Riassunto: La cassa riposta

Quando il biroccino fu sotto la chiesina di San Biagio lungo lo stradone, il Mèndola, di ritorno dal podere, pensò di salire al cimitero sul poggio a veder che cosa ci fosse di vero nelle lagnanze rivolte al Municipio per quel custode Nocio Pàmpina, detto Sacramento.

Inizia così La cassa riposta, una novella dilettevole (straordinaria, ironica e umoristica) dal maestro L. Pirandello.

(Dimmi la verità Paola: Quante volte hai riso a voce alta prima di aver finito il testo?)

Nino Mèndola è un giovanotto che possiede un podere in campagna e che lavora, di recente, per il governo del paese vicino (da circa un anno; come un assesore comunale). Alcuni dei cittadini hanno espresso una preoccupazione sulla mancanza di manutenzione del cimitero locale. Il Mèndola è stato chiesto di determinare se i reclami sono validi.

Quel giorno il Mèndola ha deciso di visitare il cimitero dopo di procrastinare un breve periodo di tempo. In verità un anno è abbastanza breve (cioè, per il Mèndola di rimanere coscienzioso sul suo lavoro per la Giunta)… nonostante che un po’ di frustrazione e cinismo abbiano insinuato nel suo atteggiamento nei confronti dei cittadini del paese.

“Non bastano i vivi”, pensava, salendo al poggio, “danno da fare anche i morti in questo porco paese. Ma già, sono sempre quelli, i vivi, rottorio! Sanno un corno i morti, se son guardati bene o male. Forse, non dico di no: pensare che da morti saremo trattati male, affidati alla custodia di Pàmpina, stolido e ubriacone, può far dispiacere… Basta; adesso vedrò.”

Tutte calunnie.

Penso che quest’intreccio delle emozioni (cioè, il bisogno di fare bene il suo lavoro e allo stesso tempo la frustrazione e il cinismo) spiega perché il Mèndola ha procrastinato… ma solo per un breve periodo di tempo!

Anche se è alla periferia al narrativo, il lettore apprende che il Mèndola è spesso mal temperato e di cattivo umore, a causa della preoccupazione quasi costante che può soffrire una malattia ereditaria, cioè, una forma d’apoplessia che è letale.

Assessore comunale da circa un anno, Nino Mèndola, proprio dal giorno che aveva assunto la carica, non stava piú bene. Soffriva di capogiri. Senza volerlo confessare a se stesso, temeva d’esser colpito da un giorno all’altro d’apoplessia: male, di cui erano morti tutti i suoi, immaturamente. Era perciò sempre di pessimo umore; e ne sapeva qualche cosa quel suo cavalluccio attaccato al biroccino.

Esistono infatti parecchi malattie che sono forme d’apoplessia ereditaria (cioè, malattie descritte di recente, ben dopo la novella è stata scritta). Alcuni di questi coinvolgono i mitocondri, mentre altri coinvolgono i vasi sanguigni nel cervello o la materia bianca del cervello. Tuttavia la forma specifica della malattia che soffre la famiglia del Mèndola non è delineata chiaramente.

Forse più importante per uno studente di Pirandello, come la novella inizia il Mèndola è appena tornato dalla campagna e — NESSUNA SORPRESA QUI — il suo umore è migliorato notevolmente… tanto che decide di smettere di procrastinare e di visitare il cimitero per conto della Giunta.

E, per bravar la paura segreta, aveva deciso lí per lí di fare quell’ispezione al cimitero, promessa ai colleghi della Giunta e rimandata per tanti giorni.

Come risulta, è vero che il cimitero è in cattive condizione.

Le foglie, sí. Qualche foglia caduta dalle siepi ingombrava i vialetti. Qualche sterpo era cresciuto qua e là. E i passeri monellacci, ignorando che lo stil lapidario non vuole interpunzioni, avevano seminato con le loro cacatine tra le tante virtú di cui erano ricche le iscrizioni di quelle pietre tombali, troppe virgole forse e troppi punti ammirativi.

La valutazione del Mèndola del cimitero? “Picolezze”. (Suppongo che nessuno dei suoi parenti siano sepolti sepolto lì!)  ;>)

D’altra parte l’uomo che si prende cura del cimitero è in forma abbastanza peggio!

