Riassunto: Le medaglie

Sciaramè, quella mattina, s’aggirava per la sua cameretta come una mosca senza capo.

Piú d’una volta Rorò, la figliastra, s’era fatta all’uscio, a domandargli:

– Che cerca?

E lui, dissimulando subito il turbamento, frenando la smania, le aveva risposto, dapprima, con una faccetta morbida, ingenua:

– Il bastone, cerco.

E Rorò:

– Ma lí, non vede? All’angolo del canterano.

Ed era entrata a prenderglielo. Poco dopo, a una nuova domanda di Rorò, aveva ancora trovato modo di dirle che gli bisognava un… sí, un fazzoletto pulito. E lo aveva avuto; ma ecco, non si risolveva ancora ad andarsene.

Inizia così Le medaglie (L. Pirandello), una descrizione tragica e dolorosa d’un uomo vecchio con una personalità diffetosa e un carattere imperfetto. Si tratta di una novella della verità ed autenticità.

Il protagonista, Carlandrea Sciaramè, ha 68 anni; vive in un paese nella campagna siciliana con Rorò, la sua figliastra. È evidente dall’inizio della novella che lo Sciaramè è un uomo buono… generoso, gentile e giusto (equo). Tuttavia questi tratti ammirevoli non sembrano riflettere una forza del carattere; invece sembrano emmanare da un difetto del carattere: è evidente che lui sia pieno di auto-dubbio, auto-ripugnanza, insicurezza, ansia e agitazione interiore. Insieme, di sicuro, questi sentimenti sono molto distruttivi.

(Entro la fine della novella il lettore capisce che lo Sciaramè non ha controllo della sua vita. Invece lui è una persona timida e il suo destino è controllato dagli altri e dalle circostanze della vita quotidiana.)

Nel passaggio d’apertura lo Sciaramè viene agitato (“…s’aggirava per la sua cameretta come una mosca senza capo.”). Lui cerca di nascondere i suoi sentimenti (“E lui, dissimulando subito il turbamento, frenando la smania, le aveva risposto, dapprima, con una faccetta morbida, ingenua: – Il bastone, cerco.”).

La verità è che lo Sciaramè è stato costretto dagli altri per discutere con Rorò un argomento difficile. Inoltre lo Sciaramè capisce che Rorò non lo ammira. Lei, infatti, è brutalmente franca per quanto riguarda i suoi sentimenti.

La verità era questa: che Sciaramè, quella mattina, cercava il coraggio di dire una certa cosa alla figliastra; e non lo trovava. Non lo trovava, perché aveva di lei la stessa suggezione che aveva già avuto della moglie, morta da circa sette anni. Di crepacuore, sosteneva Rorò, per la imbecillità di lui.

Secondo me la paura è basata sulla possibilità che la discussione con Rorò non andrà bene (cioè, diventerà arrabbiata e violenta la Rorò?), e la paura ha causato lo Sciaramè a procrastinare ed esitare.

Cos’è successo? A un tempo lo Sciaramè era un proprietario terriero ed economicamente benestante… tuttavia ha perso quasi tutto.

Perché Carlandrea Sciaramè, agiato un tempo, aveva perduto a un certo punto il dominio dei venti e delle piogge, e dopo una serie di mal’annate, aveva dovuto vendere il poderetto e poi la casa e, a sessantotto anni, adattarsi a fare il sensale d’agrumi. Prima li vendeva lui, gli agrumi, ch’erano il maggior prodotto del podere (li vendeva per modo di dire: se li lasciava rubare, portar via per una manciata di soldi dai sensali ladri); ora avrebbe dovuto farla lui la parte del ladro, e figurarsi come ci riusciva!

La sfortuna dello Sciaramè è significativa in quanto lui è caduto dalla classe media alla povertà.

Già, non gliela lasciavano nemmeno mettere in prova. Una volta tanto, qualche affaruccio, per pagargli la sensería, come carità. E per guadagnarsela, quella sensería, doveva correre, povero vecchio, un’intera giornata, infermiccio com’era, gracile, malato di cuore, con quei piedi gonfi, imbarcati in certe scarpacce di panno sforacchiate. Quand’era al vespro, rincasava, disfatto e cadente, con due lirette in mano, sí e no.

