Riassunto: Dono della Vergine Maria

† Assunta.

† Filomena.

† Crocifissa.

† Angelica.

† Margherita.

† …

Cosí: una crocetta e il nome della figlia morta accanto. Cinque, in colonna. Poi una sesta, che aspettava il nome dell’ultima: Agata, a cui poco ormai restava da patire.

Inizia così Dono della Vergine Maria (L. Pirandello), una delle novelle più tragiche che abbiamo letto finora.

Una malattia infettiva mortale associata con una grave tosse si è diffusa rapidamente all’interno della famiglia di don Nuccio D’Alagna. [Molto probabilmente la malattia in questione sia la pertosse (noto anche come ‘tosse convulsa’): “La pertosse è una malattia respiratoria altamente contagiosa. È causata dal batterio Bordetella pertussis, ed è conosciuto per una incontrollabile tosse violenta che può rendere difficile respirare. Dopo gli episodi di molti tosse, qualcuno con pertosse spesso ha bisogno di fare respiri profondi che producono un suono “convulso”. La pertosse può colpire persone di ogni età ma può essere molto grave, anche mortale, per i bambini di meno di un anno. Il modo migliore per proteggere contro la pertosse è immunizzazione.” (http://www.cdc.gov/pertussis/)]

La famiglia di don Nuccio può essere più povera di qualsiasi altra che abbiamo incontrato fino ad oggi:

– Si tratta di una descrizione di don Nuccio. (Nota che conserva un senso d’orgoglio nonostante la disperata povertà.)

Era come perduto in quella sua enorme giacca, che non si sapeva piú di che colore fosse e che dava a vedere che anche la carità, se ci si mette, può apparire beffarda. La aveva certo avuta in elemosina quella vecchia giacca. E don Nuccio, per rimediare, dov’era possibile, al soverchio della carità, teneva piú volte rimboccate sui magri polsi le maniche. Ma ogni cosa, come quella giacca, la sua miseria, le sue disgrazie, la nudità della casa pur tutta piena di sole, ma anche di mosche, dava l’impressione di una esagerazione quasi inverosimile.

– E questa è una descrizione di sua casa, la quale lui è sul punto di perdere a preclusione.

Oltre al lettuccio dell’inferma, in quell’altra camera, c’era soltanto una seggiola sgangherata e un pagliericcio arrotolato per terra, che il vecchio ogni sera si trascinava nella stanza vicina per buttarvisi a dormir vestito. Ma eran rimaste stampate a muro, sulla vecchia carta da parato scolorita, qua e là strappata e con gli strambelli pendenti, le impronte degli altri mobili pegnorati e svenduti; e ancora attaccato al muro qualche resto dei ragnateli un tempo nascosti da quei mobili.

All’inizio della novella, sono morte (dalla pertosse?) la moglie di don Nuccio e 5 su 6 delle loro bambine. La sesta bambina, Agata, soffre anche (della pertosse?) ed è estremamente malata.

La luce era tanta, in quella stanza nuda e sonora, che quasi si mangiava il pallore del viso emaciato dell’inferma giacente sul letto. Si vedevano solo in quel viso le fosse azzurre degli occhi. Ma in compenso poi, tutt’intorno, sul guanciale un incendio, al sole, dei capelli rossi di lei. E lei che, zitta zitta, a quel sole che le veniva sul letto si guardava le mani, o si avvolgeva attorno alle dita i riccioli di quei magnifici capelli. Cosí zitta, cosí quieta, che a guardarla e a guardar poi attorno la camera, in tutta quella luce, se non fosse stato per il ronzío di qualche mosca, quasi non sarebbe parsa vera.

Don Nuccio è un protagonista molto simpatico: soffre al suono della tosse d’Agata è anche premuroso delle sue preferenze.

Don Nuccio D’Alagna si turò le orecchie per non sentirla tossire di là; e quasi fosse suo lo spasimo di quella tosse, strizzò gli occhi e tutta la faccia squallida, irta di peli grigi; poi s’alzò.

Prima di recarsi di là, aspettò un pezzetto, sapendo che la figlia non voleva che accorresse a lei, subito dopo quegli accessi di tosse; e intanto cancellò col dito quel camposanto segnato sul piano del tavolino. (Paola: è stato scritto nella polvere?)

