Riassunto: Romolo

Nelle società così dette civili, o dette anche storiche, la leggenda – si sa – non può più nascere. Potrebbe nascere e spesso anche nasce, ma umile, e striscia timida, tra il popolino: lumachella che ha gli occhi nelle corna e subito li ritira tra il bollichio della vana bava, appena col dito rigido e sporco d’inchiostro un professore di storia glieli tocchi.

Secondo noi, la novella Romolo (L. Pirandello) è strutturata come una storia narrata su la fondazione d’un borgo italiano. Come ci spiega il narratore, il borgo in questione è relativamente nuovo: il suo fondatore, Romolo, è ancora vivo. Essenzialmente, la storia della novella si occupa un periodo di circa sessant’anni…. cioè, dal presente al momento in cui Romolo aveva deciso di stabilirsi nel deserto (dove si trova il borgo italiano).

A noi, il paragrafo iniziale suggerisce che il narratore sia uno storico (come vedremo, qualcuno che forse è venuto per intervistare Romolo come parte del suo lavoro). Il narratore sembra esprimere una frustrazione che gli storici possano provare…. vale a dire che per loro, sarà spesso impossibile sapere cos’è realmente accaduto nel passato, e quindi il passato possa solo essere stimato / indovinato. Conseguentemente, abbiamo sorriso quando abbiamo letto la analogia meravigliosa del narratore su l’opera d’uno storico…. ha spiegato che quest’opera sia simile al atto di toccare gli occhi d’una lumaca, solo per aver la lumaca ritirarsi dentro il suo guscio, nascosta di vista. Il fatto triste per lui sembra essere che la verità del passato sia spesso impossibile da verificare. Date questa difficoltà, noi supponiamo che il narratore abbia riconosciuto l’opportunità insolita di poter intervistare Romolo, faccia a faccia, prima che morisse.

(Ovviamente, questa frustrazione avrebbe esser particolarmente vero per gli storici specializzati nell’antichità, cioè loro che siano spesso ostacolati dalle lacune nel record fisico (rovine, potremmo dire, che sono parzialmente conservate) e dai capricci (esagerazioni, pregiudizi, imprecisioni ecc.) nel record scritto / parlato. Per una discussione erudita sulle difficoltà incontrate da una studiosa-storica dell’antichità, raccomandiamo il libro SPQR, A History of Ancient Rome di Mary Beard.)

Poi, il narratore esprime ancora una volta le frustrazioni d’uno storico,

Crede, il professore di storia, che in quel suo dito rigido e sporco d’inchiostro sia la santa verità, e che sia un bene far ritirare le corna alla lumachella. Disgraziato!

….mentre, allo stesso tempo, riconosce che è universale, un fatto di vita, che col passare del tempo, ad esempio da una generazione all’altra, la ‘verità’ svanirà — sarà perso dalla memoria — solo per esser sostituito da un ricordo più superficiale e più ottimisto / speranzoso.

E più disgraziati i posteri che avranno minuto per minuto documentati i fatti degli avi e dei padri, che forse, abbandonati alla memoria e all’immaginazione, a poco a poco, come ogni cosa lontana, s’inazzurrerebbero di qualche poesia.

Storia, storia. Finiamola con la poesia.

(Pensiamo che questo sarebbe il motivo per cui gli storici cercano di correlare quando possibile il record fisico e il record scritto / parlato.)

E poi, il narratore identifica Romolo come il fondatore del borgo italiano in questione. Come abbiamo notato prima, questo Romolo è ancora vivo; infatti, il narratore l’ha incontrato ed intervistato proprio ieri.

Ecco qua, senza lupa, senza il fratello Remo, senza volo d’avvoltoj, Romolo, come ce lo fanno conoscere gli storici; come l’ho conosciuto io, jeri, vivo.

Romolo: un fondatore di città.

Il narratore spiega che nostro Romolo ha novant’anni.

E dire che, a guardarlo bene negli occhi di lupo, peccato! si poteva credere benissimo che davvero una lupa lo avesse allattato, bambino, circa novanta anni fa.

E che anni fa, Romolo aveva un rivale, un suo Remo per così dire…. un ‘Remo’, cioè, che Romolo non aveva ucciso!

