Riassunto: La trappola

No, no, come rassegnarmi? E perché? Se avessi qualche dovere verso altri, forse sí. Ma non ne ho! E allora perché?

Stammi a sentire. Tu non puoi darmi torto. Nessuno, ragionando cosí in astratto, può darmi torto. Quello che sento io, senti anche tu, e sentono tutti.

Perché avete tanta paura di svegliarvi la notte? Perché per voi la forza alle ragioni della vita viene dalla luce del giorno. Dalle illusioni della luce.

 

Così inizia La trappola (L. Pirandello), una delle novelle PIÙ… DIFFICILE… DI… CAPIRE!!

Il protagonista, signor Fabrizio, è un uomo che colloqui con un conoscente-amico. (Secondo me il conoscente può in effetti essere una metafora per la grande maggioranza degli uomini.) Da qualche tempo il signor Fabrizio è stato impegnato in un dibattito sui valori, i costumi e le usanze. Signor Fabrizio, intelligente ed articolato, sostiene le sue opinioni con forza e con passione. (Infatti la novella è strutturata come un soliloquio; il conoscente non parla mai.)

Il tema del dibattito è lo scopo, la ragione, la logica e il significato della vita. Il dibattito ruota intorno alle domande:

– Quale ‘guida interiore’ ci permette di scegliere il modo in cui viviamo? cioè, i valori, gli obiettivi, i desideri, le priorità ei comportamenti che stimiamo, cioè, quelle cose che contribuiscono al nostro carratere innato e la nostra personalità?

– Come dovremmo equilibrare i dettami del nostro carattere innato contro i dettami della società (che sono spesso opposti e potentissimi)?

Signor Fabrizio ammette che il suo punto di vista è difficile d’articolare.

Ti pare ch’io farnetichi? ch’io parli a mezz’aria? Va’ là, che tu m’intendi; e intendi anche piú ch’io non dica, perché è molto difficile esprimere questo sentimento oscuro che mi domina e mi sconvolge.

(Forse è difficile per lui essere capito perché la sua opinione sia di gran lunga al di fuori della corrente principale della società, cioè, delle opinioni della maggioranza degli uomini.)

Signor Fabrizio ritiene che una vera vita è fluida e in continua evoluzione.

Ma che vuol dire, domando io, darsi una realtà, se non fissarsi in un sentimento, rapprendersi, irrigidirsi, incrostarsi in esso? E dunque, arrestare in noi il perpetuo movimento vitale, far di noi tanti piccoli e miseri stagni in attesa di putrefazione, mentre la vita è flusso continuo, incandescente e indistinto.

Allo stesso modo, e coerentemente con la sua convinzione che una vita vera è intrisa d’una forza vitale, signor Fabrizio suggerisce che la vita sia come il vento, il mare, il fuoco; cioè, ognuno di questi elementi è in continuo flusso, movimento ed evoluzione e quindi senza forma.

In netto contrasto, signor Fabrizio suggerisce che una vera vita non sia la terra… proprio perché una vera vita non abbia una forma fissa.

La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco; non la terra che si incrosta e assume forma.

Ogni forma è la morte.

Tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprende, in questo flusso continuo, incandescente e indistinto, è la morte.

Signor Fabrizio sembra anche credere che la forza vitale sia deperibile, nel senso che è potentemente presente solo per un breve periodo di tempo (cioè, siamo nati con questa forza vitale e quindi è più potente durante i primi anni di vita). Poi, con l’avanzare dell’età, la forza vitale diminuisce gradualmente.

Dura ancora per un breve spazio di tempo il movimento di quel flusso in noi, nella nostra forma separata, staccata e fissata; ma ecco, a poco a poco si rallenta; il fuoco si raffredda; la forma si dissecca; finché il movimento non cessa del tutto nella forma irrigidita.

Così, per il signor Fabrizio la percezione / la presenza della forza vitale è inversamente proporzionale all’età.