Nonostante l’avversità e sfortuna che ha sofferto (più la sua fama di essere un uomo debole e timida) lo Sciaramè non è sottoposto al ridicolo. I cittadini sembrano tenerlo vicino al loro cuore… lui è una figura di simpatia e rispetto, a causa dei suoi exploit precedenti come un Garibaldino.

La gente però credeva che di tutte le pene che gli toccava patire si rifacesse poi nelle grandi giornate del calendario patriottico, nelle ricorrenze delle feste nazionali, allorché con la camicia rossa scolorita, il fazzoletto al collo, il cappello a cono sprofondato fin su la nuca, recava in trionfo le sue medaglie garibaldine del Sessanta.

Sette medaglie!

(Cioè, una medaglia per ogni città che lo Sciaramè ha aiutato liberare.)

Subito dopo questo paragrafo, tuttavia, il lettore si intravede il tumulto interiore dello Sciaramè.

Eppure, arrancando in fila coi commilitoni nel corteo, dietro la bandiera del sodalizio dei Reduci, Sciaramè sembrava un povero cane sperduto. Spesso levava un braccio, il sinistro, e con la mano tremicchiante o si stirava sotto il mento la floscia giogaja o tentava di pinzarsi i peluzzi ispidi sul labbro rientrato; e insomma pareva facesse di tutto per nascondere cosí, sotto quel braccio levato, le medaglie, dando a ogni modo a vedere che non gli piaceva farne pompa.

Molti, vedendolo passare, gli gridavano:

– Viva la patria, Sciaramè!

E lui sorrideva, abbassando gli occhietti calvi, quasi mortificato, e rispondeva piano, come a se stesso:

– Viva… viva…

Lo Sciaramè possiede ancora un edificio a due piani. Lui vive al primo piano con Rorò mentre il pianterreno è occupato dalla Società dei Reduci Garibaldini.

La Società dei Reduci Garibaldini aveva sede nella stanza a pianterreno dell’unica casupola rimasta a Sciaramè di tutte le sue proprietà. Egli abitava sú, con la figliastra, in due camerette, a cui si accedeva per una scaletta da quella stanza terrena. Su la porta era una tabella, ove a grosse lettere rosse era scritto:

Reduci Garibaldini.

Il soggetto della conversazione difficile è il Rosolino La Rosa, un giovanotto che è attratto da Rorò. Il La Rosa si considera d’essere un proprio garibaldino: anche se il La Rosa è almeno una generazione rimosso da coloro che hanno attualmente combattuto con il Garibaldi, le sue idee politiche sono allineate con quelle del Garibaldi (e l’unificazione d’Italia). Inoltre il La Rosa è un veterano d’un’altra guerra. Dunque, dato le sue idee politiche e le azioni precedenti, il La Rosa presuppone che sarebbe benvenuto a partecipare nella Società.

Questo è un presupposto falso.

Ora Sciaramè, quel giorno, doveva dire appunto alla figliastra di non scendere piú in quella stanza, sede della Società, e di rimanersene invece a lavorare sú, nella sua cameretta, perché Amilcare Bellone, presidente dei Reduci, s’era lamentato con lui, non propriamente di quest’abitudine di Rorò, ch’era infine la padrona di casa, ma perché, con la scusa di venire a leggere i giornali, vi entrava quasi ogni mattina un giovinastro, un tal Rosolino La Rosa, il quale, per essere andato in Grecia insieme con tre altri giovanotti del paese, il Betti, il Gàsperi e il Marcolini, a combattere nientemeno contro la Turchia, si credeva garibaldino anche lui.

Il La Rosa è un dandy, immaturo e pieno di fiducia, assertivo. Sembra essere attratto da Rorò in parte a causa della sua bellezza (“Era una bella ragazza, bruna e florida”) e in parte a causa delle opinioni politiche di lei.

Ci voleva poco a capire che non veniva nella sede dei Reduci per leggere i giornali e le riviste, ma per farsi vedere lí come uno di casa tra i garibaldini, e anche per fare un po’ all’amore con Rorò dalla camicetta rossa.

In previsione della sua conversazione con Rorò, lo Sciaramè considera il punto di vista di lei.

