Riassunto: Le sorprese della scienza

Avevo ben capito che l’amico Tucci, nell’invitarmi con quelle sue calorose e pressanti lettere a passare l’estate a Milocca, in fondo non desiderava tanto di procurare un piacere a me, quanto a se stesso il gusto di farmi restare a bocca aperta mostrandomi ciò che aveva saputo fare, con molto coraggio, in tanti anni d’infaticabile operosità.

Inizia così Le sorprese della scienza (L. Pirandello), una novella squisita che prende in esame alcune delle difficoltà intrinseche della vita moderna, soprattutto per coloro che mancano l’esperienza e la raffinatezza.

A mio parere il protagonista della novella sia il governo di Milocca, un paese isolato e impoveritissimo in Sicilia.

Il narratore della novella è uno scrittore di narrativa che ha raggiunto una misura di fama in tutta l’Italia. Immagino che il narratore viva a Roma; lui ha uno spirito mordente: è egocentrico e un po’ cinico, con una visione ironica della sua vita e del suo prossimo.

Nonostante la fama del narratore, che probabilmente sia stata accompagnata dal successo di critica, non è ricco. Il narratore suggerisce che questo sia perché l’interesse in Italia per il suo lavoro era relativamente piccola.

Ebbene, confesso che proprio quest’ultima notizia fu quella che mi vinse. Non càpita facilmente agli scrittori italiani la fortuna di veder la faccia dabbene d’uno dei tre o quattro acquirenti di qualche loro libro benavventurato. Presi il treno e partii per Milocca.

All’inizio della novella il narratore ha accettato l’invito d’un vecchio amico, Merigo Tucci, per trascorrere l’estate nella sua villa piazzata vicino a Milocca. Impariamo che il Tucci, dopo molto tempo e spesa, sembra aver perseverato e superato molte difficoltà al fine di rinnovare la sua proprietà.

Aveva preso a suo rischio e ventura certi terreni paludosi che ammorbavano quel paese, e ne aveva fatto i campi piú ubertosi di tutto il circondario: un paradiso!

Non mi faceva grazia nelle sue lettere di nessuno dei tanti palpiti che quella bonifica gli era costata e di nessuno dei tanti mezzi escogitati, dei tanti guaj che gli erano diluviati, di nessuna delle tante lotte sostenute, lui solo contro Milocca tutta: lotte rusticane e lotte civili.

Il narratore ha una visione ironica dell’invito di Tucci: si sospetta che l’invito ha più a che fare con suo l’orgoglio e l’autostima che con la sua generosità.

…in fondo non desiderava tanto di procurare un piacere a me, quanto a se stesso il gusto di farmi restare a bocca aperta mostrandomi ciò che aveva saputo fare, con molto coraggio, in tanti anni d’infaticabile operosità.

I due uomini non sono rimasti in contatto da quando hanno frequentato l’Università. La prima lettera del Tucci dev’essere venuta come una completa sorpresa: il narratore ammette che ha solo un vago ricordo del suo vecchio amico.

Più avanti nella storia il narratore spiega che di recente (e apparentemente per caso) il Tucci ha letto una recensione di uno dei suoi libri e di conseguenza lui è stato sopraffatto dai ricordi della loro amicizia.

Perché la mia fama di scrittore era volata fino a Milocca, dacché in un giornale s’era letto non so che articolo che parlava di me e d’un mio libro, dove c’era un uomo che moriva due volte. Leggendo quell’articolo di giornale, l’amico Tucci s’era ricordato d’un tratto che noi eravamo stati compagni di scuola tant’anni, al Liceo e all’Università, e aveva parlato entusiasticamente del mio straordinario ingegno a suo suocero, il quale subito s’era fatto venire il libro di cui quel giornale parlava.

Il narratore alla fine ha accettato l’invito, cioè, dopo che lui viene a sapere che il Tucci e suo suocero hanno acquistato una copia del suo libro!