Come custode di cimitero, Nocio Pàmpina, detto Sacramento, era l’ideale. Già una larva, che lo portava via il fiato; e certi occhi chiari, spenti; una vocina di zanzara. Pareva proprio un morto uscito di sotterra per attendere, cosí come poteva, alle faccenduole di casa.

E in ogni caso, chi se ne frega?

Che c’era da fare poi? Tutta gente dabbene, lí – ormai – e tranquilla. (L’opinione del Pàmpina)

Ad un certo punto, il Mèndola è nel bugigattolo del custode e vede una cassa molto costosa e ornata.

Se non che, entrando nel bugigattolo del custode a destra del cancello, il Mèndola restò:

– E quella lí?

Nocio Pàmpina, detto Sacramento, aprí le labbra squallide a un’ombra di sorriso e bisbigliò:

– Cassa da morto, Eccellenza.

Era difatti una bellissima cassa da morto. Lustra, di castagno, con borchie e dorature. Fatta proprio senza risparmio. Là, quasi in mezzo alla stanzetta.

La cassa appartiene al Gerolamo Piccarone. Sua moglie è morta di recente, e lui aveva aquistato la cassa per lei. Tuttavia il Piccarone ha cambiato idea: ha deciso di seppellire la moglie nel contenitore (in zinco) che allinea la parte interna della cassa. Il Piccarone ha riposto il resto della cassa al cimitero (cioè, con il custode) e ha intenzione di usarla per se stesso. Il Piccarone è certo che morirà presto.

– Grazie; la vedo, – riprese il Mèndola. – Dico, perché la tieni lí?

– È del cavalier Piccarone, Eccellenza.

– Piccarone? E perché? Non è mica morto!

– No no, Eccellenza! Non sia mai! – disse Pàmpina. – Ma Vossignoria saprà che il mese scorso

gli morí la moglie, povero galantuomo.

– E con ciò?

– La accompagnò fino qua, a piedi; attempatello com’è. Sissignore. Poi mi chiamò, dice: “Senti, Sacramento. Non scappa una mese, avrai anche me”. “Ma che dice Vossignoria!” gli risposi. Ma lui: “Stà zitto”, dice. “Senti. Questa cassa, figliuolo mio, mi costa piú di vent’onze. Bella, la vedi. Per la sant’anima, capirai, non ho badato a spese. Ma ora la comparsa è fatta, dice. Che se ne fa piú la sant’anima di questa bella cassa sottoterra? Peccato sciuparla”, dice. “Facciamo cosí. Caliamo la sant’anima”, dice, “pulitamente con quella di zinco, che sta dentro; e questa me la riponi: servirà anche per me. Uno di questi giorni, sull’imbrunire, manderò a ritirarla.”

Dopo aver sentito questo il Mèndola è stordito. Non riesce a credere quello che ha appena sentito. Riesce a malapena a credere quello che ha appena visto. Si perde di vista il suo lavoro per la Giunta, e corre di nuovo al paese in modo da poter raccontare la storia ai suoi amici.

Il Mèndola non volle piú né sapere né veder altro. Non gli parve l’ora di giungere al paese per spargervi la nuova di quella cassa da morto, che Piccarone aveva fatto riporre per sé.

Il Piccarone ha una abbastanza reputazione. Ora lui è in pensione; probabilmente è ricco (era un avvocato e aveva anche una posizione in governo durante il dominio dei Borboni). Lui è intelligente, astutissimo ed erudito… è anche ostinato ed avarissimo: si rifiuta sempre di pagare i suoi conti se crede che viene trattato ingiustamente… soprattutto da parte del governo dopo l’unificazione d’Italia.

Era famoso in paese Gerolamo Piccarone, avvocato e, al tempo dei Borboni, cavaliere di San Gennaro, per la spilorceria e la furbizia. Mal pagatore, poi! Se ne raccontavano sul suo conto da far restare a bocca aperta. Ma questa – pensava il Mèndola, tempestando allegramente di frustate il povero cavalluccio – questa le passava tutte; e vera, ohé, come la stessa verità! La aveva veduta lui, là, la cassa da morto, con gli occhi suoi.

Il Mèndola ferma all’Osteria del cacciatore, una trattoria locale. Ci sono là due dei suoi amici: Bartolo Gaglio e Gaspare Ficarra sono cacciatori accaniti che hanno smesso in osteria per avere un bicchiere. È il momento dell’anno in cui le quaglie stanno migrando e pertanto i due amici sono stati alla caccia per tutto il giorno. In questo momento loro sono stanchi.