Il suo Remo di fronte, rivale, quantunque non fratello, lo aveva avuto davvero. Non l’aveva ucciso, solo perché Remo aveva pensato lui di morire prima, a tempo, da sé.

Poi, impariamo che il luogo in cui Romolo aveva fondato il suo borgo italiano non può esser trovato sulle mappe attuali della regione.

Ma non andate ora a cercare nelle carte geografiche la città fondata da questo Romolo. Non la trovereste.

(Il narratore sembra spiegarci che le mappe moderne della regione si occupano solo del presente e non del passato.)

A questo punto il narratore si coinvolge a qualche speculazione…. cioè, cosa potrebbe accadere al borgo italiano se, nel corso di trecento-quattrocento anni, dovesse continuare a prosperare,

La troveranno i posteri di sicuro, di qui a tre o quattrocent’anni, e anche segnata vi so dire con uno di quei cerchietti che indicano le città capoluogo di provincia e il suo bravo nome accanto: Riparo,che ciascuno dentro ci potrà immaginare le belle cose che vi saranno, vie, piazze, palazzi, chiese, monumenti, col signor prefetto e la signora prefettessa,

….a meno che, naturalmente, Riparo non dovesse esser distrutto, cioè, a causa di mal governazzione o da un disastro naturale — qualcosa che potrebb’esser ordinato da un Dio vendicativo in risposta a, diciamo, ambizione eccessiva o arroganza.

se dureranno ancora questi saggi ordinamenti sociali e se un terremoto prima (con l’ajuto di Dio che castiga le ambizioni degli uomini) non l’avrà fatta crollare dalle fondamenta; ma speriamo di no.

Il narratore ci spiega che il borgo italano aveva avuto due chiese.

Per ora, è più che un casale; di già una bella borgata, con presto due chiesine.

Il primo di queste infatti era stata una struttura umilissima…. una stalla convertita, cioè, una struttura coerente con una comunità emergente.

Una è questa qua. Stalla un tempo, per consiglio di Romolo adattata a chiesina; con un solo altarino dentro, di vecchio legno ingrassato al tanfo caldo del letame, e una stampa del sacro cuore di Gesù attaccata al muro coi chiodini; alla meglio, si sa, ma che importa? Gesù ce la respira davvero, qui dentro, la sua natività.

Da miglia e miglia lontano, ogni domenica, ci viene con la mula un prete a dir messa, tutto sudato e impolverato, d’estate; intabarrato fino agli occhi e con l’ombrellone di seta verde, d’inverno, come nelle oleografie. La mula, legata per la cavezza all’anello accanto alla porta, aspetta, sbuffando e scalciando per le mosche culaje. Ecco qua in terra il segno delle scalciature. Povera bestia, non lo sa che è ufficio divino. Le pare una gran seccatura e mill’anni che finisca.

(La chiesa era stata supportata dai sacerdoti itineranti che presumibilmente avevano avuto pochi legami con la comunità.)

La seconda chiesa, nuova, è detto d’esser grandiosa…. una vera chiesa, come si addice ad una comunità che aveva iniziato a prosperare e crescere.

L’altra, la nuova, sarà presto terminata e sarà una vera galanteria, col campanile e tutto, tre altarini e il pulpito e la sagrestia; tutto insomma; chiesa, per davvero, levata di pianta per chiesa, con un tanto a testa di tutti i borghigiani.

Poi, il narratore lamenta che, in futuro, sarebbe improbabile che molti (se ve ne siano) degli abitanti di Riparo ricorderanno Romolo.

Ora, quando qui sarà città, nessuno dei tanti figli di essa saprà di questo Romolo primo loro padre; come, perché sia nata la città; perché qui e non altrove. Su la terra, in un luogo, non si riesce più a vedere questa terra e questo luogo com’erano prima che la città vi sorgesse. Cancellare la vita è difficile, quando la vita in un luogo si sia espressa e imposta con tanto ingombro di pesanti aspetti: case, vie, piazze, chiese.

Torniamo al passato. Il narratore spiega che la terra del borgo italiano era un deserto. Anche se il deserto era inospitale / impopolato / desolato, c’era stata una stradone. Tuttavia, la stradone era infatti utilizzata solo sporadicamente, e si diceva che un viaggio attraverso la regione fosse pericoloso.