Durante il viaggio — che è stato lungo … 8 ore su un treno seguita da 3 ore in una vettura — il narratore si è chiesto quanto sia difficile sarà quello di ristabilire la sua amicizia con il Tucci… soprattutto perché i due uomini sembra avere così poco in comune. La preoccupazione del narratore si è basata in parte sul suo presupposto che il Tucci è ricco e di successo.

– Chi sa, dopo tant’anni, come ritroverò Merigo Tucci! Già me lo ricordo cosí in nebbia. Chi sa come si sarà abbrutito a furia di batter la testa contro le dure, stupide realtà quotidiane d’una meschina vita provinciale! Da compagno di scuola, egli mi ammirava; ma ora vuol essere ammirato lui da me, perché – buttati via i libri – s’è arricchito; mentr’io, là! …E questo paese che Tucci mi ha decantato ricchissimo e che intanto si fa trovare al bujo, dopo quella stradaccia lí e questo legnetto qua per accogliere gli ospiti. Dove son venuto a cacciarmi?

Come appena diventa evidente, l’ipotesi del narratore era dimostrata d’essere falsa. In primo luogo, il viaggio in vettura era difficile: la vettura era vecchia e scomoda; avrebbe dovuto essere scartata molto tempo fa.

Ma piano, con questa vettura! Cent’anni fa, non dico, sarà anche stata non molto vecchia; forse qualche molla, cent’anni fa, doveva averla ancora, anche se tre o quattro razzi delle ruote davanti e cinque o sei di quelle di dietro erano di già attorti di spago cosí come si vedevano adesso. Cuscini, non ne parliamo! Là, su la tavola nuda; e bisognava sedere in punta in punta, per cansare il rischio che la carne rimanesse presa in qualche fessura, giacché il legno, correndo, sganasciava tutto.

(Forse un viaggio sponsorizzato da un uomo veramente ricco sarebbe di prima classe e di lusso?)

Inoltre la vettura era trainata da un vecchio asino decrepito che avrebbe dovuto essere in pensione anni fa.

Ma piano, con questo correre! Doveva dirlo la bestia. E quella bestia lí non diceva nulla: s’ajutava perfino col muso a camminare. Sí, centomila volte sí, scambio dei piedi, voleva metterci le froge per terra, come ce le metteva, povera decrepita rozza, tanto gli zoccoli sferrati le facevano male. E quel boja di vetturino intanto aveva il coraggio di dire che bisognava saperla guidare, lasciarla andare col suo verso, perché ombrava, ombrava e, a frustarla, ritta gli si levava come una lepre, certe volte, quella bestiaccia lí.

Infine la ‘strada’ in cui loro hanno viaggiato, sulla sostanza, non esisteva.

E che strada! Non posso dire d’averla proprio veduta bene tutta quanta, perché in certi precipizii vidi piuttosto la morte con gli occhi. Ma c’erano poi le pettate che me la lasciavano ammirare per tutta un’eternità, tra i cigolii del legno e il soffiar di quella rozza sfiancata, che accorava. Da quanti mai secoli non era stata piú riattata quella strada?

E come spiega il vetturino…

– Il pan delle vetture è il brecciale, – mi spiegò il vetturino. – Se lo mangiano con le ruote. Quando manchi il brecciale, si mangiano la strada.

Il narratore alla fine chiede perché la strada non è stata rinnovata:

E se l’erano mangiata bene oh, quella strada! Certi solchi che, a infilarli, non dico, ci s’andava meglio che in un binario, da non muoversene piú però, badiamo! ma, a cascarci dentro per uno spaglio della bestia, si ribaltava com’è vero Dio ed era grazia cavarne sano l’osso del collo.

– Ma perché le lasciano cosí senza pane le vetture a Milocca? – domandai.

– Perché? Perché c’è il progetto, – mi rispose il vetturino.

Il progetto (o i progetti) in esame sono concentrati sulla modernizzazione di Milocca e la terra circostante.

– Progetto, sissignore. Anzi, tanti progetti, ci sono. C’è chi vuol portare la via ferrata fino a Milocca, e chi dice il tram e chi l’automobile. Insomma si studia, ecco, per poi riparare come faccia meglio al caso.

