Riassunto: Lontano

Dopo aver cercato inutilmente dappertutto questo e quel capo di vestiario e avere imprecato: -Porco diavolo! – non si sa quante volte, tra sbuffi e grugniti e ogni sorta di gesti irosi, alla fine Pietro Mílio (o Don Paranza come lo chiamavano in paese) sentí il bisogno d’offrirsi uno sfogo andando a gridare alla parete che divideva la sua camera da quella della nipote Venerina:

– Dormi, sai! fino a mezzogiorno, cara. Ti avverto però che oggi non c’è lo sciocco che piglia pesci per te.

Inizia così Lontano (L. Pirandello), un ammonimento che ci ricorda, “Stai attento a ciò che desideri.”

In altre novelle il Pirandello ha suggerito che il passaggio dall’infanzia all’età adulta è spesso difficile. Resta inteso che i bambini vivono all’interno di una famiglia che li protegge dal mondo esterno. Al contrario gli adulti vivono al di fuori della famiglia (cioè, in modo indipendente) e devono provvedere a se stessi, cioè, in un mondo pieno di possibilità di riuscire così come fallire.

Il passaggio all’età adulta spesso coinvolge una serie di scelte… scelte cardine, che impostare la ‘palcoscenico’ per la vita adulta (es.) carriera? sposa? bambini? Si trattano delle scelte che creano le responsabilità e gli obblighi per tutta la vita.

Nel Lontano, l’attenzione è su alcune di queste scelte.

Ovviamente, è fondamentale fare buone scelte:

– A volte la fortuna è coinvolto: quando una decisione deve essere fatta, il giovanotto è semplicemente nel posto giusto al momento giusto. (O, dato che questo è il Pirandello, può essere che il giovanotto è semplicemente nel posto sbagliato al momento sbagliato.)

– Altre volte la serendipità è coinvolta.

– Spesso, un mentore è coinvolto. (Per il dispiacere dei genitori, il mentore è spesso una persona al di fuori della famiglia.)

Il processo di scelta è spesso difficile. I piani possono cambiare. (“Roba succede”: le cose potrebbero non funzionare così come il giovanotto si sarebbe potuto sperare!) Di conseguenza il giovanotto può essere costretto a riconoscere un’opportunità imprevista (o fortunata o pericola) quando presenta e poi agire di conseguenza.

Per scegliere bene un giovanotto deve avere un buon senso di sé (punti di forza? debolezze? preferenze?) e anche un piano (cioè, deve avere un’idea di quello che vuole raggiungere e le misure necessarie per realizzare il suo obiettivo).

(Per ragioni che non sono ben compresi, alcuni bambini prosperano nel passaggio all’età adulta mentre gli altri soffrono moltissimo.)

Infine il giovanotto deve essere forte! Data la natura universale del problema, ci sono molte citazioni che offrono consiglio. Un esempio:

“Qualunque cosa sei destinato a fare, farlo ora. Le condizioni (di successo) sono sempre impossibile.” Doris Lessing.

***

Lontano è suddivisa in 11 capitoli.

Capitolo 1

Il palcoscenico della novella è impostato.

La storia si svolge a Porto Empedocle, una città piccola sulla costa meridionale della Sicilia nel distretto amministrativo dell’Agrigento. Sono anche definiti i toni emotivi della novella, che sono ironici e tragicomici.

Le storie della Sicilia e la regione di Agrigento sono succintamente descritte.

Venuto da Girgenti ad abitare alla Marina, come allora si chiamavano quelle quattro casucce sulla spiaggia, alle cui mura, spirando lo scirocco, venivano a rompersi furibondi i cavalloni, si ricordava di quando Porto Empedocle non aveva che quel piccolo molo, detto ora Molo Vecchio, e quella torre alta, fosca, quadrata, edificata forse per presidio dagli Aragonesi, al loro tempo, e dove si tenevano ai lavori forzati i galeotti: i soli galantuomini del paese, poveretti!