Don Nuccio vuole disperatamente salvare la vita d’Agata. Cinque delle bambine morte hanno rifiutato d’andare in ospedale. (E tutte siano morte a casa?) Don Nuccio è convinto che l’ospedale è meglio equipaggiato per il trattamento di una malattia infettiva. È chiaro che Agata ha anche rifiutato d’andare in ospedale. Don Nuccio si rivolge, naturalmente a quanto pare, alla sua fede per convincere Agata.

Don Nuccio, seduto su quell’unica seggiola, s’era messo a pensare a una cosa bella bella per la figliuola: alla sola cosa a lei ormai desiderabile, che Dio cioè le aprisse la mente, che quel duro patire lí sul saccone sudicio di quel letto nella casa vuota la persuadesse a chiedere d’esser portata all’ospedale, dove nessuna delle sorelle, morte prima, era voluta andare.

A un lettore moderno, questo sia un aspetto strano della novella: per esempio, (quando la necessità esisteva) io non avrei mai permesso i miei figli decidere d’andare in ospedale. Perché, allora, è stato costretto don Nuccio a chiedere a Dio di aprire la mente d’Agata? Potrebb’essere o che i bambini fossero terrorizzati dall’ospedale dopo la morte di loro madre o che don Nuccio è una persona debole.

Ci si moriva lo stesso? No: don Nuccio scoteva un dito, con convinzione: era un’altra cosa; piú pulita.

Rivedeva difatti col pensiero una lunga corsia, lucida, con tanti e tanti lettini bianchi in fila, di qua e di là, e un finestrone ampio in fondo sull’azzurro del cielo; rivedeva le suore di carità, con quelle grandi ali bianche in capo e quel tintinnío delle medaglie appese al rosario, a ogni passo; rivedeva pure un vecchio sacerdote che lo conduceva per mano lungo quella corsia: egli guardava smarrito, angosciato dalla commozione, su questo e su quel letto; alla fine il prete gli diceva: “Qua” e lo attirava presso la sponda d’uno di quei letti, ove giaceva moribonda, irriconoscibile, quella sciagurata che, dopo avergli messo al mondo sei creaturine, se n’era scappata di casa per andar poi a finir lí. – Eccola! – Già a lui era morta la prima figlia, Assunta, di dodici anni.

Insomma si tratta di una tragedia inimmaginabile. Durante tutta la novella, il lettore prevede che don Nuccio si arrenderà al suo dolore e poi diventerà disperato e suicidarsi. Questo non accade, però. Ovviamente don Nuccio è un uomo religioso e si rivolge alla sua fede più e più volte per far fronte a quanto è successo e di continuare a lottare per la vita d’Agata.

Tutte, davvero, una dopo l’altra. Ed egli, ora, era quasi inebetito. Se l’erano portata via con loro, la sua anima, le cinque figliuole morte. Per quest’ultima gliene restava un filo appena. Ma pur quel filo era ancora acceso in punta; aveva ancora in punta come una fiammellina. La sua fede. La morte, la vita, gli uomini, da anni soffiavano, soffiavano per spegnergliela: non c’erano riusciti.

La vita di don Nuccio sembra essere piena dei piccoli insulti e le ambiguità. Di certo non riceve l’effusione di sostegno da parte dei suoi vicini. (“I fedeli cristiani lo avevano tutti abbandonato.”) Invece sembra essere evitato. Questo potrebb’essere o a causa della sua ‘professione’ (è conosciuto come un iettatore) o per un timore associato con una malattia infettiva o per evitare una persona sfortunatissima.

Una mattina aveva veduto aprire a un suo vicino di casa, che abitava dirimpetto, lo sportello della gabbiola per cacciarne via un ciuffolotto ammaestrato ch’egli, alcuni giorni addietro, gli aveva venduto per pochi soldi.

Era d’inverno e pioveva. Il povero uccellino era venuto a batter le alucce ai vetri dell’antica finestra, quasi a chiedergli ajuto e ospitalità.

Aveva aperto la finestra, e che carezze a quel capino bagnato dalla pioggia! Poi se l’era posato su la spalla come un tempo, ed esso a bezzicargli il lobo dell’orecchio. Si ricordava dunque! Lo riconosceva! Ma perché quel vicino lo aveva cacciato via dalla gabbia?

Non aveva tardato a capirlo, don Nuccio. Aveva già notato da alcuni giorni, che la gente per via lo scansava, e che qualcuno, vedendolo passare, faceva certi atti.