Poi la ragione diventa chiaro perché la vettura e le strade sono in tale rovine: il vetturino non poteva investire nel suo servizio perché ci sono stati molti progetti ancora in esame senza una decisione chiara sul percorso in avanti. Cioè, un servizio di treno-tram, o un aggiornamento delle strade (che renderebbe fattibile per viaggiare in auto), quasi certamente renderebbe il suo servizio di vettura obsoleto. Dunque non sarebbe saggio per lui d’investire nel suo servizio prima che il governo decide che cosa farà.

– E intanto?

– Intanto io mi privo di comperare un altro legno e un’altra bestia, perché, capirà, se mettono il treno o il tram o l’automobile, posso fischiare.

L’ultima porzione del viaggio è stata intrapresa a piedi. Era pericolosa, e il narratore era grata per l’oscurità della notte.

Fortuna ch’era bujo! Quel ch’occhio non vede, cuore non crede. Quando però il giorno dopo vidi quell’altra strada lí, restai basito, non tanto perché c’ero passato, quanto per il pensiero che se Dio misericordioso aveva permesso che non ci lasciassi la pelle, chi sa a quali terribili prove vuol dire che m’ha predestinato.

Entro la mattina del giorno successivo, il narratore ha pienamente reso conto che la descrizione del Tucci di Milocca era falsa.

Fu cosí forte l’impressione che mi fece quella strada e poi l’aspetto di quel paese – squallido, nudo, in desolato abbandono, come dopo un saccheggio o un orrendo cataclisma; senza vie, senz’acqua, senza luce – che la villa dell’amico mio e l’accoglienza ch’egli mi fece con tutti i suoi e l’ammirazione del suocero e via dicendo mi parvero rose, a confronto.

 

– Ma come! – dissi al Tucci. – Questo è il paese ricco e felice, tra i piú ricchi e felici del mondo?

Ora il lettore capisce quanto poco il narratore e il Tucci hanno in comune. Il narratore considera Milocca come una zona del disastro (in povertà e non sofisticata; senza l’acqua, le case, le strade e la luce). Al contrario il Tucci vede la città e la terra circostante come pieni di possibilità. Senza dubbio le rispettive opinioni si basano sulle loro esperienze di vita dopo l’università. La domanda è: Quale uomo è giusto?

Il narratore chiede se l’ignoranza del Tucci sia la causa della sua felicità?

– Mi canzoni? – gli gridai. – Non avete neanche acqua per bere e per lavarvi la faccia, case da abitare, strade per camminare, luce la sera per vedere dove andate a rompervi il collo, e siete ricchi e felici? Va’ là, ho capito, sai. La solita retorica! La ricchezza e la felicità nella beata ignoranza, è vero? Vuoi dirmi questo?

Il Tucci risponde che la sua fiducia nel futuro si basa sulla sua fede (e la fede degli altri nel governo) nella scienza!

– No, al contrario, – mi rispose Merigo Tucci, con un sorriso, opponendo studiatamente alla mia stizza altrettanta calma. – Nella scienza, caro mio! La felicità nostra è fondata nella scienza piú occhialuta che abbia mai soccorso la povera, industre umanità. Oh sí, staremmo freschi veramente, se fossero ignoranti i nostri amministratori! Tu m’insegni. Che salvaguardia può esser piú l’ignoranza in tempi come i nostri?

Poi il Tucci ha spiegato al narratore che ci sarà una riunione del governo del paese quella sera e che saranno entrambi presenti. L’incontro mostrerà al narratore perché il Tucci è rimasto ottimisto.

Gli uomini passano la giornata insieme. Il disprezzo del narratore per il Tucci e le sue realizzazioni è ovvio.