Il lettore viene a sapere che Porto Empedocle ha prosperato economicamente dopo il Risorgimento come una città portuale da cui lo zolfo viene venduto e trasPortoto.

Tornato a Porto Empedocle, aveva trovato il paese cresciuto quasi per prodigio, a spese della vecchia Girgenti che, sdrajata su l’alto colle a circa quattro miglia dal mare, si rassegnava a morir di lenta morte, per la quarta o la quinta volta, guardando da una parte le rovine dell’antica Acragante, dall’altra il porto del nascente paese. E al suo posto il Mílio aveva trovato tant’altri interpreti, uno piú dotto dell’altro, in concorrenza fra loro.

Con la canna della lenza in mano e gli occhi fissi al sughero galleggiante, assorto nei ricordi della sua lunga vita, gli avveniva spesso di tentennare amaramente il capo. Guardava le due scogliere del nuovo porto, ora tese al mare come due lunghe braccia per accogliere in mezzo il piccolo Molo Vecchio, al quale, in grazia della banchina, era stato serbato l’onore di tener la sede della Capitaneria e la bianca torre del faro principale; guardava il paese che gli si stendeva davanti agli occhi, da quella torre detta il Rastiglio a piè del Molo fino alla stazione ferroviaria laggiú e gli pareva che, come su lui gli anni e i malanni, cosí fossero cresciute tutte quelle case là, quasi l’una su l’altra, fino ad arrampicarsi all’orlo dell’altipiano marnoso che incombeva sulla spiaggia col suo piccolo e bianco cimitero lassú, col mare davanti, e dietro la campagna. La marna infocata, colpita dal sole cadente, splendeva bianchissima mentre il mare, d’un verde cupo, di vetro, presso la riva, s’indorava tutto nella vastità tremula dell’ampio orizzonte chiuso da Punta Bianca a levante, da Capo Rossello a ponente.

Per non dire altro, è intenso e brutalmente faticoso il lavoro di carico lo zolfo sui navi nel porto.

Ogni mattina, all’alba, dalla scalinata di Montoro, il grido tre volte ripetuto d’un banditore dalla voce formidabile chiamava tutti al lavoro sulla spiaggia:

– Uomini di mare, alla fatica!

Don Paranza li udiva dal letto, ogni alba, quei tre appelli e si levava anche lui, ma per andarsene alla pesca, brontolando. Mentre si vestiva, sentiva giú stridere i carri carichi di zolfo, carri senza molle, ferrati, traballanti sul brecciale fradicio dello stradone polveroso popolato di magri asinelli bardati, che arrivavano a frotte, anch’essi con due pani di zolfo a contrappeso. Scendendo alla spiaggia, vedeva le spigonare, dalla vela triangolare ammainata a metà su l’albero, in attesa del carico, oltre il braccio di levante, lungo la riva, sulla quale si allineava la maggior parte dei depositi di zolfo. Sotto alle cataste s’impiantavano le stadere, sulle quali lo zolfo era pesato e quindi caricato sulle spalle degli uomini di mare protette da un sacco commesso alla fronte. Scalzi, in calzoni di tela, gli uomini di mare recavano il carico alle spigonare, immergendosi nell’acqua fino all’anca, e le spigonare, appena cariche, sciolta la vela, andavano a scaricare lo zolfo nei vapori mercantili ancorati nel porto o fuori. Cosí, fino al tramonto del sole, quando lo scirocco non impediva l’imbarco.

Il lettore viene introdotto a Pietro Mílio, un vecchio uomo che ha sofferto molte delusioni nella vita. Il Mílio è istruito: molti anni prima è stato l’interprete principio al porto per le operazioni commerciali dei navi straniere (il Mílio parla un po’ della francese). Questo non era un lavoro redditizio (ma era comunque un motivo dell’orgoglio); a quel tempo c’era solo un altro giovanotto, Agostino Di Nica, che ha funzionato come un interprete, anche se il Mílio ha visto il Di Nica come un concorrente e con disprezzo.