C’era il deserto, un beato deserto, qua. Uomini che come un nastro svolgevano la vita da lontano lontano, passarono allungando il nastro per questo deserto. Uno stradone. E carri cominciarono a poco a poco a passare, nella solitudine, per questo stradone, e qualche uomo a cavallo, armato, che volgeva attorno gli occhi guardinghi, dallo sgomento che si scoprisse per la prima volta a lui solo la vista di tanta solitudine così lontana e ignota a tutti. Silenzio intorno e aperto, sotto la vastità cupa del cielo.

Ancora una volta, il narratore immagina il futuro, quando il borgo italiano si trasformerà in una vivace città vibrante. Si lamenta che pochi o nessuno degli abitanti di Riparo sarà in grado di ricordare la storia delle origini della communità nel deserto.

Quando, di qui a quattrocent’anni, campanelli di tram elettrici, trombe d’automobili squilleranno, streperanno tra la confusione delle vie affollate, illuminate da lampade ad arco, con luccichii e sbarbagli di vetri, di specchi negli sporti, nelle vetrine delle ricche botteghe, chi penserà a una lampada sola, in cielo, la Luna, che nel silenzio e nella solitudine, guardava dall’alto il nastro bianco dello stradone in mezzo al deserto sterminato, e ai grilli e alle raganelle che qui scampanellavano soli? Chi penserà tra le chiacchiere vane nei caffè alle cicale che qui arrabbiate tra le stoppie segate segavano la vasta e ferma afa nell’abbagliamento delle eterne giornate estive?

Il narratore spiega che, col passare del tempo, la stradone aveva iniziato ad esser utilizzata con maggiore frequenza. Noi presumiamo che ciò fosse dovuto alla sua utilità — noi immaginiamo, ad esempio, che la stradone dovesse aver collegato almeno ‘due punti’ sulla mappa che, in qualche modo, dovevano aver facilitato il commercio.

Carri, uomini a cavallo, qualcuno raro a piedi, passavano

Tuttavia, il deserto rimaneva disabitato, non protetto, selvaggio e desolato: ci viene spiegato che un viaggio lungo la stradone era conosciuto d’esser spiacevole.

e tutti sentivano di quella solitudine uno sgomento che a mano a mano diveniva oppressione intollerabile. Che era per essi quello stradone? Lunghezza di cammino; via da fare.

Il narratore chiede,

Chi poteva pensare di fermarcisi?

In effetti, il narratore sta chiedendo chi, tra tutti i viaggiatori, potrebbe aver avuto la visione di fermarsi lungo la stradone? ….per immaginare, cioè, le possibilità ei vantaggi — e anche aver il coraggio e la determinazione per rendere la sua visione una realtà / un successo.

La risposta giusta, ovviamente, è un uomo solo, nostro Romolo. Ci viene spiegato che quando Romolo aveva fermato lungo la stradone, aveva avuto circa 30 anni. Impariamo dal narratore che Romolo fosse insoddisfatto della sua vita…. quindi stava cercando un’opportunità per migliorare la sua situazione. Pensiamo che fosse il suo ‘genio’, per così dire, che lo avvesse portato a rendersi conto che se si fosse fermato dove si trovava, a questo punto lungo la stradone, avrebbe potuto offrire ai viaggiatori qualcosa che sarebbe stato utile: un luogo per riposare e per essere confortato così come un posto per ricevere assistenza.

Un uomo. Questo vecchio qua. Allora sui trent’anni, andando un giorno d’estate appresso ai pensieri che lo traevano fuori del consorzio degli altri uomini a cercare nella solitudine la sua ventura, ebbe il coraggio di fermare in mezzo a questo stradone l’ombra del suo corpo. Sentì forse che in quel punto tanti come lui, passando, avevano, avrebbero sentito il bisogno d’un poco di riposo, d’un poco di conforto e d’ajuto. E disse qua.

Poi, il narratore espande su queste idee: Romolo fosse stato in grado di discernere le possibilità che tutti gli altri avevano perso, ma avvesse anche avuto il coraggio necessario per vivere e lavorare in questo ambiente difficile.

