Riassunto: L’ombrello

– «Pue le bacchette, pue le bacchette» – ripeteva Mimi, sgambettando e cercando di pararsi davanti alla mamma che la teneva per mano sotto l’ombrello.

All’altro lato Dinuccia, la sorellina maggiore, andava come una vecchina, seria e precisa, reggendo a due mani un altro ombrello, già vecchio, sforacchiato, che presto, comperato il nuovo, sarebbe passato alla serva.

– «E pue l’ombello», – seguitava Mimi, – «due ombello, due tappotti, quatto bacchette.»

Inizia così la novella L’ombrello(L. Pirandello) che descrive una famiglia in transizione… cioè, una famiglia che fatica o lotta ad adattarsi alle sue nuove circostanze tragiche in seguito alla morte di recente del marito / padre. Come vedremo la nuova dinamica familiare è complessa ed imperfetta e, a suo modo, completamente e profondamente inquietante.

La storia inizia introducendo il lettore ai tre protagonisti, una madre e le sue figlie. Mimi, la sorella minore, è ancora troppo giovane per aver padroneggiato l’italiano colloquiale. (Impareremo che questo è il suo primo anno di scuola.) Mimi è anche una delizia: spensierata, senza riserve, di buon carattere, innocente, ingenua, felice va bene, inesperta, estroversa. Al contrario, Dinuccia, la sorella maggiore (pensiamo che sia ancora alle elementari) sembra condividere poco della personalità di Mimi, in quanto è riservata, severa / cupa, precisa, seria, guardinga, introversa. Dinuccia è descritta come una ‘vecchina’… a nostro avviso, una descrizione sconcertante (si potrebbe anche dire misteriosa o enigmatica) per qualcuna giovane come Dinuccia sembra essere.

All’inizio della novella impariamo che la madre, che rimarrà senza nome, ha deciso d’andare a fare lo shopping con le figlie una sera dopo scuola. Impariamo che il tempo sta cambiando, cioè l’inverno sarà presto qui, e che le figlie hanno bisogno di vestiti ed altri oggetti che li proteggeranno durante la loro passeggiata, ogni giorno, da e per la scuola. Verso questo fine, la madre ha progettato d’acquistare nuove galosce, cappotti ed ombrelli.

Questa sera si dice che la madre sia un po’ preoccupata… impaziente, di fretta, un po’ agitata. Mentre tutt’e tre iniziano a camminare verso la sua destinazione, si accendono le luci delle strade elettriche.

– Sì, cara; le barchette e tutto; ma andiamo, su! – la esortava la mammina impaziente, che voleva andare spedita tra il confuso viavai della gente che spiaccicava pur lì sul marciapiedi, sotto lo spruzzolio incessante d’una lenta acquerugiola.

Con sordi ronzii, tra accecanti sbarbagli le lampade elettriche già s’accendevano, opaline, rossastre, gialligne, davanti alle botteghe.

Allora… a questo punto, ci viene spiegato un po’ del retroscena della famiglia.

In primo luogo, apprendiamo che la preoccupazione della madre potrebb’esser perché ha avuto aspettato troppo a lungo per acquistare questi oggetti per le figlie, cioè, che l’inverno in effetti è già arrivato quindi potrebbero aver sofferto le figlie mentre camminavano a scuola.

Pensava, andando, quella mammina frettolosa, che le stagioni non avrebbero dovuto mutar mai, e l’inverno, sopra tutto, mai venire.

Poi apprendiamo che di recente la madre ha dovuto affrontare diverse altre spese, (es.) spese per i libri di scuola e per le tasse scholastiche,

Quante spese! E per i libri di scuola, che sempre ogni anno di nuovi;

…ed adesso, le spese per i vestiti, ecc.

e ora per riparare dal freddo, dal vento, dalla pioggia

Impariamo anche che la madre è una vedova e che la morte di suo marito ha creato un ammanco significativo nelle finanze della famiglia.

quelle due povere piccine rimaste orfane prima che l’ultima avesse avuto il tempo d’imparare a dir babbo.

Tutto ciò ha portato la madre a preoccuparsi, specialmente come lei osserva le figlie lasciare a casa così ‘impreparate’.

Carnucce tenere! che strazio vederle andar fuori così sprovviste di tutto, certe mattine!

Certamente la madre era preoccupata come ha lottato a pagare le sue bollette,

Lei s’adoperava in tutti i modi; ma come bastare, con quel po’ di pensioncina lasciata dal marito,

…al punto di preoccuparsi del collasso finanziario della famiglia,

quando poi il crollo viene inatteso,

…una possibilità che potrebb’esser stata amplificata dalla realtà, ogni giorno, delle circostanze ridotte e ristrette della famiglia.

e da tant’anni s’ha l’abitudine di viver bene?