Allora sí Pietro Mílio faceva denari a palate! Di interpreti, per tutti i vapori mercantili che approdavano nel porto, non c’era altri che lui e quella pertica sbilenca di Agostino Di Nica, che gli veniva appresso, allora, come un cagnolino affamato per raccattar le briciole ch’egli lasciava cadere. I capitani, di qualunque nazione fossero, dovevano contentarsi di quelle quattro parole di francese che scaraventava loro in faccia, imperterrito, con pretto accento siciliano: – mossiurre, sciosse, ecc.

Come la vita di un giovanotto il Mílio è stato interrotto due volte da servizio militare. Lui è stato trascritto nel 1848, e poi trascorso i prossimi 12 anni come o un soldato o in esilio. Il Mílio è stata trascritto di nuovo nel 1860, e durante questo servizio è stato ferito.

Una sola, veramente, era stata la bestialità di don Paranza: quella di aver avuto vent’anni, al Quarantotto. Se ne avesse avuti dieci o cinquanta, non si sarebbe rovinato. Colpa involontaria, dunque. Nel bel meglio degli affari, compromesso nelle congiure politiche, aveva dovuto esulare a Malta. La bestialità d’averne ancora trentadue al Sessanta era stata, si sa! conseguenza naturale della prima. Già a Malta, a La Valletta, in quei dodici anni, s’era fatto un po’ di largo, ajutato dagli altri fuorusciti. Ma il Sessanta! Ci pensava e fremeva ancora. A Milazzo, una palla in petto: e di quel regalo d’un soldato borbonico misericordioso non aveva saputo approfittare: – era rimasto vivo!

Tornando a Porto Empedocle dopo il Risorgimento, il Mílio ha scoperto una città notevolmente modificata. Il Porto è stato pieno d’attività economica. Il Mílio è stato “in ritardo alla festa” e si è lasciato alle spalle (cioè, non c’è stato lavoro). Quindi ha preso un lavoro del governo.

Ironicamente il Di Nica, che non ha mai prestato il servizio militare, ha approfittato bene dal successo economico del Porto Empedocle.

Agostino Di Nica, dopo la partenza di lui per l’esilio, rimasto solo, s’era fatto d’oro e aveva smesso di far l’interprete per darsi al commercio con un vaporetto di sua proprietà, che andava e veniva come una spola tra Porto Empedocle e le due vicine isolette di Lampedusa e di Pantelleria.

– Agostino, e la patria?

Il Di Nica, serio serio, picchiava con una mano su i dindi nel taschino del panciotto:

– Eccola qua!

Era rimasto però tal quale, bisognava dirlo, senza superbia. Madre natura, nel farlo, non s’era dimenticata del naso. Che naso! Una vela! In capo, quella stessa berrettina di tela, dalla visiera di cuojo; e a tutti coloro che gli domandavano perché, con tanti bei denari, non si concedesse il lusso di Portore il cappello:

– Non per il cappello, signori miei, – rispondeva invariabilmente, – ma per le conseguenze del cappello.

Beato lui! – “A me, invece, – pensava don Paranza, – con tutta la mia miseria, mi tocca d’indossare la finanziera e d’impiccarmi in un colletto inamidato. Sono viceconsole, io!”

Il Mílio vive con sua nipote, Venerina, un’orfana. Dopo il paragrafo di apertura il lettore viene a conoscenza del senso del Mílio dell’inutilità della sua vita, la sua povertà, le sue delusioni e il suo orgoglio.