Tucci, ad esempio, mi fece visitare palmo per palmo i suoi campi? Gli sorrisi. Mi fece una nuova e piú diffusa spiegazione della sua grande impresa lí su i luoghi? Gli sorrisi. E davvero l’impeto delle correnti aveva sgrottato tutte le terre e a lui era toccato asciugare e rialzar le campagne, corredandole della belletta, del grassume prezioso? Sí? davvero? Oh che piacere! Gli sorrisi. Ma far la roba è niente: a governarla ti voglio! E dunque gli ulivi si governano ogni tre anni con tre o quattro corbelli di sugo sostanzioso, pecorino? Sí? davvero? Oh che piacere! E gli sorrisi anche quando in cantina, con un’aria da Carlomagno, mi mostrò quattro lunghe andane di botti, e anche lí mi spiegò come valga piú saper governare il tino che la botte e com’egli facesse piú colorito il vino e come gli accrescesse forza e corpo mescolandovi certe qualità d’uve scelte, spicciolate, ammostate da sé, senza mai erbe, mai foglie di sambuco o di tiglio, mai tannino o gesso o catrame.

Finalmente è l’ora della riunione. L’edificio del governo è altrettanto decrepito come il resto del Milocca.

Era, come la maestra e donna di tutte le case del paese, la piú squallida e la piú scura: una catapecchia grave in uno spiazzo sterposo, con in mezzo un fosco cisternone abbandonato. Vi si saliva per una scalaccia buja, intanfata d’umido, stenebrata a malapena da due tisici lumini filanti, di quelli con le spere di latta, appiccati al muro quasi per far vedere come ornati di stucco, no, per dir la verità, non ce ne fossero, ma gromme di muffa, sí, e tante!

La mastra sala, la Sala del Consiglio, rischiarata da altri lumini a cui quelli della scala avevano ben poco da invidiare, pareva un’aula di pretura delle piú sudice e polverose. I banchi dei consiglieri e le poltrone di cuojo erano della piú venerabile antichità; ma, a considerarli bene nelle loro relazioni con quelli che tra poco avrebbero preso posto in essi e che ora passeggiavano per la sala, assorti, taciturni, ispidi come tanti cocomerelli selvatici pronti a schizzare a un minimo urto il loro sugo purgativo, pareva che non per gli anni si fossero logorati cosí, ma per la cura cupamente austera del pubblico bene, per i pensieri roditori che in loro, naturalmente, erano divenuti tarli.

Il narratore esprime il suo pregiudizio che i governi sono spesso farsi: né servono né gesticono gli interessi della cittadinanza.

Saliva con noi una moltitudine di gente, attirata dalla discussione di gran momento che doveva svolgersi quella sera; saliva con un contegno, anzi con un cipiglio che doveva per forza meravigliare uno come me, abituato a non vedere mai prendere sul serio le sedute d’un Consiglio comunale.

Inoltre i cittadini di Milocca sono docili e timidi.

La meraviglia mi era poi accresciuta, dall’aria, dall’aspetto di quella gente, che non mi pareva affatto cosí sciocca da doversi con tanta facilità contentare d’esser trattata com’era, cioè a modo di cani, dal Municipio.

Ci sono cinque uomini che comandano la narrazione della novella a questo punto. Loro sono lo Zagardi, l’Ansatti, il Colacci, il Maganza e il Placci.

Il sindaco (il Placci) sembra essere uno sciocco, capace solo di lingua politicamente corretta e gli atteggiamenti. (Lui sembra essere ignorato per la maggior parte.)

L’ordine del giorno reca: – Discussione del Progetto presentato dalla Giunta per un impianto idro-termo-elettrico nel Comune di Milocca. – Signori Consiglieri! Voi conoscete già questo progetto e avete avuto tutto il tempo d’esaminarlo e di studiarlo in ogni sua parte. Prima di aprire la discussione, consentite che io, anche a nome dei colleghi della Giunta, dichiari che noi abbiamo fatto di tutto per risolvere nel minor tempo e nel modo che ci è sembrato piú conveniente, sia per il decoro e per il vantaggio del paese, sia rispetto alle condizioni economiche del nostro Comune, il gravissimo problema dell’illuminazione. Aspettiamo dunque fiduciosi e sereni il vostro giudizio, che sarà equo certamente; e vi promettiamo fin d’ora, che accoglieremo ben volentieri tutti quei consigli, tutte quelle modificazioni che a voi piacerà di proporre, ispirandovi come noi al bene e alla prosperità del nostro paese.