Qual’è la personalità d’una persona che ha abbracciato pienamente la forza vitale? Al signor Fabrizio, questa persona sembra godere il lusso della libertà d’auto-espressione: non ha obblighi, responsabilità, relazioni, abitudini, costumi, o pratiche fissate. In altre parole, lui sia in grado d’essere impulsivo.

In breve, è infantile.

Signor Fabrizio spera di mantenere la forza vitale nella propria vita a lungo possibile. A questo proposito, i suoi sforzi iniziali si sono concentrati sul suo aspetto fisico.

Tu sai come ho vissuto finora. Sai che ho provato sempre ribrezzo, orrore, di farmi comunque una forma, di rapprendermi, di fissarmi anche momentaneamente in essa.

Ma sí! Che ho potuto alterare? Sono arrivato, è vero, anche a radermi il capo, per vedermi calvo prima del tempo; e ora mi sono raso i baffi, lasciando la barba; o viceversa; ora mi sono raso baffi e barba; o mi son lasciata crescer questa ora in un modo, ora in un altro, a pizzo, spartita sul mento, a collana…

Ho giocato coi peli.

È facile immaginare che un uomo di mezza età, che vive da solo in un paese italiano circa cent’anni fa e che cambia il suo aspetto frequentemente e senza capo né coda, sarebbe notato e, potenzialmente, sarebbe diventato un oggetto dei pettegolezzi o di ridicolo. In realtà, signor Fabrizio ammette d’essere stato preso in giro dai suoi amici.

Ho fatto sempre ridere i miei amici per le tante… come le chiamate? alterazioni, già, alterazioni de’ miei connotati. Ma avete potuto riderne, perché non vi siete mai affondati a considerare il mio bisogno smanioso di presentarmi a me stesso nello specchio con un aspetto diverso, di illudermi di non esser sempre quell’uno, di vedermi un altro!

Signor Fabrizio spiega che era inutile di mantenere la sua forza vitale in base alle modifiche al suo aspetto fisico. Lui osserva che il processo d’invecchiamento è una forza di contrasto sia potente ed inesorabile: tutti gli esseri umani crescono e questo fatto non può essere mascherato o negato. Dunque sembra essere impossible per gli esseri umani mantenere fisicamente uno stato infantile nel corso d’una vita.

La vostra mano li apre e li chiude, per ora. Domani li aprirà e chiuderà un’altra mano. Chi sa quale altra mano… Ma per loro è lo stesso. Tengono dentro, per ora, i vostri abiti, vuote spoglie appese, che hanno preso il grinzo, le pieghe dei vostri ginocchi stanchi, dei vostri gomiti aguzzi. Domani terranno appese le spoglie aggrinzite d’un altro. Lo specchio di quell’armadio ora riflette la vostra immagine, e non ne serba traccia; non serberà traccia domani di quella d’un altro.

Gli occhi, il naso, la bocca, gli orecchi, il torso, le gambe, le braccia, le mani, non ho potuto mica alterarli. Truccarmi, come un attore di teatro? Ne ho avuto qualche volta la tentazione. Ma poi ho pensato che, sotto la maschera, il mio corpo rimaneva sempre quello… e invecchiava!

Dato questo, signor Fabrizio ha scelto di concentrarsi sul suo spirito, cioè, la sua personalità, i suoi atteggiamenti, la sua visione della vita.

Ho cercato di compensarmi con lo spirito. Ah, con lo spirito ho potuto giocar meglio!

Qual’è l’opinione del signor Fabrizio del suo conoscente? Il Fabrizio sembra dire che come abbia invecchiato lui, e la sua innata forza vitale ha diminuito, ha diventato sempre più suscettibile ai dettami (esterne) della società. Signor Fabrizio si riferisce ai dettami esterne come ‘illusioni’: sono artificiali e fissi, sono i confini rigidi, limitano la nostra libertà d’auto-espressione, creano ‘forme’ che limitano il nostro desiderio innato d’essere impetuoso.

Voi pregiate sopra ogni cosa e non vi stancate mai di lodare la costanza dei sentimenti e la coerenza del carattere. E perché? Ma sempre per la stessa ragione! Perché siete vigliacchi, perché avete paura di voi stessi, cioè di perdere – mutando – la realtà che vi siete data, e di riconoscere, quindi, che essa non era altro che una vostra illusione, che dunque non esiste alcuna realtà, se non quella che ci diamo noi.