A mio parere il Pirandello voglia il lettore esaminare l’uso della fede per dare senso della tragedia. Durante tutta la novella, don Nuccio commenta “Cosí voleva Dio” in modo da spiegare i suoi problemi. È vero che don Nuccio soffre intensamente: lui mostra i lampi dell’ironia e del sarcasmo ma, notevolmente, senza frustrazione che potrebbe poi portare alla rabbia.

…rivedeva pure un vecchio sacerdote che lo conduceva per mano lungo quella corsia: egli guardava smarrito, angosciato dalla commozione, su questo e su quel letto; alla fine il prete gli diceva: “Qua” e lo attirava presso la sponda d’uno di quei letti, ove giaceva moribonda, irriconoscibile, quella sciagurata che, dopo avergli messo al mondo sei creaturine, se n’era scappata di casa per andar poi a finir lí. – Eccola! – Già a lui era morta la prima figlia, Assunta, di dodici anni.

– Come te! quella non ti perdona.

– Nuccio D’Alagna, – lo aveva ammonito severamente il vecchio sacerdote.

– Siamo davanti alla morte.

– Sí, padre. Dio lo vuole, e io la perdono.

– Anche a nome delle figlie?

– Una è morta, padre. A nome delle altre cinque che le terranno dietro.

Poi don Nuccio viene associato con don Bartolo Scimpri. Il Scimpri è un ex-sacerdote impoverito che è stato scomunicato dalla Chiesa a causa d’un argomento sulla dottrina. Si tratta di una descrizione del Scimpre:

Sperticatamente alto di statura, ossuto e nero come un tizzone, questo don Bartolo Scimpri, benché da parecchi anni scomunicato, vestiva ancora da prete. Le maniche della vecchia tonaca unta e inverdita avevano il difetto opposto di quelle della giacca di don Nuccio: gli arrivavano poco piú giú dei gomiti lasciandogli scoperti gli avambracci pelosi. E scoperti aveva anche, sotto, non solo i piedacci imbarcati in due grossi scarponi contadineschi, ma spesso perfino i fusoli delle gambe cotti dal sole, perché le calze di cotone a furia di rimboccarle da capo attortigliate in un punto perché si reggessero, s’erano slabbrate e gli ricadevano sulla fiocca dei piedi.

…e questa è una descrizione della controversia dottrinale che ha portato alla sua scomunica così come la sua strategia di costruire una nuova chiesa.

Era in guerra aperta con tutto il clero, perché il clero – a suo dire – aveva azzoppato Dio. Il diavolo, invece, aveva camminato. Bisognava a ogni costo ringiovanire Dio, farlo viaggiare in ferrovia, col progresso, senza tanti misteri, per fargli sorpassare il diavolo.

– Luce elettrica! Luce elettrica! – gridava, agitando le lunghe braccia smanicate. – Lo so io a chi giova tanta oscurità! E Dio vuol dire Luce!

Era tempo di finirla con tutta quella sciocca commedia delle pratiche esteriori del culto: messe e quarant’ore. E paragonava il prete nella lunga funzione del consacrar l’ostia per poi inghiottirsela al gatto che prima scherza col topo e poi se lo mangia.

Egli avrebbe edificato la Chiesa Nuova. Già pensava ai capitoli della Nuova Fede. Ci pensava la notte, e li scriveva. Ma prima bisognava trovare il tesoro. Come? Per mezzo della sonnambula. Ne aveva una, che lo ajutava anche a indovinar le malattie. Perché don Bartolo curava anche i malati. Li curava con certi intrugli, estratti da erbe speciali, sempre secondo le indicazioni di quella sonnambula.

Si contavano miracoli di guarigioni. Ma don Bartolo non se ne inorgogliva. La salute del corpo la ridava gratis a chi avesse fiducia nei suoi mezzi curativi. Aspirava a ben altro lui! A preparare alle genti la salute dell’anima.

Ci sono certamente alcune persone nell’America che assomigliano il Scimpri. Spesso, loro forniscono un luogo dove le persone possono descrivere le loro tragedie. Queste persone anche offrono una guida fisica e spirituale e il sostegno e la consulenza. Secondo me, in America, Oprah Winfrey è la persona più famosa che assomiglia il Scimpri.

(Paola: C’è qualcuno simile al Scimpri nell’Italia moderna?)

