cercando e ricercando nel cartolare, non si trovava chi, al solito, per quella settimana dovesse «pagar la tassa», qualcuno tra i consiglieri accennava timidamente a uno di quelli; Bòmbolo si voltava a fulminarlo con gli occhi, bianco d’ira e fremente. Quelli non si dovevano toccare!

Ma, allora?

– Allora, – scattava Bòmbolo, buttando all’aria il cartolare, – allora, piuttosto, salassiamo mio suocero! E a due o tre contadini era assegnato il compito di recarsi la notte alle terre di Luna, presso la marina, per sequestrare sei o sette bestie grosse a zio Lisciànnaru Dimìno, che pure tra i primi s’era messo a pagare gli uomini a tre lire al giorno.

(Con questa decisione, don Zulì è stato effettivamente rubando da se stesso, o, per essere più precisi, da suo figlio, che un giorno erediterà la proprietà di suo nonno.)

I paragrafi successivi sono notevoli perché ci dice qualcosa sulla vita a Montelusa. Apprendiamo che il furto e l’estorsione del suocero hanno avuto luogo. Poi don Zulì viene affrontato dal suocero, che non può credere a quello che è successo. Don Zulì non ha una risposta da dare, solo abietto rimpianto e dispiacere.

Poteva bastar questo a turare la bocca ai calunniatori. Salassando il suocero, Bòmbolo rubava a se stesso, perché l’unico erede dei Dimìno sarebbe stato un giorno il suo figliuolo. Ma piuttosto rubare a se stesso, al suo figliuolo, che far offesa alla giustizia. E che strazio ogni qual volta il vecchio suocero, che vestiva ancora all’antica, con le brache a mezza gamba, la berretta nera a calza con la nappina in punta e gli orecchini in forma di catenaccetti agli orecchi, veniva a trovarlo, appoggiato al lungo bastone, dalle terre di Luna, e gli diceva:

– Ma come, Zulì? così ti rispettano i tuoi? e che sei tu allora? broccolo sei?

– Mi sputi in faccia, – rispondeva Bòmbolo, succiando, con gli occhi chiusi, il fiele di quel giusto rimbrotto. – Mi sputi in faccia, che posso dirle?

Quindi il suocero di don Zulì ha saputo d’affrontarlo dopo che i suoi bestiami sono stati rubati, e in ogni probabilità, tutti in Montelusa siano tutto di tutti gli altri!Quindi, l’associazione di don Zulì con la Lega sembra esser conoscenza comune a Montelusa.

A questo punto, la narrazione prende una brusca svolta. Nel primo posto, i tre prigionieri (Todisco, Principe e Barrera) sono rinvenuti. Secondo, don Zulì ha deciso di ritirarsi: ha considerato il suo lavoro da completare quindi ha deciso di disciogliere la Lega ed unirsi ai padroni. Ci sarà una festa per il ritorno degli uomini, e questo è quando don Zulì farà il suo annuncio.

Gli pareva ormai mill’anni che uscissero dal carcere quei tre socii, Todisco, Principe e Barrera, per sciogliere finalmente quella Lega, ch’era divenuta un incubo per lui.

Fu una gran festa, il giorno di quella scarcerazione, nel fondaco su a San Gerlando: si bevve e si danzò; poi Bòmbolo, raggiante, tenne il discorso di chiusura, e ricordò le imprese e cantò la vittoria, ch’era il premio per quei tre che avevano sofferto il carcere: il premio più degno, quello di trovare mutate le condizioni, onestamente retribuito il lavoro; e disse in fine che egli ora, assolto il compito, si sarebbe ritirato in pace e contento; e fece ridere tutti annunziando che quel giorno stesso avrebbe mandato il suo berretto rosso da turco al suocero, che non aveva saputo mai vederglielo in capo di buon occhio. Deponeva con quel berretto la sovranità, e dichiarava sciolta la Lega.

Passano quindici giorni. In questo periodo è passata ‘silenziosamente’ la notizia che la Lega è stata disciolta. Purtroppo, l’aspettativa che l’attività criminale della Lega andrebbe anche cessare è stato presto rivelata d’esser sbagliata.

Don Zulì è stato nel caffè quando don Nigrelli l’ha informato che alcuni dei suoi bestiami venivano rubati.

Non passarono neppure quindici giorni che, dimenandosi al solito di qua e di là, col pomo d’avorio della mazzettina d’ebano su le labbra appuntite, si presentò al caffè il vecchio marchese don Nicolino Nigrelli:

– Don Zulì, una grazia…

Bòmbolo diventò dapprima più bianco del marmo del tavolino e fissò con occhi così terribilmente spalancati il povero marchese, che questi ne tremò di paura e, traendosi indietro, cadde a sedere su una seggiola, mentre l’altro gli si levava sopra furente, ruggendo tra i denti:

– Ancora?

Quasi basito, eppur tentando un sorrisetto a fior di labbra, il marchese gli mostrò quattro dita della sua manina tremicchiante e gli disse:

– ‘Gnorsì. Quattro. Al solito. Che c’è di nuovo?

Don Zulì esplode di rabbia.