Credo che i dettami sociali assumano le forme di: norme culturali, atteggiamenti accettabili, modelli accettati di comportarsi, pratiche accettabili. Signor Fabrizio dice che i dettami della società sono presente alla luce del giorno: io presumo che lui stia riferendosi al periodo della giornata in cui la maggior parte degli uomini cercano di integrare ed assimilare nella società (al contrario del buio di notte, quando gli uomini sono soli e liberi d’essere in grado di pensare per se stessi.

Perché avete tanta paura di svegliarvi la notte? Perché per voi la forza alle ragioni della vita viene dalla luce del giorno. Dalle illusioni della luce.

Il bujo, il silenzio, vi atterriscono. E accendete la candela. Ma vi par triste, eh? triste quella luce di candela. Perché non è quella la luce che ci vuole per voi. Il sole! il sole! Chiedete angosciosamente il sole, voialtri! Perché le illusioni non sorgono piú spontanee con una luce artificiale, procacciata da voi stessi con mano tremante.

Come la mano, trema tutta la vostra realtà. Vi si scopre fittizia e inconsistente. Artificiale come quella luce di candela. E tutti i vostri sensi vigilano tesi con ispasimo, nella paura che sotto a questa realtà, di cui scoprite la vana inconsistenza, un’altra realtà non vi si riveli, oscura, orribile: la vera. Un alito… che cos’è? Che cos’è questo scricchiolio?

Signor Fabrizio sembra riconoscere il potere dei dettami sociali. Anche se sono più ovviamente presenti durante il giorno, in realtà sembrano essere onnipresenti. Per il suo conoscente, si manifestano come le presenze spettrali di notte.

E, sospesi nell’orrore di quell’ignota attesa, tra brividi e sudorini, ecco davanti a voi in quella luce vedete nella camera muoversi con aspetto e andatura spettrale le vostre illusioni del giorno. Guardatele bene; hanno le vostre stesse occhiaje enfiate e acquose, e la giallezza della vostra insonnia, e anche i vostri dolori artritici. Sí, il rodio sordo dei tofi alle giunture delle dita.

Dato il suo argomento (cioè, la sua posizione nel dibattito) e il suo desiderio di preservare la sua forza vitale a lungo possibile, è comprensibile che in tutta la novella signor Fabrizio si riferisca a qualsiasi forza di contrasta come una trappola (o, in altre parole, la morte). I seguenti sono alcuni esempi:

– Tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprende, in questo flusso continuo, incandescente e indistinto, è la morte.

– Noi tutti siamo esseri presi in trappola, staccati dal flusso che non s’arresta mai, e fissati per la morte.

Abbiamo finito di morire. E questo abbiamo chiamato vita!

– Siamo tanti morti affaccendati, che c’illudiamo di fabbricarci la vita.

– Ci accoppiamo, un morto e una morta, e crediamo di dar la vita, e diamo la morte… Un altro essere in trappola!

– Qua, caro, qua; comincia a morire, caro, comincia a morire… Piangi, eh? Piangi e sguizzi… Avresti voluto scorrere ancora? Sta’ bonino, caro! Che vuoi farci? Preso, co-a-gu-la-to, fissato… Durerà un pezzetto! Sta’ bonino…

– Ah, finché siamo piccini, finché il nostro corpo è tenero e cresce e non pesa, non avvertiamo bene d’esser presi in trappola! Ma poi il corpo fa il groppo; cominciamo a sentirne il peso; cominciamo a sentire che non possiamo piú muoverci come prima.

La trama cambia a questo punto come signor Fabrizio muove da una discussione teorica a due esempi pratici.

Il primo esempio è personale.

All’inizio, signor Fabrizio spiega la sua lotta per mantenere la forza vitale come si è invecchiato.