Che cosa? Le ore e i soldi sono stati spesi in considerazione della costruzione d’un impianto idro-termo-elettrico che illuminerà Milocca, cioè che porterà Milocca nell’era moderna? Con quali risorse? E chi gestirà il progetto? Prima che i dettagli sono descritti, il progetto sembra essere basato sulla fantasia piuttosto sulla realtà.

La proposta per la costruzione d’un impianto idro-termo-elettrico è infatti così scandalosa-ridicola che sia divertente!

Il narratore è sbalordito, attonito.

Prestai ascolto anch’io a quel verbale, volgendomi ogni tanto, smarrito e sgomento, a guardare l’amico Tucci. A proposito delle strade di Milocca, si parlava come niente di Londra, di Parigi, di Berlino, di New York, di Chicago, in quel verbale, e saltavan fuori nomi d’illustri scienziati d’ogni nazione e calcoli complicatissimi e astrusissime disquisizioni, per cui i capelli del magro, pallido segretario mi pareva si ritraessero verso la nuca, man mano ch’egli leggeva, e che la fronte gli crescesse mostruosamente. Intanto due o tre uscieri, zitti zitti, in punta di piedi, recavano a questo e a quel banco pile enormi di libri e grossi incartamenti.

Per il credito di Milocca ci sono alcuni uomini che capiscono chiaramente che il progetto non può essere presa seriamente in considerazione.

E si levò prima a parlare il consigliere Maganza, quello dall’impostatura militaresca. Premise che sarebbe stato brevissimo, al solito suo. Tanto piú che per distruggere e atterrare quel fantastico edificio di cartapesta (sic), ch’era il progetto della Giunta, poche parole sarebbero bastate. Poche parole e qualche cifra.

E punto per punto il consigliere Maganza si mise a criticare il progetto, con straordinaria lucidità d’idee e parola acuta, incisiva: il complesso dei lavori e delle spese; la sanzione che si doveva dare per l’acquisto della concessione dell’acqua di Chiarenza; i rischi gravissimi a cui sarebbe andato incontro il Municipio: il rischio della costruzione e il rischio dell’esercizio; l’insufficienza della somma preventivata, che saltava agli occhi di tutti coloro che avevano fatto impianti meccanici e sapevano come fosse impossibile contener le spese nei limiti dei preventivi, specialmente quando questi preventivi erano fatti sopra progetti di massima e con l’evidente proposito di fare apparir piccola la spesa; il carattere impegnativo che aveva l’offerta dell’accollatario, fermi restando i dati su i quali l’offerta medesima era fondata; dati che per forza il Consiglio avrebbe dovuto alterare con varianti e aggiunte ai lavori idraulici, con varianti e aggiunte agl’impianti meccanici; e ciò oltre a tutti i casi imprevisti e imprevedibili, di forza maggiore, e a tutte le accidentalità, incagli, intoppi, che certamente non sarebbero mancati. Come poi fare appunti particolareggiati senza avere a disposizione i disegni d’esecuzione e i dati necessarii? Eppure due enormi lacune apparivano già evidentissime nel progetto: nessuna somma per le spese generali, mentre ognuno comprendeva che non si potevano eseguire lavori cosí grandiosi, cosí estesi, cosí varii e delicati, senza gravi spese di direzione e di sorveglianza e spese legali e amministrative; e l’altra lacuna ben piú vasta e profonda: la riserva termica che in principio la Giunta sosteneva non necessaria e che poi finalmente ammetteva.

E qui il consigliere Maganza, con l’ajuto dei libri che gli avevano recati gli uscieri, si sprofondò in una intricatissima, minuziosa confutazione scientifica, parlando della forza dei torrenti e delle cascate e di prese e di canali e di condotte forzate e di macchinarii e di condotte elettriche e delle relazioni da stabilire tra riserva termica e forza idraulica, oltre la riserva degli accumulatori; citando la Società Edison di Milano e l’Alta Italia di Torino e ciò che per simili impianti s’era fatto a Vienna, a Pietroburgo, a Berlino.