E veramente quella mattina don Paranza non poteva andare alla pesca, come da tanti anni era solito. Gli toccava invece (porco diavolo!) vestirsi di gala, o impuparsi secondo il suo modo di dire. Già! perché era viceconsole, lui, di Svezia e Norvegia. E Venerina, che dalla sera avanti sapeva del prossimo arrivo del nuovo piroscafo norvegese – ecco qua – non gli aveva preparato né la camicia inamidata, né la cravatta, né i bottoni, né la finanziera: nulla, insomma. In due cassetti del canterano, in luogo delle camíce, aveva intravisto una fuga di spaventatissimi scarafaggi.

– Comodi! Comodi! Scusate del disturbo!

Nel terzo, una sola camicia, chi sa da quanto tempo inamidata, ingiallita. Don Paranza l’aveva tratta fuori con due dita, cautamente, come se anche quella avesse temuto abitata dai prolifici animaletti dei due piani superiori; poi, osservando il collo, lo sparato e i polsini sfilacciati:

– Bravi! – aveva aggiunto. – Avete messo barba?

E s’era dato a stropicciare sulle sfilàcciche un mozzicone di candela stearica.

Era chiaro che tutte le altre camíce (che non dovevano poi esser molte) stavano ad aspettare da mesi dentro la cesta della biancheria da mandare al bucato i vapori mercantili di Svezia e Norvegia.

Capitolo 1 termina con la rivelazione che il Mílio andrà alla Porto oggi a salutare una nave straniera.

Capitolo 2

La nave non è venuta a Porto Empedocle per l’acquisto dello zolfo.

Invece è arrivata per lasciare uno dei marinai che è gravemente malato (con la febbre tifoide) e in disperato bisogno delle cure mediche. Il piano è che il marinaio rimarrà a casa Mílio fino a che può essere trasferito ad Agrigento per le cure mediche. Il Mílio sarà rimborsato per i suoi sforzi.

– Chi è? Che è avvenuto?

– Pesce di nuovo genere, non ti confondere! – le rispose don Pietro, promovendo il sorriso dei marinaj che s’asciugavano la fronte. – Vera grazia di Dio! Sú, figliuoli: sbrighiamoci. Di qua, sul mio letto.

E condusse i marinaj col triste carico nella sua camera ancora sossopra.

Lo straniero, scostando tutti, si chinò su la barella; ne tolse via cautamente la coperta, e sotto gli occhi di Venerina raccapricciata scoprí un povero infermo quasi ischeletrito, che sbarrava nello sgomento certi occhi enormi d’un cosí limpido azzurro, che parevano quasi di vetro, tra la squallida magrezza del volto su cui la barba era rispuntata; poi, con materna cura, lo sollevò come un bambino e lo pose a giacere sul letto.

– Via tutti, via tutti! – ordinò don Pietro. – Lasciamoli soli, adesso. Per voi, figliuoli, penserà il capitano dell’Hammerfest. – E, richiuso l’uscio, aggiunse, rivolto alla nipote: – Vedi? Poi dici che non siamo fortunati. Un vapore a ogni morte di papa; ma quell’uno che arriva, è la manna! Ringraziamo Dio.

– Ma chi è? Si può sapere che è avvenuto? – domandò di nuovo Venerina.

E don Paranza:

– Niente! Un marinajo malato di tifo, agli estremi. Il capitano m’ha visto questa bella faccia di minchione e ha detto: “Guarda, voglio farti un regaluccio, brav’uomo”. Se quel poveraccio moriva in viaggio, finiva in bocca a un pesce-cane; invece è voluto arrivare fino a Porto Empedocle, perché sapeva che c’era Pietro Mílio, pesce-somaro. Basta. Andrò oggi stesso a Girgenti per trovargli posto all’ospedale. Passo prima da tua zia donna Rosolina! Voglio sperare che mi farà la grazia di tenerti compagnia finché io non ritornerò da Girgenti. Speriamo che, per questa sera, sia tutto finito. Aspetta oh… debbo dire…

Il marinaio, Lars Cleen, non è italiano. Lui è un uomo buono (giusto, senza pretese, intelligente, forte e gentile) che alla fine si innamorerà di Venerina. La novella si concentrerà su questa scelta e le sue conseguenze: il Cleen è uno straniero e sarà costretto a provare i costumi e le norme della società siciliana.