I cittadini non hanno accettato il Scimpri. Ha trovato interesse invece da parte dei contadini che vivono nelle campagne circostanti. Queste persone hanno un bisogno decisamente laica: i soldi per sopravvivere. Loro sono attratti al Scimpri per colpa di un servizio che offre: nel cuore della notte, suo socio, un sonnambulo, porterà i contadini a un sito di un tesoro sepolto.

La gente però non sapeva ancor bene, se crederlo matto o imbroglione. Chi diceva matto, e chi imbroglione. Eretico era di certo; forse, indemoniato. Il tugurio dov’abitava, in un suo poderetto vicino al camposanto, sul paese, pareva l’officina d’un mago. I contadini dei dintorni vi si recavano la notte, incappucciati e con un lanternino in mano, per farsi insegnare dalla sonnambula il luogo preciso di certe trovature, tesori nascosti che dicevano di saper sotterrati nelle campagne del circondario al tempo della rivoluzione. E mentre don Bartolo addormentava la sonnambula, muto, spettrale, con le mani sospese sul capo di lei, al lume vacillante d’un lampadino a olio, tremavano. Tremavano, allorché, lasciando nel tugurio la donna addormentata, egli li invitava a uscir con lui all’aperto e li faceva inginocchiare sulla nuda terra, sotto il cielo stellato, e, inginocchiato anche lui, prima tendeva l’orecchio ai sommessi rumori della notte, poi diceva misteriosamente:

– Ssss… eccolo! eccolo!

Il sonnambulo non è altro che il don Nuccio D’Alagna!

Come la novella procede, sembra chiaro che l’associazione con il Scimpri sia molto inquietante. In aggiunta alla frode, don Nuccio anche lavora per copiare la “bibbia” della Nuova Chiesa, e questo in particolare sembra essere equivalente alla manomissione con la Parola di Dio. Perché, allora, ha accettato d’associarsi con il Scimpri? A causa della possibilità che la sua ‘medicina’ possa aiutare sopravvivere l’Agata.

E gli dava da ricopiare, per elemosina, a un tanto a pagina, i capitoli della Nuova Fede che scarabocchiava la notte. Gli portava anche da mangiare e qualche magica droga per la figliuola ammalata.

Appena andato via, don Nuccio scappava in chiesa a chieder perdono a Dio Padre, a Gesú, alla Vergine, a tutti i Santi, di quanto gli toccava d’udire, delle diavolerie che gli toccava di ricopiar la sera, per necessità. Lui come lui, si sarebbe lasciato piuttosto morir di fame; ma era per la figlia, per quella povera anima innocente! I fedeli cristiani lo avevano tutti abbandonato. Poteva esser volere di Dio che in quella miseria, nera come la pece, l’unico lume di carità gli venisse da quel demonio in veste da prete? Che fare, Signore, che fare? Che gran peccato aveva commesso perché anche quel boccone di pane dovesse parergli attossicato per la mano che glielo porgeva? Certo un potere diabolico esercitava quell’uomo su lui.

– Liberatemene, Vergine Maria, liberatemene Voi!

Inginocchiato sullo scalino innanzi alla nicchia della Vergine, lí tutta parata di gemme e d’ori, vestita di raso azzurro, col manto bianco stellato d’oro, don Nuccio alzava gli occhi lagrimosi al volto sorridente della Madre divina. A lei si rivolgeva di preferenza perché gl’impetrasse da Dio il perdono, non tanto per il pane maledetto che mangiava, non tanto per quelle scritture diaboliche che gli toccava di ricopiare, quanto per un altro peccato, senza dubbio piú grave di tutti. Lo confessava tremando. Si prestava a farsi addormentare da don Bartolo, come la sonnambula.

C’è una parte del testo che io continuo a non capire. La mia ipotesi migliore è che il Scimpri fornisce don Nuccio con le pozioni a base d’erbe che hanno un effetto allucinogeno in modo che lui possa essere ‘trasformato’ in un sonnambulo credibile.

La prima volta lo aveva fatto per la figlia, per trovare nel sonno magnetico l’erba che gliela doveva guarire. L’erba non si era trovata; ma egli seguitava ancora a farsi addormentare per provar quella delizia nuova, la beatitudine di quel sonno strano.

– Voliamo, don Nuccio, voliamo! – gli diceva don Bartolo, tenendogli i pollici delle due mani, mentr’egli già dormiva e vedeva. – Vi sentite le ali? Bene, facciamoci una bella volatina per sollievo. Vi conduco io.