Eran passate circa due ore e il brevissimo discorso non accennava ancora di finire. Il pubblico stipato pendeva dalle labbra dell’oratore, per nulla oppresso da tanta copia d’irta, spaventevole erudizione. Io quasi non tiravo piú fiato; eppure lo stupore mi teneva lí, con gli occhi sbarrati e a bocca aperta. Ma, alla fine, il Maganza, mentre il pubblico s’agitava, non già per sollievo, anzi per viva ammirazione, concluse cosí:

– La dura esperienza in altre città, o signori, ha purtroppo dimostrato che gl’impianti idro-termoelettrici sono della massima difficoltà e serbano dolorosissime sorprese. Nessuno può far miracoli, e tanto meno, su la base d’un cosí fatto progetto, potrà farne il Municipio di Milocca!

Poi il signor Ansatti offre un’alternativa, che viene prontamente ridicolizzato dal signor Zagardi.

Scoppiarono frenetici applausi e il consigliere Ansatti si precipitò dal suo banco ad abbracciare e baciare il Maganza; poi, rivolto al pubblico e ritornando man mano al suo posto, prese a gridare tutto infocato, con violenti gesti:

– Si osa proporre, o signori, oggi, oggi, come se noi ci trovassimo dieci o venti anni addietro, al tempo di Galileo Ferraris, si osa proporre un impianto idro-termo-elettrico a Milocca! Ah come mi metterei a ridere, se potesse parermi uno scherzo! Ma coi denari dei contribuenti, o signori della Giunta, non è lecito scherzare, ed io non rido, io m’infiammo anzi di sdegno! Un impianto idrotermo- elettrico a Milocca, quando già spunta su l’orizzonte scientifico la gloria consacrata di Pictet? Non vi farò il torto di credere, o signori, che voi ignoriate chi sia l’illustre professor Pictet, colui che con un processo di produzione economica dell’ossigeno industriale prepara una memoranda rivoluzione nel mondo della scienza, della tecnica e dell’industria, una rivoluzione che sconvolgerà tutto il macchinismo della vita moderna, sostituendo questo nuovo elemento di luce e di calore a tutti quelli, di potenza molto minore, che finora sono in uso!

E poi lo Zagardi offre un’altra soluzione, lo più semplice di gran lunga.

– Ho sogghignato, – disse, – e sogghigno, collega Ansatti, nel vederti cosí tutto fiammante d’ossigeno industriale, paladino caloroso del professor Pictet! Ho sogghignato e sogghigno, collega Ansatti, non tanto di sdegno quanto di dolore, nel vedere come tu, cosí accorto, tu, giovane e vigile bracco della scienza, ti sia fermato alla nuova scoperta di quel professor francese e, abbagliato dalla luce venti volte cresciuta delle reticelle Auer, non abbia veduto un piú recente sistema d’illuminazione che il Municipio di Parigi va sperimentando per farne poi l’applicazione generale nella ville lumière. Io dico il Lusol, collega Ansatti, e non iscioglierò inni in gloria della nuova scoperta, perché non con gl’inni si fanno le rivoluzioni nel campo della scienza, della tecnica e dell’industria, ma con calcoli riposati e rigorosi.

E qui lo Zagardi, non smettendo mai di tormentarsi sul mento la barbetta rossigna, piano piano, col suo fare mordace e dispettoso, parlò della semplicità meravigliosa delle lampade a lusol, nelle quali il calore di combustione dello stoppino e la capillarità bastavano a determinare senz’alcun meccanismo l’ascesa del liquido illuminante, la sua vaporizzazione e la sua mescolanza alla forte proporzione d’aria che rendeva la fiamma piú viva e sfavillante di quella ottenuta con qualunque altro sistema. E per un miserabilissimo centesimo si sarebbe ormai avuta la stessa luce che si aveva a quattro o cinque centesimi col vile petrolio, a otto o dieci con l’ambiziosa elettricità, a quindici o venti col pacifico olio. E il Lusol non richiedeva né costruzioni di officine, né impianti, né canalizzazioni. Non aveva egli dunque ragione di sogghignare?