Vediamo che la madre non era disposta a trasferire le figlie da una scuola privata a una scuola pubblica, anche se sarebbe stato prudente farlo.

Quest’anno anche Mimi aveva cominciato a frequentare il giardino d’infanzia, ed erano altre sei lire al mese di tassa; perché… ma sì, non aveva saputo togliere Dinuccia, la maggiore, dalle scuole a pagamento per mandarla a quelle pubbliche; e le toccava di pagare per due, adesso. E le tasse erano il meno! Tutte alunne per bene, in quella scuola, e le sue piccine non dovevano sfigurare.

A suo credito la madre non ha scelto d’affidarsi semplicemente alla pensioncina del marito. Dopo la morte del marito, lei è tornata a scuola e ha completato la sua formazione per diventare un’insegnante; e poi ha abilmente ottenuto un lavoro. Sfortunatamente, tuttavia, era scarso il suo stipendio, e rimaneva irrisolta la lotta per pagare i suoi conti.

Non si perdeva lei, no: morto il marito, che aveva vent’anni più di lei, pur dovendo attendere a quelle due creaturine, aveva avuto la forza di ripigliare gli studii interrotti all’ultimo anno; aveva preso il diploma; poi, avvalendosi del buon nome lasciato dal marito e delle molte aderenze ch’egli aveva, facendo anche considerare le sue tristi condizioni, era riuscita a ottenere una classe aggiunta in una scuola complementare. Ma la retribuzione, insieme con la pensioncina del marito, non bastava o bastava appena appena.

Poi impariamo che le vicine erano consapevole della situazione della famiglia, e sembravano sentirsi libere di commentare / chiacchierare / spettegolare… (es.) hanno elogiato la madre per i suoi sacrifici e per i suoi sforzi per trovare un lavoro, ma sembravano anche unanime nella loro convinzione che lei dovrebbe risposarsi.

Se avesse voluto… Non vestiva bene; non si curava più per nulla di sé; si pettinava, là, alla svelta, ogni mattina; s’appuntava un cappellino che non era più neanche di moda; e via alla scuola, senza guardare mai nessuno; eppure, se avesse voluto, già due partiti. Chi sa perché, anche quella sera là, mentre andava frettolosa fra le sue bambine, tutti si voltavano a mirarla; e pioveva! Figurarsi, però, se lei avrebbe voluto mai dare un altro babbo a Dinuccia e a Mimi. Pazzie! pazzie!

Quell’ammirazione, intanto, quegli sguardi ora arditi e impertinenti, ora languidi e dolci, colti a volo per via, con apparente fastidio o anche, certe volte, con sdegno, le cagionavano in fondo una frizzante ebbrezza; le ilaravano lo spirito; davano quasi un sapore eroico a quella sua rinunzia al mondo, e le facevano stimar bello e lieve il sacrifizio per il bene delle due figliuole.

Sembra difficile negare l’importanza dei pettegolezzi per la madre; immaginiamo che lei fosse una giovanotta con poca esperienza di vita… si diceva che lei fosse confusa a volta, ansiosa e preoccupata mentre lottava per fare ciò che era meglio per sé e per le figlie.

Era un po’ il piacere dell’avaro, il suo; dell’avaro che non soffre tanto delle privazioni a cui s’assoggetta, pensando che, se volesse, potrebbe godere senz’alcuna difficoltà.

Ma che sarebbe dell’avaro, se da un momento all’altro l’oro del suo forziere perdesse ogni valore?

La riluttanza della madre a prendere una decisione pratica per quanto riguarda la scuola privata sembra aver lasciato la famiglia a rischio finanziariamente. Invece di negare le sue figlie però la madre sacrificava spesso (cioè, si è negata) e, nel tempo, questo sembra aver creato un continuo, basso livello di frustrazione, rabbia, ansia e risentimento. Di conseguenza, è cambiata la personalità della madre: ha sofferto frequenti sbalzi d’umore oscuri ed arrabbiati che l’hanno portata a sfogarsi o infuriarsi.

Ebbene, certi giorni, senza saper perché, o meglio, senza volersene dire la ragione, ella cadeva in una cupa irrequietezza; era agitata da una sorda irritazione, che cercava in ogni più piccola contrarietà (e quante ne trovava, allora!) un pretesto per darsi uno sfogo. Le erano mancati per via quegli sguardi, quell’ammirazione.