Io vedo, con ribrezzo, il mio spirito dibattersi in questa trappola, per non fissarsi anch’esso nel corpo già leso dagli anni e appesito. Scaccio subito ogni idea che tenda a raffermarsi in me; interrompo subito ogni atto che tenda a divenire in me un’abitudine; non voglio doveri, non voglio affetti, non voglio che lo spirito mi s’indurisca anch’esso in una crosta di concetti. Ma sento che il corpo di giorno in giorno stenta vie piú a seguire lo spirito irrequieto; casca, casca, ha i ginocchi stanchi e le mani grevi… vuole il riposo! Glielo darò.

Poi signor Fabrizio dice che è determinato a rimanere vitale e coraggioso… vuole fare qualcosa di grande.

No, no, non so, non voglio rassegnarmi a dare anch’io lo spettacolo miserando di tutti i vecchi, che finiscono di morir lentamente. No. Ma prima… non so, vorrei far qualche cosa d’enorme, d’inaudito, per dare uno sfogo a questa rabbia che mi divora.

Poi impariamo che signor Fabrizio si è lasciato cadere in una trappola.

Io mi sento preso in questa trappola della morte, che mi ha staccato dal flusso della vita in cui scorrevo senza forma, e mi ha fissato nel tempo, in questo tempo!

Perché in questo tempo?

Potevo scorrere ancora ed esser fissato piú là, almeno, in un’altra forma, piú là… Sarebbe stato lo stesso, tu pensi? Eh sí, prima o poi… Ma sarei stato un altro, piú là, chi sa chi e chi sa come; intrappolato in un’altra sorte; avrei veduto altre cose, o forse le stesse, ma sotto aspetti diversi, diversamente ordinate.

Tu non puoi immaginare l’odio che m’ispirano le cose che vedo, prese con me nella trappola di questo mio tempo; tutte le cose che finiscono di morire con me, a poco a poco! Odio e pietà! Ma piú odio, forse, che pietà.

È vero, sí, caduto piú là nella trappola, avrei allora odiato quell’altra forma, come ora odio questa; avrei odiato quell’altro tempo, come ora questo, e tutte le illusioni di vita, che noi morti d’ogni tempo ci fabbrichiamo con quel po’ di movimento e di calore che resta chiuso in noi, del flusso continuo che è la vera vita e non s’arresta mai.

Poi signor Fabrizio lancia in un attacco apparentemente misogino su tutte le donne. Suggerisce che, per gli uomini, loro siano la più comune di tutte le trappole.

Vorrei, per lo meno… – vedi queste unghie? affondarle nella faccia d’ogni femmina bella che passi per via, stuzzicando gli uomini, aizzosa.

Che stupide, miserabili e incoscienti creature sono tutte le femmine! Si parano, s’infronzolano, volgono gli occhi ridenti di qua e di là, mostrano quanto piú possono le loro forme provocanti; e non pensano che sono nella trappola anch’esse, fissate anch’esse per la morte, e che pur l’hanno in sé la trappola, per quelli che verranno!

La trappola, per noi uomini, è in loro, nelle donne. Esse ci rimettono per un momento nello stato di incandescenza, per cavar da noi un altro essere condannato alla morte. Tanto fanno e tanto dicono, che alla fine ci fanno cascare, ciechi, infocati e violenti, là nella loro trappola.

Signor Fabrizio si è innamorato d’una signora. (Di recente lei è arrivata per aiutare la cura del padre del signor Fabrizio: “Veniva qua, per mettere in pratica una delle sette opere corporali di misericordia”. Loro sono: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, e seppellire i morti.)

La signora è sposata, ma la coppia non è stata in grado di avere un figlio. (Il marito la incolpa per questo, ma infatti può essere vero che lui è impotente.) Apparentemente, lei condivida il suo atteggiamento verso la vita. Lei lo seduce signor Fabrizio.

Anche me! Anche me! Ci hanno fatto cascare anche me! Ora, di recente. Sono perciò cosí feroce.