Sciaramè lo aveva capito anche lui; ma sapeva pure che Rorò era molto accorta e che il giovanotto era ricco e sventato. Poteva egli, in coscienza, troncare la probabilità d’un matrimonio vantaggioso per la figliastra? Egli era vecchio e povero; tra breve, dunque, come sarebbe rimasta quella ragazza, se non riusciva a procurarsi un marito? Poi, non era veramente suo padre e non aveva perciò tanta autorità su lei da proibirle di fare una cosa, in cui non solo riteneva che non ci fosse nulla di male, ma da cui anzi prevedeva che potesse derivarle un gran bene.

Poi si considera il punto di vista di Amilcare Bellone, il presidente della Società; il Bellone crede che il La Rosa è indegna dell’ulteriore considerazione (cioè, lui non lo considerano il La Rosa come un vero Garibaldino).

D’altro canto, però, Amilcare Bellone non aveva torto, neanche lui. Questi erano affari di famiglia, in cui la Società dei Reduci non aveva che vedere. Già nella via si sparlava di quell’intrighetto del La Rosa e di Rorò, a cui pareva tenesse mano la Società; e il Bellone, ch’era di questa e del suo buon nome giustamente geloso, non poteva permetterlo. Che fare intanto? Come muoverne il discorso a Rorò?

Finalmente lo Sciaramè ha la conversazione difficile con Rorò, ma non è stato risolto niente. La timidezza e il turbamento interiore dello Sciaramè (che sono trasmesse dai tic nervosi) sono descritti in modo bello.

Sciaramè diede un’ingollatina, poi rimase in mezzo alla camera a stirarsi il labbro e a battere le pàlpebre, stizzito, non sapeva bene se contro se stesso o contro Rorò o contro i Reduci. Ma qualche cosa bisognava infine che facesse. Intanto, questa: uscir fuori. Un po’ d’aria! All’aria aperta, chi sa! qualche idea gli sarebbe venuta. E scese la scaletta, con una mano appoggiata al muro e l’altra al bastoncino che mandava innanzi; poi giú un piede gonfio e poi l’altro, soffiando per le nari, a ogni scalino, la pena e lo stento; attraversò la stanza terrena e uscí senza dir nulla a Rorò, che già parlava con una vicina e non si voltò neppure a guardarlo.

Mentre cammina dalla casa sua a un caffè, il lettore intravede i pensieri interiori dello Sciaramè.

Ah che sollievo sarebbe stato per lui se questa benedetta figliuola si fosse maritata, magari con qualche altro giovine, se non proprio col La Rosa! Col La Rosa, veramente – a pensarci bene – gli sembrava difficile: punto primo, perché Rorò era povera; poi, perché la chiamavano la Garibaldina, e i signori La Rosa, invece, per il figliuolo sventato cercavano una ragazza assennata, senza fumi patriottici. Non che Rorò ne avesse: non ne aveva mai avuti; ma s’era fatta pur troppo questa fama, e forse ora se n’avvaleva, come d’una ragna a cui nessuno poteva dire che lei avesse posto mano, per farvi cascare quel farfallino del La Rosa.

 

– Magari! – sospirava tra sé e sé Sciaramé, pensando che, veramente, pareva già avviluppato bene il farfallino.

 

Via, come andare a guastar quella ragna proprio adesso, per far piacere ai signori Reduci che non pagavano neppure la pigione? E in che consisteva, alla fin fine, tutto il male per Amilcare Bellone? Nel fatto che il La Rosa aveva portato in Grecia la camicia rossa. Dispetto e gelosia! La camicia rossa addosso a quel giovanotto pareva a quel benedett’uomo un vero e proprio sacrilegio, e lo faceva infuriare come un toro. Se a leggere i giornali, là dai Reduci, fosse venuto qualche altro giovanotto, certo non se ne sarebbe curato.

Al caffè, i giovanotti spesso unirsi a lui e chiedergli di raccontare le storie sul suo tempo con il Garibaldi.