– Se sapeste, cari miei! – esclamò il Mèndola, smontando ilare e ansimante; e, per cominciare, narrò a que’ due amici la storia della cassa da morto.

Quelli finsero lí per lí di non volerci credere, ma per un modo di dimostrar la loro maraviglia. E allora il Mèndola a giurare che – parola d’onore – la aveva veduta lui, con gli occhi suoi, la cassa da morto, nel bugigattolo di Sacramento.

Poi gli amici condividono alcuni dei loro racconti del Piccarone!

Si comporta in modo strano il proprietario dell’osteria, Dolcemàscolo: lui non saluta il Mèndola né lo serve. Il lettore apprende che nel corso della giornata qualche salsiccia, che Dolcemàscolo ha preparato per l’osteria, era stata rubata e mangiata da un cane. Lui era abbastanza sconvolto per la perdita — ha rubato circa 2 chilogrammi di salsiccia. Dolcemàscolo è doppiamente sconvolto perché gli amici stanno parlando del Piccarone ed è stato il suo cane che ha rubato la salsiccia.

– Dolcemàscolo, ohé! – gli gridò il Gaglio.

L’oste, col berretto di pelo a barca buttato a sghembo su un orecchio, senza giacca, con le maniche della camicia rimboccate su le braccia pelose, si riscosse sospirando:

– Mi perdonino, – disse. – Quaglio, sto quagliando propriamente, a sentire i loro discorsi. Giusto questa mattina il cane del cavalier Piccarone, Turco, quella brutta bestiaccia che va e viene da sé dalle terre del Cannatello alla villetta quassú… ma sanno che m’ha fatto? Piú di venti rocchi di salsiccia m’ha rubati, che tenevo lí su lo sporto, che gli facciano veleno! Fortuna, dico, che ho due testimonii!

Poi il lettore viene a sapere che Dolcemàscolo ha un piano per esser pagato per la salsiccia.

Dolcemàscolo alzò un pugno; schizzò fiamme dagli occhi:

– Ah no, perdio! a me la salsiccia me la pagherà! Me la pagherà, me la pagherà, – ribatté di fronte alle risate incredule e al negare ostinato dei tre avventori. – Lor signori vedranno. Ho trovato la via. So di che pelame è!

E con un gesto furbesco, che gli era abituale, strizzò un occhio e con l’indice teso si tirò giú la palpebra dell’altro.

Il lettore è quindi fornito di un’altra descrizione vivace del carattere e della personalità del Gerolamo Piccarone. In primo luogo, ha vissuto nella sua villa per 20 anni e dicono che non ha pagato un centesimo per la costruzione (abusiva).

A metter sú quella villetta d’un sol piano, sul viale all’uscita del paese, Gerolamo Piccarone, avvocato e cavaliere di San Gennaro al tempo di Re Bomba, s’era industriato per piú di vent’anni, ed era fama non gli fosse costata neppure un centesimo.

Le male lingue dicevano ch’era fatta di sassolini trovati per via e sospinti fin là a uno a uno coi piedi dallo stesso Piccarone.

Secondo, il lettore apprende che il Piccarone non piace e non è fedele al governo italiano.

Ma era malva di tre cotte, Piccarone, cioè nemico acerrimo di ogni novità. Andava ancora vestito alla moda del ventuno; portava la barba a collana; tozzo, rude, insaccato nelle spalle, con le ciglia sempre aggrottate e gli occhi socchiusi, si grattava di continuo il mento e approvava i suoi segreti pensieri con frequenti grugniti.

– Uh… uh… uh… l’Italia!… hanno fatto l’Italia… che bella cosa, uh, l’Italia… ponti e strade… uh… illuminazione… esercito e marina… uh… uh… uh… istruzione obbligatoria… e se voglio restar somaro? nossignore! istruzione obbligatoria… tasse! e Piccarone paga…

Terzo, Piccarone è testardo.

Pagava poco o nulla, veramente, a furia di sottilissimi cavilli, che stancavano ed esasperavano la pazienza piú esercitata. Concludeva sempre cosí:

– Che c’entro io? Le ferrovie? Non viaggio. L’illuminazione? Non esco di sera. Non pretendo nulla io; grazie; non voglio nulla. Un po’ d’aria soltanto, per respirare. L’avete fatta anche voi, l’aria? Debbo pagare anche l’aria che respiro?