Ma capisci com’è? Quando uno comincia a irrigidirsi, a non potersi piú muovere come prima, vuol vedersi attorno altri piccoli morti, teneri teneri, che si muovano ancora, come si moveva lui quand’era tenero tenero; altri piccoli morti che gli somiglino e facciano tutti quegli attucci che lui non può piú fare.

Io me n’andavo perché, mio malgrado, sentivo d’ammirar quella femmina, non già per la sua bellezza (era bellissima, e tanto piú seducente, quanto piú mostrava per modestia di non tenere in alcun pregio la sua bellezza); la ammiravo, perché non dava al marito la soddisfazione di mettere in trappola un altro infelice.

Dunque, ero al bujo. Ella entrò di là, in punta di piedi, dalla camera di mio padre, ove aveva lasciato acceso un lumino da notte, il cui barlume si soffuse appena appena nella tenebra quasi senza diradarla, a traverso lo spiraglio dell’uscio.

Io non la vidi; non vidi che mi veniva addosso. Forse non mi vide neanche lei. All’urto, gittò un grido; finse di svenire, tra le mie braccia, sul mio petto. Chinai il viso; la mia guancia sfiorò la guancia di lei; sentii vicino l’ardore della sua bocca anelante, e…

Dopo un rapporto-relazione, la signora ha lasciato signor Fabrizio.

Mi riscosse, alla fine, la sua risata. Una risata diabolica. L’ho qua ancora, negli orecchi! Rise, rise, scappando, la malvagia! Rise della trappola che mi aveva teso con la sua modestia; rise della mia ferocia: e d’altro rise, che seppi dopo.

È andata via, da tre mesi, col marito promosso professor di liceo in Sardegna.

(Ci chiediamo se sia incinta?)

Non credo che il signor Fabrizio sia sconvolto con l’infedeltà della signora. Dopotutto, data la sua mancanza di responsabilità, lealtà e fedeltà, il tradimento iniziale di suo marito e il successivo tradimento del signor Fabrizio potrebbero essere descritto come gli atti impetuosi o infantili.

Invece, credo che il signor Fabrizio sia arrabbiato perché si è permesso di sviluppare i sentimenti d’ammirazione e amore per la signora. Questi sentimenti, se siano stati autorizzati a continuare a crescere, lo avrebbero inevitabilmente portato ad una relazione con la signora, che veramente sarebbe una trappola.

Io non vedrò il mio rimorso. Non lo vedrò. Ma ho la tentazione, in certi momenti, di correre a raggiungere quella malvagia e di strozzarla prima che metta in trappola quell’infelice cavato cosí a tradimento da me.

La novella conclude con il segundo esempio.

Il padre del signor Fabrizio, va verso la fine della sua vita (è stato costretto a letto per sette anni, dopo un ictus?), ma che ha paura di morire. Penso che la paura della morte sia un altro esempio d’una trappola.

Da sette anni, sta lí. Non è piú niente. Due occhi che piangono; una bocca che mangia. Non parla, non ode, non si muove piú. Mangia e piange. Mangia imboccato; piange da solo; senza ragione; o forse perché c’è ancora qualche cosa in lui, un ultimo resto che, pur avendo da settantasei anni principiato a morire, non vuole ancora finire.

Non ti sembra atroce restar cosí, per un punto solo, ancora preso nella trappola, senza potersi liberare?

Egli non può pensare a suo padre che lo fissò settantasei anni addietro per questa morte, la quale tarda cosí spaventosamente a compirsi. Ma io, io posso pensare a lui; e penso che sono un germe di quest’uomo che non si muove piú; che se sono intrappolato in questo tempo e non in un altro, lo debbo a lui!

Piange, vedi? Piange sempre cosí… e fa piangere anche me! Forse vuol essere liberato. Lo libererò, qualche sera, insieme con me. Ora comincia a far freddo; accenderemo, una di queste sere, un po’ di fuoco… Se ne vuoi profittare…

(Ci chiediamo se signor Fabrizio sta pianificando un omicidio-suicidio?)

No, eh? Mi ringrazii? Sí, sí, andiamo fuori, andiamo fuori, amico mio. Vedo che tu hai bisogno di rivedere il sole, per via.

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