Lí seduto, ogni giorno, aspettava che qualcuno lo chiamasse per qualche commissione: aspettando, mangiato dalle mosche e dalla noja, s’addormentava. Non prendeva mai nulla, in quel Caffè, neanche un bicchier d’acqua con lo schizzo di fumetto; ma il padrone lo sopportava perché spesso gli avventori si spassavano con lui forzandolo a parlare e di Calatafimi e dell’entrata di Garibaldi a Palermo e di Milazzo e del Volturno. Sciaramè ne parlava con accorata tristezza, tentennando il capo e socchiudendo gli occhietti calvi. Ricordava gli episodii pietosi, i morti, i feriti, senz’alcuna esaltazione e senza mai vantarsi. Sicché, alla fine, quelli che lo avevano spinto a parlare per goderselo, restavano afflitti, invece, a considerare come l’antico fervore di quel vecchietto fosse caduto e si fosse spento nella miseria dei tristi anni sopravvissuti.

Questo giorno però il Bellone lo trova lo Sciaramè al caffè. Il Bellone è arrabbiato perché il La Rosa è di nuovo venuto a visitare Rorò. Il Bellone lo tratta lo Sciaramè in modo irrispettoso e aggressivo.

Stava per posare il mento su le mani appoggiate al pomo del bastoncino, quando si sentí chiamare rabbiosamente da Amilcare Bellone sopravvenuto come una bufera. Sobbalzò e si levò in piedi, sotto lo sguardo iroso del Presidente della Società dei Reduci.

– Gliel’ho detto, sai? a Rorò. Gliel’ho detto questa mattina – premise, per ammansarlo, accostandoglisi.

Ma il Bellone lo afferrò per un braccio, lo tirò a sé e, mettendogli un pugno sotto il naso, gli

gridò:

– Ma se è là!

– Chi?

– Il La Rosa!

– Là?

– Sí, e adesso te lo accomodo io. Te lo caccio via io, a pedate!

– Per carità! – scongiurò Sciarame. – Non facciamo scandali! Lascia andar me. Ti prometto che non ci metterà piú piede. Credevo che bastasse averlo detto a Rorò… Ci andrò io, lascia fare!

Il Bellone sghignò; poi, senza lasciargli il braccio, gli domandò:

– Vuoi sapere che cosa sei?

Sciaramè sorrise amaramente, stringendosi nelle spalle.

– Mammalucco? – disse. – E te ne accorgi adesso? Lo so da tanto tempo, io, bello mio.

E s’avviò, curvo, scotendo il capo, appoggiato al bastoncino.

Lo Sciaramè torna a casa sua per parlare con il La Rosa.

Quando Rorò, che se ne stava seduta presso la porta, scorse il patrigno da lontano, fece segno a Rosolino La Rosa di scostarsi e di sedere al tavolino dei giornali. Il La Rosa con una gambata fu a posto; aprí sottosopra una rivista, e s’immerse nella lettura.

(C’è una ragione plausibile per cui il Bellone ha chiesto che lo Sciaramè rimuovere il La Rosa dallo spazio della Società… lo Sciaramè, dopotutto, possiede l’edificio e la società ha ‘affittato’ lo spazio del pianterreno da lui. Certo l’ironia della situazione è che la Società non ha pagato mai l’affitto!)

Lo Sciaramè ha la conversazione con il La Rosa, chi offre in dettaglio le ragioni perché lui ei suoi amici (che hanno combattuto insieme) dovrebbero essere accettati dalla Società. Al contrario lo Sciaramè cerca di spiegare perché questo non probabilmente accadrà.

– Siete garibaldino? Ma sí, perché no? – rispose, imbalordito, Sciaramè, non sapendo dove il La Rosa volesse andar a parare.

– E reduce? – incalzò questi allora. – Sono anche reduce, perché non sono morto e sono ritornato. Va bene? Ora i signori veterani non permettono che io venga qua a leggere i giornali perché non sono socio, è vero? L’avete detto voi stesso. Ebbene: vado or ora a trovare i miei tre compagni reduci di Domokòs, e tutt’e quattro d’accordo, questa sera stessa, presenteremo una domanda d’ammissione alla Società.

– Come? come? – fece Sciaramè, sgranando gli occhi. – Voi socio qua?

– E perché no? – domandò Rosolino La Rosa, aggrottando piú fieramente le ciglia. -Non ne saremmo forse degni, secondo voi?