Un esempio iniziale di queste norme è dato qui:

Riaprí l’uscio e rivolse qualche frase in francese a quel giovane straniero, che chinò piú volte il capo in risposta; poi, uscendo, soggiunse alla nipote:

– Mi raccomando: te ne starai di là, in camera tua. Vado e torno con tua zia.

In altre parole non sarebbe appropriato per la Venerina essere sola nella stessa stanza con il marinaio, anche se lui è vicino alla morte.

Un altro esempio decrive scherzosamente il concetto di una ‘bella figura’. Donna Rosolina, la sorella (parente?) del Mílio, viene chiesta di accompagnare la Venerina, mentre il Mílio va a Agrigento. Si richiede più di un’ora per prepararsi.

Ah sí! prima che donna Rosolina si risolvesse a licenziarsi dalla propria immagine nello specchio, dovette passare piú di un’ora. Si presentò alla fine tutta aggeggiata, come una bertuccia vestita, l’ampio scialle indiano con la frangia fino a terra, tenuto sul seno da un gran fermaglio d’oro smaltato con pendagli a lagrimoni, grossi orecchini agli orecchi, la fronte simmetricamente virgolata da certi mezzi riccetti unti non si sa di qual manteca, e tinte le guance e le labbra.

– Eccomi, eccomi…

E gli occhietti lupigni, guarniti di lunghissime ciglia, lappoleggiando, chiesero a don Pietro ammirazione e gratitudine per quell’abbigliamento straordinariamente sollecito. (Ben altro un tempo quegli occhi avevano chiesto a don Pietro: ma questi, Pietro di nome, pietra di fatto.)

Un terzo esempio descrive la paura e l’ansia che tutti i siciliani sentono nella presenza di uno straniero.

Trovarono Venerina su tutte le furie. Quel giovine straniero s’era arrischiato a picchiare all’uscio della camera, dove ella s’era chiusa, e chi sa che cosa le aveva bestemmiato nella sua lingua; poi se n’era andato.

Donna Rosolina lo acchiappò per un braccio.

– Dite un po’: è turco o cristiano?

– Turco, turco: non si confessa! – rispose in fretta don Pietro.

– Mamma mia! Scomunicato! – esclamò la zitellona, segnandosi con una mano e tendendo l’altra per Portorsi via Venerina fuori di quella camera. – Sempre cosí! – sospirò poi, nella camera della nipote, alludendo a don Pietro che già se n’era andato. – Sempre con la testa tra le nuvole! Ah, se avesse avuto giudizio…

Andarono strette l’una all’altra, in punta di piedi, e si fermarono poco oltre la soglia della camera, sporgendo il capo a guardare sul letto.

L’infermo teneva gli occhi chiusi: pareva un Cristo di cera, deposto dalla croce. Dormiva o era morto? Si fecero un po’ piú avanti; ma al lieve rumore, l’infermo schiuse gli occhi, quei grandi occhi celesti, attoniti. Le due donne si strinsero vieppiú tra loro; poi, vedendogli sollevare una mano e far cenno di parlare, scapparono via con un grido, a richiudersi in cucina.

Venerina è in grado di superare la sua paura di questo straniero entro la fine del capitolo 2.

Capitolo 3

Un rapporto si sviluppa tra il Cleen e la Venerina.

All’inizio del capitolo 3, il Cleen è stato in casa del Mílio per 2 mesi. (Il Mílio ha scoperto che non c’è posto ad Agrigento che prenderà cura per il Cleen; pertanto il Cleen doveva rimanere nella casa del Mílio. Anche in questo caso, il Mílio è stato assicurato che sarà compensato per i suoi sforzi.) La condizione del Cleen è migliorata. (Nonostante gli sforzi del medico locale!)