Dei due bambini Dinuccia è abbastanza grande da aver riconosciuto sia il cambiamento delle circostanze della famiglia che il cambiamento della personalità di sua madre. Anche se non è esplicitamente affermato, la personalità di Dinuccia sembra anche esser cambiata, cioè, sembra che lei sia diventata timida e ritirata e questo, sfortunatamente, sembra aver provocato sua madre. Così, un ciclo negativo sembra essersi sviluppato nel corso del tempo… un ciclo in cui il comportamento cauto ed introverso di Dinuccia avrebbe provocare sua madre, che si sarebbe poi infuriare contro Dinuccia (poverina), che poi sarebbe diventare ancora più cauta ed introversa.

E segnatamente sulla maggiore delle figliuole, su Dinuccia, si scaricava allora la maligna elettricità di quelle torbide giornate. La piccina, senza saperlo, attirava quelle scariche col suo visino pallido, silenziosamente vigile, coi suoi sguardi attoniti e serii, che seguivano la mammina furiosa, la mammina che si sentiva spiata e credeva di scorgere un rimprovero in quell’attonimento penoso e in quello sguardo serio e indagatore.

Quando la madre ha infuriato, lei potrebbe facilmente offendere le sensibilità delle sue figlie.

– Stupida! – le gridava.

(A questo punto ci preoccupiamo che Dinuccia abbia mostrato qualche dei sintomi ei segni d’una bambina che è stata sottoposta ad abuso emotivo (es.) ci sembra profondamente preoccupante leggere che Dinuccia è costretta a cercare costantemente i segni della rabbia imminente di sua madre, in modo che possa difendersi.)

Dinuccia è anche abbastanza matura per essere in grado di vedere le cose come sono. Lei sembra capire, per esempio, che la vita della famiglia è cambiata in modo significativo da quando suo padre è morto; anche sembra riconoscere i difetti di sua madre.

Stupida, perché? Perché non capiva la ragione per cui la mammina era così nervosa, quel giorno, e cattiva? Ma se non voleva capirla neanche lei, questa ragione! Era soltanto meravigliata, la piccina, di non vederla gaja come gli altri giorni, ecco. Meravigliata? Si meravigliava a torto; perché non tutti i giorni si può essere gaj; e non era mica gioconda per la mammina quella vita di stenti e d’angustie. Lo sapeva bene lei sola, quanti pensieri e quanti bisogni e quante difficoltà.

Tuttavia Dinuccia è ancora una bambina, e resta il fatto che lei sembra essere stata ripetutamente e ingiustamente sottoposto ad abuso verbale da parte di sua madre.

Soffocava così il rimorso d’aver maltrattato e fatto piangere ingiustamente la bambina. Erano pur veri sì, i pensieri, gli stenti, i bisogni, le angustie, le difficoltà; ma il non voler confessare a se stessa la vera ragione della sua tristezza e della sua nervosità la rendeva ancora più triste e nervosa.

Scopriamo che Mimi ha servito come un buffer di sorta… cioè, una che possa interrompere il ciclo negativo della dinamica familiare.

Per fortuna, c’era l’altra piccina, Mimi, che faceva ogni volta il miracolo di rasserenarla tutt’a un tratto, con qualcuno de’ suoi vezzi infantili, pieni di grazia, irresistibili.

Questo potrebb’essere perché Mimi è troppo giovane per comprendere i cambiamenti che si sono verificati nella famiglia, ma anche a causa della sua capacità d’esprimere una preoccupazione per sua madre, che sembra aver avuto un effetto calmante.

Mimi prima la guardava, la guardava per un pezzo, ma non con quegli occhi vigili e serii della maggiore; con occhi ingenui e amorosi la guardava; poi faceva parlare quello sguardo, soffiando coi labbruzzi di ciliegia:

– Mammina bella!

Si alzava, s’inchinava con le manine a tergo e domandava, scotendo tutti i riccioli neri della testina:

– Vuoi bene?

Così. Non diceva:«Mi vuoi bene» ma per tutti, semplicemente: «Vuoi bene?». E allora ella le tendeva le braccia e appena quel batuffoletto le saltava al collo, se lo stringeva forte forte al seno, rompendo in pianto; chiamava subito a sé anche Dinuccia; le abbracciava tutt’e due, con fremente tenerezza, carezzando anche di più la piccina poc’anzi maltrattata; e godeva di sentirsi inebbriare da quest’altra gioja pura, che nasceva dal suo dolore e dalla sua bontà, che nasceva veramente dal suo sacrificio, imposto dalla crudeltà della sorte, e ch’ella era felice, felice di compiere per quelle due creaturine, unicamente per loro.