– Ma sí, non dico… per me, figuratevi! tanto onore e tanto piacere! – esclamò Sciaramè. – Ma gli altri, dico, i… miei compagni…

Nulla è stato risolto. Il La Rosa è arrabbiato e decide che lui ei suoi amici saranno formalmente richiedere d’adesione alla Società.

– Voglio vederli! – concluse minacciosamente il La Rosa. – Io so che ho diritto di far parte di questa Società piú di qualche altro; e, all’occorrenza, Sciaramè, potrei dimostrarlo. Avete capito? Cosí dicendo, Rosolino La Rosa prese con due dita il bavero della giacca di Sciaramè e gli diede una scrollatina; poi, guardandolo negli occhi, aggiunse:

– A questa, sera, Sciaramè, siamo intesi?

Il povero Sciaramè rimase in mezzo alla stanza, sbalordito, a grattarsi la nuca.

Il fatto che lo Sciaramè si trova in una situazione impossibile è esplicitamente dichiarato.

Nessuno supponeva che il povero Sciaramè, tra la figliastra e il Bellone, fosse come tra l’incudine e il martello. Il presidente bresciano non ammetteva repliche: impetuoso e urlone, s’avventava contro chiunque ardisse contraddirlo.

Quella sera, nel corso della riunione della Società, il Bellone insiste che gli altri membri rifiutano la domanda d’adesione.

– I ragazzini! oh! i ragazzini! – cominciò a strillare quella sera, dopo aver letta la domanda del La Rosa e compagnia, ballando dalla bile e agitando la carta sotto il naso dei socii e sghignazzando, con tutto il faccione affocato. – I ragazzini, signori, i ragazzini! Eccoli qua! Le nuove camicie rosse, a tre lire il metro, di ultima fabbrica, signori miei, incignate in Grecia, linde, pulite e senza una macchia! Sedete, sedete; siamo qua tutti; apro la seduta: senza formalità, senz’ordine del giorno, le liquideremo subito subito, con una botta di penna! Sedete, sedete.

Ma il Nardi, l’altro romagnolo, volle parlare e disse che stimava necessario e imprescindibile dichiarare una volta per sempre che per garibaldini dovevano considerarsi quelli soltanto che avevano seguito Garibaldi (Bene! Bravo! Benissimo!), il vero, il solo, Giuseppe Garibaldi (Applausi fragorosi, ovazioni), Giuseppe Garibaldi, e basta.

– E basta, sí, e basta!

– E aggiungiamo! – sorse allora a dire, pum, il Navetta, – aggiungiamo, o signori, che la… la, come si chiama? la sciagurata guerra della Grecia contro la… la, come si chiama? la Turchia, non può, non deve assolutamente esser presa sul serio, per la… sicuro, la, come si chiama? la pessima figura fatta da quella nazione che… che…

– Senza che! – gridò, seccato, il Bellone, sorgendo in piedi. – Basta dire soltanto: “da quella nazione degenere!”.

– Bravissimo! Del genere! del genere! Non ci vuol altro! – approvarono tutti.

E poi, lo Sciaramè difende l’applicazione dei giovanotti. [Qua, il testo è confuso perché lo Sciaramè inizialmente nega che intende difendere l’applicazione,

– Buffoncelli! – scattò il Bellone. – Si chiamano buffoncelli e basta. Ne prenderesti forse le difese?

– No! – rispose subito Sciaramè.

…e poi procede a fare proprio questo!

– No, ma, ecco, vorrei farvi osservare, come dicevo, che… alla fin fine, hanno… hanno combattuto, ecco, questi quattro giovanotti, sono stati al fuoco, sí… si sono dimostrati bravi, coraggiosi…, uno anzi fu ferito… che volete di piú? Dovevano per forza lasciarci la pelle, Dio liberi? Se Lui, Garibaldi, non ci fu, perché non poteva esserci – sfido! era morto… – c’è stato il figlio però, che ha diritto, mi sembra, di portarla, la camicia rossa, e di farla portare perciò a tutti coloro che lo seguirono in Grecia, ecco. E dunque…]

A questo punto nella riunione, l’applicazione del La Rosa è sconfitto da un voto unanime di “No”. (Lo Sciaramè è stato costretto a votare “No”.)