Si guardò attorno a osservare ciò che prima aveva soltanto guardato con l’occhio distratto di chi passa e non pensa di fermarsi; guardò col senso della sua presenza, non per un solo momento qua, ma stabile; e si provò a respirare l’aria allora deserta, a vedere intorno le cose, come quelle che dovevano essere la sua aria e la sua vista di tutti i giorni. E col coraggio che gli sorgeva dentro per distendersi e imporsi attorno comparò la tristezza infinita di quella solitudine, se il suo coraggio avrebbe saputo resisterle e durarvi, quando – non ora – d’inverno, col cielo aggrondato e il freddo, nell’eterne giornate di pioggia, si sarebbe fatta più squallida e paurosa.

A questo punto, il narratore ritorna alla sua intervista. Ci racconta una storia che Romolo ha raccontato umilmente di se stesso quando era un ragazzo…. una storia che ha rivelato qualcosa d’importante sul suo personaggio. Apprendiamo che, sin da ragazzo, era sempre deciso e forte. Presumiamo che queste siano caratteristiche che il narratore abbia creduto ci aiuterebbe capire come Romolo era in grado d’aver successo.

Parla per apologhi il vecchio; e narra che da ragazzo aveva una sorellina malatuccia e disappetente, che faceva tanto penar la madre per contentarla.

Ora un giorno, mentr’egli giocava per istrada coi compagni a un gioco furioso, la madre, che se ne stava seduta allo scalino davanti la porta, lo chiamò perché piano piano, con un sorsellino cauto si sorbisse da un uovo, ch’ella teneva in mano, la chiara soltanto, non ben cotta, la chiara soltanto, di cui la sorellina malatuccia e disappetente aveva schifo.

Ebbene, con quel sorsellino che avrebbe dovuto scoronar l’uovo appena appena, egli, nella furia del gioco interrotto, senza farlo apposta, s’era tirato dentro tutto l’uovo, chiara e torlo, tutto quanto, lasciando con tanto d’occhi sbarrati per la sorpresa e il guscio in mano, vuoto, la madre e la sorellina.

Lo stesso ora qua, per lo stradone.

Poi, il narratore spiega che sebbene era stato vuoto e disabitato il luogo dove Romolo aveva fermato, la terra aveva una brezza rinfrescante e rivitalizzante.

Quando disse «qua», non aveva certo in mente questa borgata d’oggi, la città di domani. Pensava che sarebbe restato sempre lui solo a offrire ajuto a tutti quelli che sarebbero passati di là. Ma dentro quel suo primo respiro, tratto in mezzo allo stradone, non c’era soltanto aria per un solo tetto di paglia; c’era dentro l’aria per tutta questa borgata d’oggi, per la città di domani. E tanto era stato il suo coraggio nel levare quel primo tetto di paglia, che altri per forza dovevano sentirsene attirati.

Il narratore continua.

Quando però una necessità non pensata si para davanti a una illusione, questa necessità ci sembra un tradimento.

(Questa sembra esser una prefigurazione degli eventi che accadranno più avanti nella storia.)

Aveva passato il tempo. Romolo aveva iniziato ad avere successo, e si era rivelato d’esser utile la sua idea d’offrire conforto ai viaggiatori. Eventualmente, Romolo aveva sposato e aveva costruito una casa permanente per la sua famiglia.

Ecco qua: dopo che lui, sfidando gli orrori della solitudine, per mesi e mesi solo, era riuscito a far fermare davanti a quel suo tetto di paglia i carri che passavano, e poi, levata a poco a poco la casetta di pietra e fatta venir la moglie coi figliuoli, era riuscito a far sedere sotto la pergola i carrettieri a bere il vino, di cui una bottiglina di saggio pendeva appesa con una frasca d’insegna alla porta, e a mangiare in rozze scodelle campestri i cibi cucinati dalla moglie, mentr’egli attendeva a riparare una ruota o una molla a qualche carro o a ferrar la mula o il cavallo;

Infatti, Romolo era così tanto successo che un altro uomo aveva deciso di vivere nelle vicinanze. Tuttavia (incredibilmente, nonostante un deserto vasto), la posizione della seconda casa aveva portato ad una disputa / controversia.

un altro era venuto su lo stradone, un po’ più in giù, a levar contro alla sua casa un’altra casa.

Perché un paese (ora il vecchio lo sa bene e lo può dire per esperienza) un paese nasce così.