Allora… a questo punto della storia, torniamo al loro giro di shopping. Tutt’e tre sembrano spensierate e felice,

Quella sera, intanto, la mammina era molto gaja.

…ed eventualmente loro arrivano alla destinazione. Il pensiero dell’acquisto nuovi galosce, cappotti ed ombrelli porta Mimi ad un’eccitazione quasi incontrollabile.

– Su, Mimi! Ecco, è qua: siamo arrivate!

La bambina era restata a bocca aperta davanti a certe grandi vetrine abbarbaglianti in capo a via Nazionale. Tirata dalla mamma, entrò nella bottega, ripetendo ancora una volta:

– «Le bacchette! Pima le bacchette!».

Un commesso si avvicina alla madre… che spiega (con qualche difficoltà) che desidera acquistare galosce per tutt’e due le figlie.

– Ecco, sì, zitta! – le gridò la madre, a cui s’era fatto innanzi un commesso di negozio. – Barch… cioè, vedi? lo fai dire anche a me. Mi dia due paja di…

– «Bacchette!»

– E dalli! «Calosce», per queste bambine. Le chiama barchette la mia piccina. Veramente, si potrebbero anche chiamare così, per non usare quella parolaccia forestiera.

– Soprascarpe, – suggerì asciutto, con aria di sufficienza il commesso, inarcando le ciglia.

Barchette però sarebbe più carino.

Mimi insiste che dovrebb’essere la prima a ricevere le galosce. Sua madre tenta di tranquillizzarla, o almeno di costringerla a comportarsi bene, quando — improvvisamente, inspiegabilmente — si oscura il suo umore.

– «Pima a me! Pima a me!» – gridava intanto Mimi, arrampicatasi sul divano, agitando i piedini.

– Mimi! – la sgridò la mamma, guardandola severamente e cangiandosi in volto.

Quasi istantaneamente, Dinuccia prende atto della rabbia imminente di sua madre e, mentre adotta una postura difensiva, si è trasformata la sua personalità. A questo punto sia la madre che la figlia sembrano perse nei propri pensieri… ognuna per le proprie ragioni,

Subito Dinuccia notò questo repentino cambiamento, e assunse, con gli occhi attoniti e serii, quell’aria di attonimento penoso, che tanto urtava la madre.

…mentre Mimi carica avanti.

E nessuna delle due badò alla gioja di Mimi, a cui quell’antipatico commesso aveva già provato la prima «barchetta». Voleva subito subito scendere dal divano per camminarci, senz’aspettare l’altra.

Si rivelano troppo grandi le galosce portate per Mimi,

– Qua, ferma, Mimi! O via a casa! Troppo larga, non vedi? Qua!

…e il commesso vuole vedere se, invece, queste potrebbero adattarsi a Dinuccia,

Il commesso, prima d’andare a prendere un altro pajo d’ultima misura, avrebbe voluto provare quelle alla maggiore;

…ma Dinuccia si rimette da sua sorella,

ma Dinuccia si schermì, indicando la sorellina:

– Prima a lei.

…solo per subire un rimprovero aspro da parte di sua madre,

– Stupida, è lo stesso! – le gridò la madre,

…che poi tenta di prendere controllo della situazione.

prendendola sotto le ascelle e sedendola con mal garbo sul divano. Intanto, per quietare Mimi, disse al commesso che gliel’avrebbe calzate lei, quelle, alla maggiore; e che egli per piacere andasse nel frattempo a prendere il pajo per la piccola.

(Qui, la madre ha efficacemente negato la generosità di Dinuccia nei confronti della sorella.)

Dopo un po’ entrambe le ragazze hanno le galosce nuove, ma Dinuccia è di nuovo allertata alla rabbia di sua madre mentre lei discute / contratta sul prezzo delle galosce.

Dinuccia, calzata, rimase a sedere sul divano; Mimi invece ne scivolò via lesta, battendo le mani, e si mise a saltare, a girare su se stessa come una trottolina, cacciando gridi di gioja; e ora levava un piede, ora l’altro, per guardarselo. Dal divano, Dinuccia la guardava, e sorrideva pallidamente. Si rifece seria, udendo la madre esclamare:

– Quaranta lire? Venti il pajo?

Adesso sembra chiaro che la madre abbia ritardato il giro di shopping finché abbia avuto risparmiato abbastanza soldi per coprire i costi. Ciònonostante rimase delusa dal costo d’un paio di galosce.