Subito dopo, i giovanotti decidono di pubblicare una risposta in cui si descrivono l’ipocrisia della Società: loro rivelano che uno dei membri della Società (di sicuro lo Sciaramè) non aveva mai combattuto con il Garibaldi.

Ora capirà, egregio signor Direttore, che noi non possiamo difendere, come vorremmo, il Duce nostro, la nobile idealità che ci spinse ad accorrere all’appello, i nostri compagni d’arme caduti e i superstiti, dall’indegna offesa contenuta nell’inqualificabile deliberazione dei nostri Reduci: non possiamo, perché ci troviamo di fronte a vecchi evidentemente rimbecilliti. La parola può parere in prima un po’ dura, ma non parrà piú tale quando si consideri che questi signori hanno respinto noi dal sodalizio senza pensare che intanto ne fa parte qualcuno, il quale non solo non è mai stato garibaldino, non solo non ha mai preso parte ad alcun fatto d’armi, ma osa per giunta d’indossare una camicia rossa e di fregiarsi il petto di ben sette medaglie che non gli appartengono, perché furono di suo fratello morto eroicamente a Digione.

Come allora, si chiedono i giovanotti, può presumere la Società di rifiutare la loro applicazione quando uno dei propri membri è anche non-qualificato?

Detto questo, mi sembra superfluo aggiungere altri commenti alla deliberazione. Mi dichiaro pronto a dimostrare coi documenti alla mano quanto asserisco. Se vi sarò costretto, smaschererò anche pubblicamente questo falso garibaldino, che ha pure avuto il coraggio di votare con gli altri contro la nostra ammissione.

In un poscritto, i giovanotti chiedono la Società d’espellere il membro fraudolento.

Era noto anche a noi da un pezzo che della Società dei Reduci Garibaldini faceva parte un messer tale che non è punto reduce come non fu mai garibaldino. Non ne avevamo mai fatto parola, per carità di patria, né ce ne saremmo mai occupati, se ora l’atto inconsulto della suddetta Società non avesse giustamente provocato la protesta del signor Gàsperi e degli altri giovani valorosi che combatterono in Grecia. Riteniamo che la Società dei Reduci, per dare almeno una qualche soddisfazione a questi giovani e provvedere al suo decoro, dovrebbe adesso affrettarsi ad espellere quel socio per ogni riguardo immeritevole di farne parte.

Poi Il Bellone si confronta lo Sciaramè.

Sciaramè si mise a leggere, zitto zitto. A un certo punto, aggrottò le ciglia; poi le spianò, sbarrando gli occhi e spalancando la bocca. Il giornale fu per cadergli di mano. Lo riprese, lo accostò di piú agli occhi, come se la vista gli si fosse a un tratto annebbiata. Il Bellone s’era fermato a guardarlo con occhi fulminanti, le braccia conserte, e attendeva, fremente, una protesta, una smentita, una spiegazione.

– Che ne dici? Alza il capo! Guardami!

Sciaramè, con faccia cadaverica, restringendo le palpebre attorno agli occhi smorti, scosse lentamente la testa, in segno negativo, senza poter parlare; posò sul tavolino il giornale e si recò una mano sul cuore.

– Aspetta… – poi disse, piú col gesto che con la voce.

Si provò a inghiottire; ma la lingua gli s’era d’un tratto insugherita. Non tirava piú fiato.

– Io… – prese quindi a balbettare, ansimando, – io ci… ci fui io… a… a Calatafimi… a… a Palermo… poi a Milazzo… e in… in Calabria a… a Melito… poi sú, sú fino a… a Napoli… e poi al Volturno…

– Ma come ci fosti? Le prove! Le prove! I documenti! Come ci fosti?

– Aspetta… Io… con… con Stefanuccio… Avevo il somarello…

– Che dici? Che farnetichi? Le medaglie di chi sono? Tue o di tuo fratello? Parla! Questo voglio sapere!

La verità è che le medaglie dello Sciaramè sono stati assegnati al fratello minore, che era ufficialmente un garibaldino. Lo Sciaramè ha accompagnato suo fratello in guerra (non ufficiale… non ha combattuto) al fine di proteggerlo. Questo sembra essere stato un atto altruistico di gentilezza.