Due testimoni del furto sono parte del piano di Dolcemàsolo da essere rimborsato per la salsiccia: ha convinto gli uomini ad andare con lui alla villa del Piccarone. Saranno là per corroborare l’accusa del Dolcemàscolo che il cane del Piccarone ha rubato la salsiccia.

I tre uomini fanno il loro meglio per avere begli aspetti per la riunione.

Dolcemàscolo, che la sapeva lunga, s’era vestito di domenica e, bello raso, tra quei due poveri contadini che ritornavano stanchi e cretosi dal lavoro, appariva piú del solito prosperoso e signorile, con un certo viso latte e rosa, ch’era una bellezza a vedere, e la simpatia di quel porretto peloso sulla guancia destra, presso la bocca, arricciolato.

Tutti e tre degli uomini entrano nella villa. Dolcemàscolo rende il chiacchiere. Il Piccarone valuta la situazione astutamente e rapidamente. (Il lettore viene a sapere che lui grugnisce come forma le sue idee e opinioni.)

Dolcemàscolo racconta la storia del furto. Lui non identifica il cane. E ovvio che Dolcemàscolo è scomodo davanti al Piccarone (anche se abbia pianificato con cura tutto quello che dirà). Lo scambio tra i due uomini, come valutano l’un l’altro, è esilarante.

Piccarone richiuse gli occhi:

– Parla, t’ascolto.

– Vossignoria sa, – cominciò Dolcemàscolo.

Ma Piccarone ebbe uno scatto e uno sbuffo:

– Uh, quante cose so io! Quante ne sai tu! So, so, sa… E vieni al caso, caro mio!

Infine Dolcemàscolo arriva al punto e il Piccarone gli risponde.

– Nossignore! – rispose subito Dolcemàscolo. – Tra quei cacciatori là non c’era. Si vede che il cane era scappato di casa. Bestie da fiuto, capirà, sentono la caccia, soffrono a star chiusi: scappano. Basta. So, come le ho detto, a chi appartiene il cane; lo sanno anche questi due amici miei, presenti al furto. Ora Vossignoria, uomo di legge, mi deve dire semplicemente se il padrone del cane è tenuto a risarcirmi del danno, ecco!

Piccarone non pose tempo a rispondere:

– Sicuro che è tenuto, figliuolo.

Poi il Dolcemàscolo rivela l’identità del cane. Il lettore capisce che il Piccarone ha ormai ammesso che deve pagare Dolcemàscolo. Lui sembra essere storditissimo: si rese conto che è caduto nella trappola tesa da Dolcemàscolo.

Il Piccarone ritarda abilmente mentre considerando le sue opzioni.

Piccarone stette un pezzo a guardare Dolcemàscolo come allocchito; poi, tutt’a un tratto, abbassò gli occhi e si mise a leggere nel libraccio che teneva aperto su la tavola.

Poi decide come risponderà. Primo,

Piccarone, fingendo tuttavia di leggere, si grattò il mento con una mano, grugní, disse:

– Dunque Turco è stato?

Secondo, il Piccarone assicura Dolcemàscolo che, nonostante la sua reputazione, si intende di pagarlo.

– E sei venuto qua, – riprese, cupo e calmo, Piccarone, – con due testimoni, eh?

– Nossignore! – negò subito Dolcemàscolo. – Per il caso che Vossignoria non avesse voluto

credere alle mie parole.

– Ah, per questo? – borbottò Piccarone. – Ma io ti credo, caro mio. Siedi. Sei un gran dabbenuomo. Ti credo e ti pago. Godo fama di mal pagatore, eh?

– Chi lo dice, signor Cavaliere?

– Tutti lo dicono! E lo credi anche tu, va’ là. Due… uh… due testimoni…

– Per la verità, tanto per lei, quanto per me!

Poi il Piccarone e Dolcemàscolo decidono che il valore della salsiccia è 4 lire. E poi il Piccarone infila il stiletto!

– Quattro lire. Benone. Ora dimmi un po’, figliuolo mio: venticinque meno quattro, quanto fanno? Ventuno, se non m’inganno. Bene. Mi dai ventuna lira e non ne parliamo piú.