– Fabbrica americana, signora, – rispose il commesso, opponendo alla maraviglia della compratrice la freddezza dignitosa di chi conosce il valore della merce che si vende in bottega. – «Articolo» indistruttibile. Lei lo può stringere in un pugno, guardi!

– Capisco, ma… scusi, per un piedino così, venti lire?

E il commesso:

– Due soli prezzi, signora: per i piccoli, venti lire; per i grandi, trentacinque. Un po’ più lunghe, un po’ più corte, capirà, ciò che conta è la fattura.

– Non me lo sarei mai aspettato! – confessò allora, afflitta, la mammina. – Avevo calcolato, al più al più, venti lire per tutt’e due.

– Uh, non lo dica nemmeno! – protestò il commesso, quasi inorridito.

La madre persiste chiedendo uno sconto, ma è negata.

– Guardi, – si provò ad allettarlo la mammina, – dovrei comperare altra roba: due «loden», pure per le piccine; due ombrelli.

– Abbiamo tutto.

– Lo so; sono venuta qua apposta. Mi faccia qualche riduzioncina. Il commesso alzò le mani, inflessibile:

– Prezzi fissi, signora. Prendere o lasciare.

Poi la madre chiede quanto costa un cappotto,

La mammina gli lanciò uno sguardo torbido, di sdegno. Facile a dire, lasciare! Come togliere dai piedini a Mimi le barchette? La solita furia. Avrebbe dovuto prima contrattare, ecco. Ma poteva mai supporre che gliene domandassero tanto? E poi, se erano prezzi fissi… Aveva calcolato di spendere in tutto centoventi lire; più non poteva.

– I «loden», – disse, – mi faccia vedere. Che prezzo hanno?

– Ecco, favorisca di qua.

…e poi decide improvvisamente d’ingannare Mimi per rinunciare le sue galosce: la madre ha intenzione d’acquistare, questa sera, solo i cappotti e gli ombrelli e poi, qualche tempo dopo, le galosce (cioè, in un altro negozio e per meno soldi).

– Dinuccia! Mimi! – chiamò la mammina irritata. – Buona, sai, Mimi, o ti levo le calosce! Vieni qua. Lasciami vedere! Non ti vanno troppo larghe anche queste?

Voleva tentare di levargliele per provare se le riuscisse di trovarne a minor prezzo in qualche altra bottega. Le veniva ormai di schiaffeggiarlo quel commesso.

Tuttavia, Mimi si rifiuta di collaborare.

– «Lagghe? No, belle!» – gridò Mimi, ribellandosi.

– E lasciami vedere!

– «Belle no, belle! tanto belle!» – seguitò Mimi, scappando via.

E si mise a soffiare, gonfiando le gote, e ad agitare i braccìni e a sgambettare, come se fosse in mezzo all’acqua e vi passasse sicura, con quelle barchette ai piedi.

Veniamo a sapere che la madre ha portato 135 L e che, insieme, le galosce ei cappotti costeranno 120 L, lasciando abbastanza soldi per acquistare solo un ombrello invece di due.

La degnò di un sorriso, alla fine, quel commesso di negozio. Ma non l’avesse mai fatto! Vedendolo ridere come per compassione, la mammina sentì rimescolarsi tutto il sangue. Pensò che aveva soltanto centotrentacinque lire nella borsetta. I «loden», quaranta lire l’uno; quaranta le due paja di soprascarpe; non ne restavano che quindici, poche per due ombrelli: sì e no, avrebbe potuto comperarne uno, e d’infima qualità.

Quasi immediatamente, nel negozio, le figlie iniziano a litigare per l’ombrello nuovo,

Ora, il piacere delle bambine era appunto d’avere un ombrello per ciascuna, l’ombrello e le barchette. A quei cappotti impermeabili, grevi, grigi, pelosi, non fecero alcuna festa: e quando seppero che di ombrelli non se ne poteva comperar che uno, cominciarono le liti.

…e mentre continuano a discutere, la madre è costretta a prendere l’ombrello da entrambi.

Dinuccia sosteneva con ragione che toccava a lei, ch’era la più grande; ma Mimi non voleva sentirla questa ragione, poiché un ombrello era stato promesso anche a lei; e invano la mamma, per metter pace, badava a ripetere che non sarebbe stato né dell’una né dell’altra, ma di tutt’e due in comune, dovendo andare a scuola insieme.

– «Pelò, lo lleggio io!» – protestò Mimi.

– No, io! – si ribellò Dinuccia.