– Sono… Lasciami dire… A Marsala… stavamo lí, al Sessanta, io e Stefanuccio, il mio fratellino… Gli avevo fatto da padre… a Stefanuccio… Aveva appena quindici anni, capisci? Mi scappò di casa, quando… quando sbarcarono i Mille… per seguir Lui, Garibaldi, coi volontarii… Torno a casa; non lo trovo… Allora presi a nolo un somarello… Lo raggiunsi prima a Calatafimi, per riportarmelo a casa… A quindici anni, ragazzino, che poteva fare, cuore mio?… Ma lui mi minacciò che si sarebbe fatto saltar la… la testa, dice, con quel vecchio fucile piú alto di lui che gli avevano dato… se io lo costringevo a tornare indietro… la testa… E allora, persuaso dagli altri volontarii, lasciai in libertà il somarello… che poi mi toccò ripagare… e… e m’accompagnai con loro.

Finalmente il fratello è stato ucciso e lo Sciaramè ha preso possesso delle medaglie.

Poi lo Sciaramè riceve l’ira di Il Bellone.

– Ma le medaglie? La camicia rossa? – riprese il Bellone, scrollandolo furiosamente, – di chi sono? Tue o di tuo fratello? Rispondi!

Sciaramè aprí le braccia, senza ardire di levare il capo; poi disse:

– Siccome Stefanuccio non… non se le poté godere…

– Te le sei portate a spasso tu! – compí la frase il Bellone. – Oh miserabile impostore! E hai osato di gabbare cosí la nostra buona fede? Meriteresti ch’io ti sputassi in faccia; meriteresti ch’io… Ma mi fai pietà! Tu uscirai ora stesso dal sodalizio! Fuori! Fuori!

– Mi cacciate di casa mia?

– Ce n’andremo via noi, ora stesso! Fa’ schiodare subito la tabella dalla porta! Ma come, ma come non mi passò mai per la mente il sospetto che, per essere cosí stupido, bisognava che costui Garibaldi non lo avesse mai veduto nemmeno da lontano!

Come ha fatto il La Rosa scoprire la verità sullo Sciaramè? Con l’aiuto inconsapevole di Rorò.

…ma egli le fece segno di tacere; poi le indicò il cassettone nella camera e le domandò quasi strozzato:

– Tu… le carte di là… al La Rosa?

– Le carte? Che carte? – disse Rorò, accorrendo a sostenerlo, tutta sconvolta.

– Le mie… i documenti di… di mio fratello… – balbettò Sciaramè appressandosi al cassettone. – Apri… Fammi vedere…

Rorò aprí il cassetto. Sciaramè cacciò una mano con le dita artigliate sul fascetto dei documenti logori, ingialliti, legati con lo spago; e, rivolto alla figliastra con gli occhi spenti, le domandò:

– Li… li hai mostrati tu… al La Rosa?

Rorò non poté in prima rispondere; poi, sconcertata e sgomenta, disse:

– Mi aveva chiesto di vederli… Che male ho fatto?

Questo è stato un tradimento amara e crudele dai giovanotti che lui aveva cercato di difendere! (Crudele! Amaro! Ironico!)

Poi lo Sciaramè ha la possibilità di spiegare esattamente quello che è successo durante la guerra.

Vedeva, lontano, nel tempo.