Dolcemàscolo è storditissimo!! Il Piccarone spiega che ha passato l’ultima ora formulando il suo parere legale (cioè, che il proprietario del cane deve pagarlo). Tipicamente il Piccarone addebito 25 lire all’ora per le sue opinioni legali… questo sia qualcosa che Dolcemàscolo non avrebbe considerato al momento di formulare il suo piano.

Il Piccarone informa Dolcemàscolo tranquillamente che ha tre giorni di tempo per pagare. (Sia facile presumere che 21 lire è una somma enorme per povero Dolcemàscolo.) Il Piccarone poi dice che se Dolcemascolo non paghi in tempo, sarà portato al tribunale.

Dolcemàscolo è perplesso, stordito, incredulo. La sua vittoria apparente sul Piccarone è ormai persa. Lui implora il Piccarone, ma si rifiuta di perdonare il debito.

Dolcemàscolo allora perdette il lume degli occhi. L’ira lo acciuffò. Che era il danno? Niente. Alle beffe pensò, che avrebbe avute, che già indovinava guardando le facce allegre di quei due contadini: lui che si credeva tanto scaltro, lui che s’era impegnato di spuntarla e già aveva quasi toccato con mano la vittoria. Tale impeto gli diede il vedersi preso, ora, quando meno se l’aspettava, nella sua stessa ragna, che si trovò d’un tratto mutato in bestia feroce.

Poi Dolcemàscolo si arrabbia.

– Ah, perciò, – disse, accostandoglisi, con le mani levate e contratte, – perciò è cosí ladro il suo cane? L’ha addottorato lei!

Piccarone si levò in piedi, torbido, levò un braccio:

– Esci fuori! Risponderai anche d’ingiurie a un galantuomo che…

– Galantuomo? – ruggí Dolcemàscolo, afferrandogli quel braccio e scotendoglielo furiosamente.

È tutto perso!! E poi … e poi … il Piccarone muore!!! Probabilmente a causa di un ictus o un attacco di cuore.

I due contadini si precipitarono per trattenerlo; ma tutt’a un tratto, che è che non è, il vecchio si abbandonò appeso inerte per quel braccio alle mani violente di Dolcemàscolo. E come questi, allibito, le aprí, cascò prima a sedere su lo sgabello, traboccò poi da un lato e rotolò per terra giú tutto in un fascio.

Di fronte al terrore de’ due contadini, Dolcemàscolo contrasse il volto, come per uno spasimo di riso. O che? Non lo aveva nemmeno toccato.

Quelli si chinarono sul giacente, gli mossero un braccio.

– Scappate… scappate…

Dolcemàscolo li guardò entrambi, come inebetito. Scappare?

E poi … E poi … appare la cassa! È stata portata alla villa dal cimitero d’essere riposta lì.

S’intese, in quel punto, cigolare una banda del cancello, e si vide la cassa da morto, che il vecchio aveva fatto riporre per sé, entrare in trionfo su le spalle di due portantini ansanti, quasi chiamati lí per lí, al bisogno.

A tale apparizione restarono tutti come basiti.

Dolcemàscolo dice ai due contadini a lasciare. Poi dice agli uomini che hanno portato la cassa che il Piccarone è appena morto – per una causa naturale.

Dolcemàscolo non pensò che Nocio Pàmpina, detto Sacramento, dopo la visita e l’osservazione dell’assessore, si fosse affrettato a mettersi in regola, rimandando a destino quella cassa; ma si ricordò in un lampo di ciò che il Mèndola aveva detto la mattina, là, nella trattoria; e, all’improvviso, in quella cassa vuota che aspettava e sopravveniva ora al punto giusto come chiamata misteriosamente, vide il destino, il destino che s’era servito di lui, della sua mano.

S’afferrò la testa e si mise a gridare:

– Eccola! Eccola! Questa lo chiamava! Siatemi tutti testimoni che non l’ho nemmeno toccato! Questa lo chiamava! L’aveva fatta metter da parte per sé! Ed eccola qua che viene, perché doveva morire!

(Con ogni probabilità si trattava di una morte naturale.)

I portatori accettano la spiegazione senza esitazione.

Ma non erano per nulla stupiti, quei due portantini. Da che avevano portata appunto quella cassa da morto, era per loro la cosa piú naturale del mondo che trovassero morto l’avvocato Piccarone. Si strinsero nelle spalle, e:

– Ma sí, – dissero, – eccoci qua.

INCREDIBILE!!!

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