– Un po’ l’una, un po’ l’altra, – troncò la madre, e rivolgendosi a Mimi: – Tu non potrai; non saprai reggerlo.

– «Sì che lo lleggio!»

– Ma se è più alto di te, non vedi?

E, per fargliene la prova, la mammina glielo pose accanto. Subito Mimi se lo strinse al petto con tutte e due le braccia. Questa parve a Dinuccia una prepotenza, e stese le mani per strapparglielo.

– Vergogna! – gridò la mamma. – Che spettacolo! che bambine per bene! Qua, a me l’ombrello! Non l’avrà nessuna delle due!

Dopo aver completato i loro affari, tutt’e tre si preparano a tornare a casa. Le bambine sono imbronciate… cioè, perse nei proprii pensieri: “Chi verrà dato l’ombrello la mattina dopo?” “Quale di loro sceglierà la mamma?”

Per via, benché coi «loden» addosso e le barchette ai piedi, le due bambine andarono taciturne, imbronciate, con gli occhietti sfavillanti, fisso il pensiero a quell’ombrello, per cui la lite si sarebbe certo riaccesa, appena varcata la soglia di casa. La proprietà, in comune: va bene; ma a chi lo avrebbe affidato, la mattina appresso, la mamma?

Poi Dinuccia cerca per spiegare perché il nuovo ombrello dovrebbe affidato a lei,

Tutto era qui: portarlo aperto per via, quell’ombrello, sotto la pioggia! E Dinuccia pensava che toccava a lei, a lei di diritto: non solo perché la maggiore, ma anche perché… ecco qua: si poteva dare una prova migliore di quella che dava lei, in quello stesso momento, di saper reggere ombrelli per via? E per quella prova, così ben disimpegnata anche nell’andare, non si meritava adesso di reggere l’ombrello nuovo? Perché lo aveva comperato la mamma? per tenerlo chiuso sotto il braccio? Se la mamma riparava col suo Mimi, perché lasciar lei intanto con quello vecchio, della serva? Il castigo, se mai, doveva essere per quella Mimi soltanto, per quella Mimi prepotentona, che mai e poi mai avrebbe saputo reggere un ombrello come lei. Eh, avrebbe voluto vederla!

…e dopo che lascia il negozio, tenta di dimostrare le sue capacità.

Così pensando, Dinuccia si provava a lanciare un’occhiatina alla mamma, di sotto l’ombrello, senza perdere l’equilibrio, per vedere se ella si accorgesse di quella sua bravura. Ma scorse, invece, più che mai torbido e aggrondato il volto della mamma; e l’ombrello tentennò tra le due manine che lo sorreggevano.

Sfortunatamente, mentre lascia il negozio la madre è arrabbiata, frustrata e imbarazzata. Il suo umore si è considerevolmente oscurato e si sono trasformati i suoi pensieri in qualcosa che lei sembra aver considerato prima, vale a dire, “Cosa succede se Dinuccia non fosse più parte della famiglia?”

Uscita dalla bottega in preda a una rabbiosa mortificazione, la mammina lottava in quel momento per espungere dall’animo il più cattivo dei pensieri contro la sua Dinuccia: un pensiero orribile, ch’ella non voleva assolutamente le si riflettesse neppure per un attimo sulla coscienza, dove sarebbe rimasto, al minimo contatto, come una macchia, come una piaga.

Incredibilmente la madre si era convinta che la personalità cauta ed introversa di Dinuccia è un’ostacola… nel senso che limiterà le possibilità di trovare un nuovo marito.

Eppure, a ogni urto anche lieve contro la dura realtà, in certi momenti, quel pensiero odioso le si riaffacciava all’improvviso. E il pensiero odioso era questo: che se lei, Dinuccia, non ci fosse stata (non che dovesse morire, Dio, no!; ma se non ci fosse stata, ecco, se non l’avesse avuta), ella, con Mimi soltanto, ch’era d’indole così gaja e aperta, sempre contenta, con Mimi soltanto, ella si sarebbe rimaritata. Mimi, senza dubbio, si sarebbe fatta amare da colui ch’ella avrebbe scelto per compagno, gli sarebbe subito saltata al collo, domandando anche a lui, con la solita grazia, scotendo la testina ricciuta: «Vuoi bene?». E come non volerle bene? Dinuccia invece, con quegli occhi, sempre attoniti e serii… Ecco, se li immaginava, quegli occhi, rivolti penosamente al patrigno e… no, no, mai! sentiva che con lei e per lei ella non lo avrebbe mai fatto, quel passo, non avrebbe potuto farlo.