Lo aveva seguito davvero, quel suo fratellino minore, a cui aveva fatto da padre; lo aveva raggiunto davvero, con l’asinello, prima di Calatafimi, e scongiurato a mani giunte di tornarsene indietro, a casa, in groppa all’asinello, per carità, se non voleva farlo morire dal terrore di saperlo esposto alla morte, ancora cosí ragazzo! Via! Via! Ma il fratellino non aveva voluto saperne, e allora anche lui, a poco a poco, fra gli altri volontarii, s’era acceso d’entusiasmo ed era andato. Poi, però, alle prime schioppettate… No, no, non aveva desiderato di riavere il somarello abbandonato, perché, quantunque la paura fosse stata piú forte di lui, non sarebbe mai scappato, sapendo che il suo fratellino, là, era intanto nella mischia e che forse in quel punto, ecco, gliel’uccidevano. Avrebbe voluto anzi correre, buttarsi nella mischia anche lui e anche lui farsi uccidere, se avesse trovato morto Stefanuccio. Ma le gambe, le gambe! Che può fare un povero uomo quando non sia piú padrone delle proprie gambe? Per due, davvero, aveva patito, patito in modo da non potersi dire, durante la battaglia e dopo. Ah, dopo, fors’anche piú! quando, sul campo di battaglia, aveva cercato tra i morti e i feriti il fratellino suo. Ma che gioja, poi nel rivederlo, sano e salvo! E cosí lo aveva seguito anche a Palermo, fino a Gibilrossa, dove lo aveva aspettato, piú morto che vivo, parecchi giorni: un’eternità! A Palermo, Stefanuccio, per il coraggio dimostrato, era stato ascritto alla legione dei Carabinieri genovesi, che doveva poi essere decimata nella battaglia campale di Milazzo. Era stato un vero miracolo, se in quella giornata non era morto anche lui, Sciaramè. Acquattato in una vigna, sentiva di tratto in tratto, qua e là, certi tonfi strani tra i pampini; ma non gli passava neanche per la mente che potessero esser palle, quando, proprio lí, sul tralcio dietro al quale stava nascosto… Ah, quel sibilo terribile, prima del tonfo! Carponi, con le reni aperte dai brividi, aveva tentato di allontanarsi; ma invano; ed era rimasto lí, tra il grandinare delle palle, atterrito, basito, vedendo la morte con gli occhi, a ogni tonfo.

Li conosceva dunque davvero tutti gli orrori della guerra; tutto ciò che narrava, lo aveva veduto, sentito, provato; c’era stato insomma davvero, alla guerra, quantunque non vi avesse preso parte attiva. Ritornato in Sicilia, dopo la donazione di Garibaldi a Re Vittorio del regno delle Due Sicilie, egli era stato accolto come un eroe insieme col fratellino Stefano. Medaglie, lui, però, non ne aveva avute: le aveva avute Stefanuccio; ma erano come di tutt’e due. Del resto, lui non s’era mai vantato di nulla: spinto a parlare, aveva sempre detto quel tanto che aveva veduto. E non avrebbe mai pensato di entrare a far parte della Società, se quella maledetta sera lí non ve lo avessero quasi costretto, cacciato in mezzo per forza. Dell’onore che gli avevano fatto e di cui egli alla fin fine non si sentiva proprio immeritevole, giacché per la patria aveva pure patito e non poco, s’era sdebitato ospitando gratis per tanti anni la Società. Aveva indossato, sí, la camicia rossa del fratello e si era fregiato il petto di medaglie non propriamente sue; ma, fatto il primo passo, come tirarsi piú indietro? Non aveva potuto farne a meno, e s’era segretamente scusato pensando che avrebbe cosí rappresentato il suo povero fratellino in quelle feste nazionali, il suo povero Stefanuccio morto a Digione, lui che se le era ben guadagnate, quelle medaglie, e non se le era poi potute godere, nelle belle feste della patria.

Sembra che lo Sciaramè abbia scelto di difendere i giovanotti perché si considera un impostore (ingenuine, una frode, non puro, indegna), esattamente come il Bellone e gli altri membri della Società hanno caratterizzato i giovanotti.

Alla fine della novella, tragicamente, lo Sciaramè è superato dal tradimento e il suo tumulto interiore; muore improvvisamente.

Rorò, vedendogli la faccia come di terra e gli occhi infossati e stravolti, si mise a chiamare ajuto dalla finestra.

Accorsero, costernati, ansanti, alcuni del vicinato.

– Che è? che è?

Restarono, alla vista di Sciaramè, là sulla seggiola, rantolante.

Due, piú animosi, lo presero per le ascelle e per i piedi e fecero per adagiarlo sul lettuccio. Ma non lo avevano ancora messo a giacere, che…

– Oh! Che?

– Guardate!

– Morto?

Rorò rimase allibita, con gli occhi sbarrati, a mirarlo. Guardò i vicini accorsi; balbettò:

– Morto? Oh Dio! Dio! Morto?

Più tardi (troppo tardi) lo Sciaramè viene commemorato come un eroe.

Gli fecero un bellissimo funerale.

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