Non è mica vero che gli uomini si mettono insieme per darsi conforto e ajuto a vicenda. Insieme si mettono per farsi la guerra. Quando una casa sorge in un punto, l’altra casa non le si mette mica accanto come una compagna o una buona sorella; di fronte le si mette, come una nemica, a toglierle la vista e il respiro.

Non c’erano leggi / ordinamenti, ovviamente, per governare la disputa, nemmeno c’era una comunità delle persone, la maggioranza dei quali potrebbe risolvere la controversia. Erano solo le due familglie: una, del fondatore che aveva assunto i suoi diritti come il fondatore, e l’atra, d’un nuovo, secondo membro della ‘comunità’. Impariamo che il loro disaccordo era aspro e amaro.

Egli non aveva il diritto d’impedire che un’altra casa gli sorgesse di fronte. La terra su cui sorgeva, non era sua. Ma questa terra prima era un deserto. Che vita aveva? La vita gliel’aveva data lui. E l’usurpazione e la frode che quell’altro era venuto a commettere, non era della terra, ma della vita che egli a questa terra aveva dato.

«Qua non è tuo!», poteva soltanto dirgli quell’altro.

«Sì. Ma che era qua prima per te?», poteva gridargli lui. «E ci saresti tu venuto, se prima non ci fossi venuto io? Qua non c’era nulla; e tu vieni adesso a rubarmi quello che ci ho messo io!»

Pensiamo che l’ironia della situazione fosse che Romolo fosse adesso costretto a soffrire a causa del suo successo.

Troppo, però, veramente – doveva riconoscerlo – troppo ci aveva messo per uno solo.

Il tempo aveva continuato a passare. C’era adesso,a causa della crescente domanda di servizi, un’opportunità per la crescitadella communità.

Tutti i carri che passavano, spesso in lunga fila, si fermavano là, ora, per una sosta abituale. La moglie non riparava a servir tutti e non si reggeva più in piedi dalla fatica; anch’egli, quelle due braccia sole che Dio gli aveva date, non se le sentiva più, la sera, dalla stanchezza. C’era dunque posto e lavoro non solo per un altro, ma anche forse per tre o quattro altri.

Durante l’intervista, Romolo ha ammesso che a questo punto c’era troppo lavoro per lui e sua moglie…. che lui si era preoccupato che fossero entrambi esausti. C’era una necessità per più persone!

Il vecchio ora dice che l’avrebbe preferito. Tre o quattro altri insieme sarebbero stati compagni, e si sarebbero diviso il lavoro; e sua moglie forse, allora, non sarebbe morta di fatica.

Romolo aveva anche capito che la presenza di più persone sarebbe stato vantaggiosa perché la comunità sarebbe stata in grado di governare secondo la regola di maggioranza: come tale, Romolo non avrebbe avuto bisogno di ricorrere alla violenza contra l’altro uomo.

Ma quell’uno fu per forza nemico, un nemico da respingere, anche col coltello in pugno, dalla vita che egli aveva fatto nascere su quello stradone, e ch’era sua. Di fronte a tre o quattro altri insieme, egli avrebbe cercato e stabilito un accordo; e certo sarebbe stato da essi riconosciuto e rispettato come il primo e come il capo. Da quell’uno dovette invece accanitamente difendersi la vita, da non lasciargliene prendere nulla o quel poco soltanto che alle sue braccia non riusciva più di contenere.

(La nostra impressione è che Romolo fosse capace d’omicidio, data la sua natura decisa e forte.)

Sfortunatamente, tuttavia, la moglie di Romolo era morta d’esaurimento,

Ma l’effetto fu questo: che gli morì la moglie dalla troppa fatica.

….e il ricordo di questi eventi si è rivelato travolgente.

– Dio! – dice il vecchio, adesso, alzando una mano con l’indice teso.

E lascia nell’ombra i casi e gli eventi passati, di cui riconosce in Dio la causa, e dunque l’obbligo per gli uomini d’accettarli con obbedienza e rassegnazione, per quanto dolorosi e crudeli possano parere. I casi passano e vanità è ricordarli di fronte a questa certezza: che la giustizia di Dio trionfa sempre.

Durante l’intervista, il narratore ha imparato che, mentre aveva cercato una spiegazione, Romolo aveva concluso che la morte di sua moglie era stata la volontà di Dio…. che era un atto di punizione divina a causa della sua ambizione.