A poco a poco è diventato chiaro che il ciclo negativo che coinvolge Dinuccia si basa in parte sui desideri egocentrici della madre.

La guardò, e subito, come le soleva avvenir sempre, sentì un acuto rimorso e un’angosciosa tenerezza per quella sua povera piccina. La vide ancora tutta intenta a dare quella sua prova di bravura e non potè fare a meno di sorridere. Lei, no; ma avrebbe voluto che qualcuno per via esclamasse: «Ma brava! Guardate come sa regger bene l’ombrello quella pupetta!». L’ombrello vecchio, poverina… Chi sa che gioja, se le avesse dato il nuovo! Già: ma l’altra allora? Eh, l’altra… Tutte vinte? Se aveva fatto male a promettere anche a lei un ombrello tutto per sé, se non aveva potuto comperarne due, doveva andarci di mezzo la povera piccina? Mimi non doveva far capricci, e Dinuccia, che sapeva reggere così bene l’ombrello, doveva reggere il nuovo e non il vecchio.

A questo punto, la trama prende una svolta profonda e tragica. La madre, infatti, sceglie di dare l’ombrello a Dinuccia, ma la figlia sembra troppo sottomessa quando riceve la notizia,

Glielo diede. Ma la piccina non lo accolse con quella festa ch’ella s’era immaginata. Non perché avesse indovinato il tristo pensiero della mamma (còme avrebbe potuto mai indovinarlo?); ma, subito dopo che le aveva scorto quel volto torbido e aggrondato, aveva sentito un brivido alla schiena, Dinuccia, e gli occhietti le si erano infoscati, e s’era messa a pensare che non la sola Mimi era cattiva, ma anche la mamma cattiva, la mamma che riparava Mimi e non badava a lei, e la lasciava sola, con quell’ombrellaccio vecchio della serva, che sgocciolava e che pesava tanto, ormai, tanto che lei se ne sentiva tutt’e due i braccìni indolenziti; e non poteva e non sapeva reggerlo più.

…ed impariamo che è sottomessa perché è malata… ha una febbre grave,

Ora, il nuovo pesava meno, e Dinuccia ringraziò la mamma soltanto con un sorriso. Parve poco alla mamma, e si rivolse subito a Mimi:

– Tu stai qua sotto con me, buona buona, è vero? Dinuccia si ripara da sé. Che direbbe la gente vedendola con quest’ombrellaccio vecchio? «Uh, che poverella!» direbbe. «E forse la servetta?» E tu non vorresti, è vero? che si dicesse così della tua sorellina.

Mimi non fiatò: aveva una sua idea. Appena arrivate al portone di casa, s’affrettò a pregare la mamma:

– «Oa, mamma, io pelle ccale! Lo lleggio io pelle ccale!».

E così entrò in casa, dove si sentiva più sicura, con l’ombrello in suo potere; e non volle cederlo, salite le scale, perché la mamma lo riponesse, con la scusa che Didì lo aveva tenuto tanto tempo per istrada. La lite – inevitabile – scoppiò, mentre la mamma si svestiva di là. Dinuccia strappò l’ombrello a Mimi e la fece cadere per terra con un urtone. Strilli di Mimi; restituzione a lei dell’ombrello; e Dinuccia castigata senza cena.

Sul tardi però, quando la mamma andò a cercare Dinuccia che s’era rincantucciata in un angolo dietro l’armadio, e la trovò che dormiva, comprese perché la piccina non aveva accolto con festa, per via, l’ombrello nuovo, e perché poi, contro il solito, lei che come una vecchina compativa sempre i capricci di Mimi, l’aveva fatta piangere quella sera: Dinuccia scottava dalla febbre!

La mamma restò un pezzo, sgomenta, a contemplarla; poi se la tolse in braccio, gridando:

– Oh Dio, no. Dinuccia mia! No, no, no!

…e muore Dinuccia dopo sei giorni.

La svestì, la mise a letto e le si sedette accanto, con l’anima vuota e sospesa, come intronata dalla pioggia, che scrosciava furiosa di fuori.

Piovve tutta quella notte, e piovve per sei giorni di fila quasi senza interruzione.

Il pensiero di Mimi, la mattina dopo, allo svegliarsi, fu per l’ombrello, perle barchette e il cappotto nuovo.

L’ombrello se l’era messo accanto al lettino, e se lo trovò subito in mano; scappò per le barchette e per il cappotto. Pioveva; e dunque festa! sarebbe andata a scuola munita di tutto punto, le barchette ai piedi, il cappotto addosso, e l’ombrello in mano, aperto, sotto l’acqua!