Altro che bestia si meritava d’esser chiamato. Da circa due mesi teneva in casa e cibava come un pollastro quel marinaio piovutogli dal cielo. A Girgenti – manco a dirlo! – non aveva potuto trovargli posto all’ospedale. Poteva buttarlo in mezzo alla strada? Aveva scritto al Console di Palermo – ma sí! – Il Console gli aveva risposto che desse ricetto e cura al marinajo dell’Hammerfest, fin tanto che esso non fosse guarito, o – nel caso che fosse morto – gli desse sepoltura per bene, che delle spese poi avrebbe avuto il rimborso.

Che genio, quel Console! Come se lui, Pietro Mílio, potesse anticipare spese e dare alloggio ai malati. Come? dove? Per l’alloggio, sí: aveva ceduto all’infermo il suo letto, e lui a rompersi le ossa sul divanaccio sgangherato che gli cacciava tra le costole le molle sconnesse, cosí che ogni notte sognava di giacer lungo disteso sulle vette di una giogaja di monti. Ma per la cura, poteva andare dal farmacista, dal droghiere, dal macellajo a prender roba a credito, dicendo che la Norvegia avrebbe poi pagato? – Lí, boghe e cefaletti, il giorno, e gronghi la sera, quando ne pescava; e se no, niente!

Eppure quel povero diavolo era riuscito a non morire! Doveva essere a prova di bomba, se non ci aveva potuto neanche il medico del paese, che aveva tanto buon cuore e tanta carità di prossimo da ammazzare almeno un concittadino al giorno. Non diceva cosí, perché in fondo volesse male a quel povero straniero; no, ma – porco diavolo! – esclamava don Pietro – chi piú poveretto di me?

Un altro costume siciliano: il Cleen viene dato un cognome.

Manco male che, fra pochi giorni, si sarebbe liberato. Il Norvegese, ch’egli chiamava L’arso (si chiamava Lars Cleen), era già entrato in convalescenza, e di lí a una, a due settimane al piú, si sarebbe potuto mettere in viaggio.

Poi la Venerina ha riconosciuto i suoi sentimenti per il Cleen,

Venerina, nel vederlo cosí timido, smarrito nella beatitudine di quel suo rinascere in un paese ignoto, tra gente estranea, provava per lui una tenerezza quasi materna. Ma tutta la loro conversazione si riduceva, per Venerina che non intendeva il francese e tanto meno il norvegese, a una variazione di tono nel pronunziare il nome di lui, Cleen. Cosí, se egli si ricusava, arricciando il naso, scotendo la testa, di prendere qualche medicina o qualche cibo, ella pronunziava quel Cleen con voce cupa, d’impero, aggrottando le ciglia su gli occhi fermi, severi, come per dire: “Obbedisci: non ammetto capricci!”. – Se poi egli, in uno scatto di gioconda tenerezza, vedendosela passar da presso, le tirava un po’ la veste, col volto illuminato da un sorriso di gratitudine e di simpatia, Venerina strascicava quel Cleen in una esclamazione di stupore e di rimprovero, come se volesse dirgli: “Sei matto?”.

Ma lo stupore era finto, il rimprovero dolce: espressi l’uno e l’altro per ammansare gli scrupoli di donna Rosolina che, assistendo a quelle scene, sarebbe diventata di centomila colori, se non avesse avuto sulle magre gote quella patina di rossetto.

…ed è rinata dalla possibilità d’amore.

Anche lei, Venerina, si sentiva quasi rinata. Avvezza a star sempre sola, in quella casa povera e nuda, senza cure intime, senza affetti vivi, da un pezzo s’era abbandonata a un’uggia invincibile, a un tedio smanioso: il cuore le si era come isterilito, e la sterilità del sentimento si disfaceva in lei nella pigrizia piú accidiosa. Lei stessa, ora, non avrebbe saputo spiegarsi perché le andasse tanto di sfaccendare per casa, lietamente, di levarsi per tempo e d’acconciarsi.