Romolo non può parlare altrimenti. Deve riconoscere, Romolo, che fu giustizia di Dio la morte della moglie: che Dio, cioè, con questa morte lo volle punire del suo voler troppo.

Nell’intervista, Romolo ha anche rivelato che il suo nemico (cioè, suo Remo) era morto poco dopo la morte di sua moglie…. e che infatti Romolo aveva sposato la moglie di Remo!

Perché alla fine il trionfo della giustizia divina Romolo deve additarlo in lui, che – morto Remo – ne sposò in seconde nozze la moglie.

La causa della morte di Remo? Paura! una paura della punizione! cioè le punizioni di Dio e anche di Romolo.

E perché morì Remo? Ma anche lui per punizione di Dio, per una gran paura che Dio gli mise addosso; morì perché comprese che l’uomo, a cui egli era venuto a mettersi contro ora, stroncato dalla morte della moglie, avrebbe certo rovesciato su lui il furore della sua disperazione.

Romolo si è rivelato che, nella sua mente, la morte di Remo era stata giusta.

Poteva Dio permettere che una sua punizione diventasse soverchia e dunque ingiusta, lasciando che quell’altro profittasse di quanto ora a lui era venuto a mancare con la morte della moglie? La punizione, ch’era dolore per lui, doveva essere paura per quell’altro; e tanta fu, che ne morì. Romolo non dice altro.

Ha anche rivelato il modo in cui si era sviluppata la sua relazione con la moglie di Remo.

Soggiunge però, che allora, nelle due case di contro, popolate tutte e due di figliuoli, a cui finora non era stato mai concesso d’accostarsi gli uni agli altri per mettere insieme i loro giuochi; nelle due case di contro restarono, qua un uomo senza donna, là una donna senza uomo. E l’uno vestito di nero vide l’altra vestita di nero; e nel cuore dell’uno e dell’altra ecco che Dio allora fece sbocciare la carità, un reciproco bisogno d’ajuto e di conforto.

E la prima guerra finì.

Romolo tentenna il capo e sorride.

Il tempo aveva continuato a passare. È cresciuta la comunità delle due famiglie fino a diventare il borgo italiano di oggi.

Vede in mente come, dopo le prime due, nacquero le altre case di questa borgata, quando i figliuoli da una parte e dall’altra crebbero, e alcuni fecero nozze tra loro e altri portarono da lontano chi la moglie, chi il marito.

Il narratore ha appreso che la crescita del borgo era stata casuale, cioè senza l’organizzazione,

Ah, una di qua, una di là, quelle case! Non propriamente nemiche. No. Scontrose. Le spalle non se le voltavano; ma l’una s’era messa un po’ di fianco e l’altra un po’ di traverso, come se tra loro non volessero vedersi in faccia.

Finché, con l’andare degli anni, tra questa e quella una terza non sorse in mezzo, come paciera, a riunirle.

….come potrebbe essere stato vero per gli altri borghi italiani.

– Per questo, – dice Romolo, – le strade antiche dei piccoli paesi sono tutte storte, che ogni casa vi scantona.

Alla fine, la mancanza di coerenza ed ordine era diventato un problema…. cioè un ostacolo alla prosperità, qualcosa riconosciuto dal borgo che doveva essere riparato.

Per questo, sì. Ma poi viene, o Romolo, la civiltà coi piani regolatori, che obbligano le case a stare in riga.

– La guerra allineata, – tu dici.

A questo punto, ci viene ricordato il potere della maggioranza.

Sì; ma civiltà vuol dire appunto il riconoscimento di questo fatto: che l’uomo, tra tanti altri istinti che lo portano a farsi guerra, ha anche quello che si chiama istinto gregario, per cui non vive se non coi suoi simili.

– E or dunque vedi da questo, – tu concludi, – se l’uomo può mai essere felice!

***

Per ulteriori informazioni sulla storia di Romolo e Remo:

https://hwcdn.libsyn.com/p/a/5/6/a56a440cceb6bb7a/01-_In_the_Beginning.mp3?c_id=3218048&cs_id=3218048&expiration=1566659031&hwt=f3481d76b17cd405fd27f6cf79549a3f

Leave a comment