La fine della novella è completamente ironica. Il governo sembra dire al popolo: “La scienza è sempre in movimento in avanti!” “C’è sempre un’altra possibilità (sorpresa) appena oltre l’orizzonte!” “Continuare a studiare la situazione fino a trovare la soluzione perfetta per il problema!” “C’è speranza!” “Avete fede!”

…il fatto è che, alla fine del discorso dello Zagardi, i lumi si abbassarono di tanto, che si era quasi al bujo quando sorse per ultimo a parlare il Colacci, il vecchio gigantesco dalla pinguedine floscia. Ma ecco: prima un usciere e poi un altro e poi un terzo entrarono come fantasmi nell’aula, reggendo ciascuno una candela stearica. L’aspettazione nel pubblico era intensa; indimenticabile la scena che offriva quella tetra sala affollata, nella semioscurità, con quelle tre candele accese presso il vecchio gigantesco che con ampii gesti e voce tonante magnificava la Scienza, feconda madre di luce inestinguibile, produttrice inesauribile di sempre nuove energie e di piú splendida vita. Dopo le scoperte mirabili di cui avevano parlato l’Ansatti e lo Zagardi, era piú possibile sostenere l’impianto idro-termo-elettrico proposto dalla Giunta? Che figura avrebbe fatto il paese di Milocca illuminato soltanto a luce elettrica? Questo era il tempo delle grandi scoperte, e ogni Amministrazione che avesse veramente a cuore il decoro del paese e il bene dei cittadini, doveva stare in guardia dalle sorprese continue della Scienza. Il consigliere Colacci, pertanto, sicuro d’interpretare i voti del buon popolo milocchese e di tutti i colleghi consiglieri, proponeva la sospensiva sul progetto della Giunta, in vista dei nuovi studii e delle nuove scoperte che avrebbero finalmente dato la luce al paese di Milocca.

– Hai capito? – mi domandò Tucci, uscendo poco dopo nelle tenebre dello spiazzo sterposo innanzi al Municipio. – E cosí per l’acqua, e cosí per le strade, e cosí per tutto. Da una ventina d’anni il Colacci si alza a ogni fine di seduta per inneggiare alla Scienza, per inneggiare alla luce, mentre i lumi si spengono, e propone la sospensiva su ogni progetto, in vista di nuovi studii e di nuove scoperte. Cosí noi siamo salvi, amico mio! Tu puoi star sicuro che la Scienza, a Milocca, non entrerà mai. Hai una scatola di fiammiferi? Cavala fuori e fatti lume da te.

Ma nulla è compiuto! e i cittadini soffrono! Dunque le domande critiche sono, “È questo triste esito il risultato d’un gioco cinico giocato dai politici?” o “È questo l’inevitabile conseguenza d’un sistema in cui i politici non sono ritenuti responsabili per le loro azioni?”

***

C’è molto poco una persona media può fare per cambiare la vita quotidiana quando il governo è corrotto e non rendere conto ai cittadini.

A mio parere con Le sorprese della scienza il Pirandello ha messo a confronto le personalità dei due uomini i cui percorsi sono discostati dopo l’università. Sia gli uomini che hanno dovuto affrontare gli ostacoli nella loro vita quotidiana.

Un uomo, il narratore, è un intellettuale e un artista che vive a Roma e ha guadagnato il plauso della critica per il suo lavoro, ma non è mai riuscito a raggiungere un successo commerciale. Il narratore è impegnativo, aggressivo ed egoista. Ha poco riguardo per la capacità del governo di migliorare la vita della gente comune, invece egli vede il governo come un ostacolo al progresso. Lui è un cinico che vede la vita da un punto di vista ironico.

L’altro, Merigo Tucci, è un uomo pratico che vive in relativa isolazione e in condizioni di povertà nella campagna siciliana. Il Tucci accetta le cose come sono; lei è paziente, non sofisticato, e timida. Lui crede nella capacità della scienza, della tecnologia e del governo per migliorare la vita della gente comune.

E per voi, quale atteggiamento è meglio?

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