La Venerina gli ha insegnato il Cleen l’italiano. (Questo è un problema, nel senso che loro hanno trascorso del tempo insieme.) L’ha insegnato non solo il vocabolario e la grammatica, ma anche le forme accettabili del discorso.

A poco a poco Venerina era riuscita a insegnare allo straniero qualche frase italiana e un po’ di nomenclatura elementare, con un mezzo semplicissimo. Gl’indicava un oggetto nella camera e lo costringeva a ripeterne piú e piú volte il nome, finché non lo pronunziasse correttamente: – bicchiere, letto, seggiola, finestra… – E che risate quando egli sbagliava, risate che diventavano fragorose se s’accorgeva che la zia zitellona, legnosa nella sua pudibonda severità, per non cedere al contagio del riso si torturava le labbra, massime quando l’infermo accompagnava con gesti comicissimi quelle parole staccate, telegrafando cosí a segni le parti sostanziali del discorso che gli mancavano. Ma presto egli poté anche dire: aprire, chiudere finestra, prendere bicchiere, e anche voglio andare letto. Se non che, imparato quel voglio, cominciò a farne frequentissimo uso, e l’impegno che metteva nel superare lo stento della pronunzia, dava un piú reciso tono di comando alla parola. Venerina ne rideva, ma pensò d’attenuare quel tono insegnando all’infermo di premettere ogni volta a quel voglio un prego. Prego, sí, ma poiché egli non riusciva a pronunziare correttamente questa nuova parola, quando voleva qualche cosa, aspettava che Venerina si voltasse a guardarlo, e allora congiungeva le mani in segno di preghiera e quindi spiccicava piú che mai imperioso e reciso il suo voglio.

Il Cleen ha una scatola nella sua stanza con i ricordi della sua vita. La Venerina arriva a risentirsi la scatola a causa del potente effetto queste memorie hanno sul Cleen. In parte a causa della scatola, alla fine del capitolo 3 la Venerina esprime un dubbio che il Cleen cadrà innamorato di lei.

La premessa di quel segno di preghiera era assolutamente necessaria ogni qual volta egli voleva presso di sé lo stipetto che il compagno gli aveva Portoto dal piroscafo, il giorno in cui ne era sceso moribondo. Venerina glielo porgeva ogni volta di malanimo e senza il garbo consueto. Quella cassetta rappresentava per lui la patria lontana: c’erano tutti i suoi ricordi e tante lettere e alcuni ritratti. Guardandolo obliquamente, mentr’egli rileggeva qualcuna di quelle lettere, o se ne stava astratto, con gli occhi invagati, Venerina lo vedeva quasi sotto un altro aspetto, come se fosse avvolto in un’altra aria che lo allontanasse da lei all’improvviso, e notava tante particolarità della diversa natura di lui, non mai prima notate. Quella cassetta, in cui egli frugava con tanta insistenza, le richiamava davanti agli occhi l’immagine di quell’altro marinajo che lo aveva sollevato dalla barella come un bambino per deporlo sul letto, lí, e poi se n’era andato, piangendo. Ed ella si era presa tanta cura di quell’abbandonato! Chi era egli? Donde veniva? Quali ricordi custodiva con tanto amore in quella cassetta? Venerina scrollava a un tratto le spalle con un moto di dispetto, dicendo a se stessa: – Che me n’imPorto? – e lo lasciava lí solo nella camera, a pascersi di quei suoi segreti ricordi, e si tirava con sé la zia, che la seguiva stordita di quella risoluzione repentina:

– Che facciamo?

– Nulla. Ce n’andiamo!