Per tutta risposta Bòmbolo si strappò dal capo il cappelluccio nuovo a pan di zucchero, se lo portò alla bocca e lo stracciò coi denti. Si mosse, tutto in preda a un fremito convulso, tra i tavolini, rovesciando le seggiole, poi si voltò verso il marchese ancora lì seduto in mezzo agli avventori sbalorditi, e gli gridò:

– Non dia un centesimo, per la Madonna! Non s’arrischi a dare un centesimo! Ci penso io!

Con ogni probabilità, i tre ex-prigionieri fossero uomini umili e semplici prima che andassero in prigione, solo per tornare a Montelusa come criminali professionisti esperti ed induriti, e, molto probabilmente, loro abbiano ordinato la rapina.

Ma potevano sul serio quei tre, Todisco, Principe e Barrera, contentarsi di quel tal «premio degno» decantato da Bòmbolo nell’ultima riunione della Lega? Se Bòmbolo stesso, negli ultimi tempi, aveva permesso che fosse salassato il proprio suocero, il quale pure tra i primi aveva accordato il salario di tre lire ai contadini, non potevano essi, per la giustizia, seguitare a salassar gli altri proprietarii?

Don Zulì cerca gli uomini: li trova e li assale fisicamente; anche li minaccia. Tuttavia gli uomini sembrano imperturbabili, stranamente calmi. Abbiamo la sensazione che i loro dinieghi a don Zulì siano bugie, chiare e semplici.

Quando, alla sera, Bòmbolo, che li aveva cercati invano tutto il giorno da per tutto, li trovò su le alture di San Gerlando, e saltò loro addosso come un tigre, essi si lasciarono percuotere, strappare, mordere, malmenare, e anzi dissero che se egli li voleva uccidere, era padrone, non avrebbero mosso un dito per difendersi, tanto era il rispetto, tanta la gratitudine che avevano per lui. Li avrebbe uccisi però a torto. Essi non sapevano nulla di nulla. Innocenti come l’acqua. Lega? che Lega? Non c’era più Lega! Non la aveva egli disciolta? Ah, minacciava di denunziarli? Perché, per il passato? E allora, tutti dentro, e lui per il primo, come capo! Per quel nuovo sequestro al marchese Nigrelli? Ma se non ne sapevano nulla! Avrebbero potuto tutt’al più chiederne ai «picciotti»; mettersi in cerca per le campagne; già! come lui un tempo, per due e tre giorni, cavalcando anche di notte sotto la pioggia e sotto lo stellato.

Don Zulì minaccia ancora una volta gli uomini.

Sentendoli parlare così, Bòmbolo si mangiava le mani dalla rabbia. Disse che dava loro tre giorni di tempo. Se in capo a tre giorni, senza il compenso neppure di un centesimo, i quattro capi di bestiame non erano restituiti al marchese Nigrelli… – che avrebbe fatto? Ancora non lo sapeva!

L’ironia della nuova situazione è rivelata. Questi tre uomini non hanno preoccupazioni o delusioni su ciò che fanno, sono senza scrupoli. Inoltre, don Zulì non è più al potere,

Ma che poteva ormai fare Bòmbolo? Gli stessi proprietarii di terre, il marchese Nigrelli, il Ragona, il Tavella, tutti gli altri, lo persuasero ch’egli non poteva più far nulla. Che c’entrava lui? quando mai c’era entrato? non era stata sempre disinteressata l’opera messa da lui? E dunque, che c’era adesso di nuovo? Perché non voleva più mettere l’opera sua? Rivolgersi alla forza pubblica? Ma sarebbe stato inutile! Che non si sapeva? Non avrebbero ottenuto né la restituzione delle bestie, né l’arresto dei colpevoli. Sperare poi che questi avrebbero ricondotto alle stalle le bestie, così, per amore, senz’averne nulla, via, era da ingenui. Loro stessi, i padroni, glielo dicevano. Una cosellina bisognava pur darla. Sì, al solito… oh, senza né patti né condizioni, essendoci lui, Bòmbolo, di mezzo!

…e non ha più il sostegno dei padroni.

E dal tono con cui gli dicevano queste cose Bòmbolo capiva che quelli ritenevano una commedia, adesso, il suo sdegno, come una commedia avevano prima ritenuta la sua pietà per i contadini.

Questa è una pillola estremamente amara da ingoiare. La Sicilia, a quanto pare, è sopravvissuta a don Zulì. Imballa le sue cose e, totalmente sconfitto, lascia l’isola e torna in Oriente.

Si sfogò per alcuni giorni a predicare che, almeno, si fossero rimessi a pagarli tre tarì al giorno, tre tarì, tre tarì, per dare a lui una soddisfazione. Non li meritavano, parola d’onore! neppure quei tre tarì meritavano, ladri svergognati! figli di cane! pezzi da galera! No? Ah, dunque volevano proprio che gli schiattasse nel fegato la vescichetta del fiele?

– Via! puh! paese di carogne!

E mandò dai nonni alle terre di Luna il suo figliuolo, facendo dire al suocero che rivoleva subito subito il suo berretto rosso. Turco, di nuovo turco voleva farsi!

E due giorni dopo, raccolte le sue robe, scese al porto di mare e si rimbarcò su un brigantino greco per il Levante.

 

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