– Acqua… tant’acqua… tant’acqua… – diceva difatti, ansando, don Nuccio; e pareva che la sua voce arrivasse da lontano lontano.

– Passiamo questo mare, – rispondeva cupamente don Bartolo con la fronte contratta, quasi in un supremo sforzo di volontà. – Scendiamo a Napoli, don Nuccio: vedrete che bella città! Poi ripigliamo il volo e andiamo a Roma a molestare il papa, ronzandogli attorno in forma di calabrone.

Migliora la condizione d’Agata alla fine. Sorprendentemente, don Nuccio è terrorizzato: lui riconosce che ciascuno delle altre bambine sembrava migliorare prima di morire! Don Nuccio assume che la migliorata condizione d’Agata fosse infatti un segno (un presagio) della sua morte imminente. Si accusa: crede che Dio si prenderà Agata a causa dell’associazione con il Scimpri.

Questo voleva Dio, e perciò lo lasciava in vita e gli toglieva la figlia: voleva un atto di ribellione alla tirannia di quel demonio; voleva dargli tempo di far penitenza del suo gran peccato.

Il suo peccato sia basata sul fatto che ha abbracciato una alternativa alla Parola di Dio, trasmessa dagli insegnamenti della Chiesa. Don Nuccio accorre alla Chiesa per chiedere perdono e comprensione.

Don Nuccio cadde sui ginocchi, annichilito. Quanto tempo stette lí, sul pianerottolo, come un sacco vuoto? Chi lo portò in chiesa, davanti alla nicchia della Vergine? Si ritrovò là, come in sogno, prosternato, con la faccia sullo scalino della nicchia; poi, rizzandosi sui ginocchi, un flutto di parole che non gli parvero nemmeno sue gli sgorgò fervido, impetuoso dalle labbra:

– Tanto ho penato, tante ne ho viste, e ancora non ho finito… Vergine Santa, e sempre V’ho lodata! Morire io prima, no, Voi non avete voluto: sia fatta la Vostra santa volontà! Comandatemi, e sempre, fino all’ultimo, V’ubbidirò! Ecco, io stesso, con le mie mani sono venuto a offrirvi l’ultima figlia mia, l’ultimo sangue mio: prendetevela presto, Madre degli afflitti; non me la fate penare piú! Lo so, né soli né abbandonati: abbiamo l’ajuto Vostro prezioso, e a codeste mani pietose e benedette ci raccomandiamo. O sante mani, o dolci mani, mani che sanano ogni piaga: beato il capo su cui si posano in cielo! Codeste mani, se io ne sono degno, ora mi soccorreranno, m’ajuteranno a provvedere alla figlia mia. O Vergine santa, i ceri e la bara. Come farò? Farete Voi: provvederete Voi: è vero? è vero?

E poi, accade un miracolo. La statua della Vergine Maria sembra prendere vita e gli offre il suo rosario. Don Nuccio tenta di prenderlo/accettarlo, ma viene colto in flagrante con l’accusa di rapina. Il pover’uomo soffre un’altra umiliazione.

– Tieni, – ripetevano le labbra, piú visibilmente, poiché egli se ne stava lí come impietrito. Vive, Dio, vive, vive quelle labbra; e con cosí vivo, vivo e pressante invito il gesto della mano e anche del capo, anche del capo ora, accompagnava l’offerta, che egli si sentí forzato a protendersi, ad allungare una mano tremante verso la mano della Vergine; e già stava per riceverne il rosario, quando dall’ombra dell’altra navata della chiesa un grido rimbombò come un tuono:

– Ah, ladro!

E don Nuccio cadde, come fulminato.

Subito un uomo accorse, vociando, lo afferrò per le braccia, lo tirò su in piedi, scrollandolo, malmenandolo.

– Ladro! vecchio e ladro! Dentro la casa del Signore? Spogliare la santa Vergine? Ladro! ladro!

E lo trascinava, cosí apostrofandolo e sputandogli in faccia, verso la porta della chiesa. Accorse gente dalla piazza, e ora tra un coro d’imprecazioni rafforzate da calci, da sputi e da spintoni, don Nuccio D’Alagna, insensato:

– Dono, – balbettava gemendo, – dono della Vergine Maria…

Il finale sia profondamente ambiguo. Il Pirandello sembra provocare il lettore a chiedere, “Qual è il ruolo della Chiesa e la fede nella vita quotidiana?”

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