No? Non si andava a scuola? Perché? Dinuccia era malata? Che peccato! Pioveva così bene…

Avrebbe voluto chiedere alla mamma, perché non mandava a scuola lei sola, con la serva. Ma la mamma non le badava; piangeva. Lo chiese alla serva; ma questa, già lì lì per uscire in fretta in furia in cerca d’un medico, nemmeno si voltò per risponderle.

Mimi rimase un pezzo dietro la vetrata della finestra a guardare la bell’acqua scrosciante, impetuosa; poi andò a pararsi davanti allo specchio dell’armadio col «loden» e con le barchette; si tirò sulla testina il cappuccetto fin su le ciglia; aprì con molto stento l’ombrello, e si contemplò beata nello specchio, tutta ristretta nelle spallucce, coi piedini giunti, ridendo e tremando dei brividi che le comunicava quella pioggia immaginaria.

Per cinque giorni, ogni mattina, Mimi fece quella prova davanti allo specchio. E dopo essersi contemplata per più d’un’ora, a più riprese, toltisi il cappotto e le barchette, andava a nascondere l’ombrello in un certo posto che sapeva lei sola. Ah, quell’ombrello era suo, ormai, tutto suo, suo unicamente, e mai lo avrebbe ceduto, neppure alla mamma! Che pena, intanto, che tutta quella pioggia andasse sprecata…

La sera del sesto giorno, Mimi fu condotta dalla serva nel quartierino accanto, abitato da due vecchie signore, amiche della mamma, che in quei giorni parecchie volte aveva veduto per casa, affaccendate tra la camera da letto e la cucina. Era tanto presa di quei suoi tesori, che non ci badò; non badava a nulla da sei giorni; ed era anzi contenta che la mamma fosse tutta intenta alla sorellina malata e non si curasse affatto di lei, perché così poteva «fare l’inverno» («l’invenno», diceva lei) a suo agio e con la massima libertà. Era del resto di così facile natura, che s’accomodava subito e si sentiva a posto, ovunque la mettessero: traeva da sé la vita e la spandeva intorno festosamente, popolando di meraviglie ogni cantuccio, fosse anche il più nudo e il più oscuro. Cenò in casa delle vicine, giocò, chiacchierò a lungo con la serva, saltando di palo in frasca, e finalmente le si addormentò in grembo.

Si svegliò a notte alta, di soprassalto, sbalordita da un formidabile fragore, che aveva scosso tutta la casa e che ora s’allontanava con cupi rimbombi tra lo scroscio violento della pioggia. La bambina si guardò attorno, smarrita. Dov’era? Quella non era la sua casa; quello non era il suo lettino… Chiamò la serva due o tre volte, si liberò della coperta in cui era avvolta e balzò a sedere sul letto. Era ancora vestita. Guardò il lettino accanto, intatto, e si raccapezzò: quella era la camera in cui dormivano le due vecchie signore: v’era entrata tante volte! Scivolò dal letto; attraversò una stanza al bujo; trovò la porta aperta, e uscì sul pianerottolo della scala, atterrita dal fragorio della pioggia che cadeva sul lucernario, e dal palpitante bagliore dei lampi. Aperta era anche la porta della sua casa; e Mimi si cacciò dentro e corse alla camera da letto, gridando:

– Mamma! mamma!

Una delle due vecchie signore, che se ne stava accanto al lettuccio della bambina agonizzante, le corse subito incontro, per fermarla sulla soglia.

(A questo punto viene in mente il proverbio, “Stai attento a ciò che desideri.”)

La storia finisce con Mimi mentre cerca di comprendere cos’è successo a sua sorella.

– Va’, va’, piccina mia, – le disse, – la mamma è di là.

– Didì? – domandò allora la bimba sbigottita, intravedendo al debole chiarore della lampada il viso cereo della sorellina sul letto.

– Sì, cara, – le rispose quella, – il Signore la vuole per sé. Se ne va in cielo Didì…

– In cielo?

E Mimi uscì, senz’aspettare risposta; si fermò nella saletta al bujo, un po’ perplessa: udì novamente, attraverso la porta aperta, il tremendo fragorio della pioggia sul lucernario della scala: intravide dalla finestra a un nuovo palpito di luce il cielo sconvolto, e scappò via, lungo il corridojo.

Poco dopo, le due vecchie signore che vegliavano l’agonia di Dinuccia, se la videro venire innanzi con quell’ombrellone più grosso di lei tra le braccia, balbettando:

– «L’ombello… a Didì.. in cielo… piove».

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