Venerina ricadeva d’un tratto, in quei momenti, nel suo tedio neghittoso, inasprito da una sorda stizza o aggravato da una pena d’indefiniti desiderii: la casa le appariva vuota di nuovo, vuota la vita, e sbuffava: non voleva far nulla, piú nulla!

Capitolo 4

Si rivela il rapporto tra il Cleen e La Venerina.

A questo punto della novella, il Cleen è stato in casa del Mílio per quasi 3 mesi. Egli è quasi completamente recuperato dalla sua malattia, e la sua partenza può essere anticipata.

Lars Cleen restò a guardarla con gli occhi chiari ridenti e smarriti. Non comprendeva, o meglio non sapeva credere che… No, no – e con le mani le fece segno che avesse pietà di lui che tra poco doveva partire. Venerina scrollò le spalle e lo salutò con la mano.

– Buon viaggio!

Come parte della sua convalescenza, il Cleen fa una passeggiata ogni giorno. Lui è considerato dai vicini come una curiosità.

Una frotta di monellacci scalzi, stracciati, alcuni ignudi nati, abbrustiti dal sole, seguiva ogni volta Lars Cleen in quelle sue passeggiate: lo spiavano, scambiandosi ad alta voce osservazioni e commenti che presto si mutavano in lazzi. Egli, stordito, abbagliato nell’aria che grillava di luce, si voltava ora verso l’uno ora verso l’altro, sorridendo; talora gli toccava di minacciare col bastone i piú insolenti; poi sedeva sul muricciuolo della banchina a guardare i bastimenti ormeggiati e il mare infiammato dal riflesso delle nuvole vespertine. La gente si fermava a osservarlo, mentre egli se ne stava in quell’atteggiamento, tra smarrito ed estatico: lo guardava, come si guarda una gru o una cicogna stanca e sperduta, discesa dall’alto dei cieli. Il berretto di pelo, il pallore del volto e l’estrema biondezza della barba e dei capelli attiravano specialmente la curiosità. Egli alla fine se ne stancava e piano piano rincasava, triste.

Poi il Cleen viene a sapere che la sua nave è in programma di tornare a Porto Empedocle in 3 mesi. Quindi lui spera di rimanere nella casa del Mílio anche se la sua convalescenza è quasi completa. Il Cleen decide di chiederlo direttamente il Mílio ma i due uomini discutono e non si raggiunga un accordo. (Per Il Mílio, il problema sembra essere di natura finanziaria.)

Poi la Venerina rivela che lei può essere in amore con il Cleen.

Porco diavolo! E tu? e questo pezzo di… Aspetta, aspetta che te l’aggiusto io, ora stesso!

Questa notizia travolge il Mílio.

– In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, – sospirò. – Vieni qua, vieni qua, figlia mia! Andiamocene nella tua camera e ragioniamo con calma. Ci perdo la testa!

La trasse con sé nell’altra camera, la fece sedere, le porse il fazzoletto perché si asciugasse gli occhi e cominciò a interrogarla paternamente.

Nel frattempo il Cleen cerca di dare senso dei suoi sentimenti: si chiede infatti se la sua malattia è stata ‘progettata’ (dal destino) per permettergli d’incontrare e innamorarsi della Venerina.

Fino a notte avanzata Lars Cleen stette lí, seduto sul letto, a pensare, a fantasticare. Gli pareva di vedere la sorella lontana; la vedeva. Ah, lei sola al mondo gli voleva bene ormai. E anche quest’altra fanciulla qua, possibile?

– Questa? E tu vorresti?

Chi sa! Ogni qual volta ritornava in patria, la sorella gli ripeteva che volentieri avrebbe preferito di non rivederlo mai piú, mai piú in vita, se egli, in uno di quei suoi viaggi lontani, si fosse innamorato di una buona ragazza e la avesse sposata. Tanto strazio le dava il vederlo cosí, svogliato della vita e rimesso, anzi abbandonato alla discrezione della sorte, esposto a tutte le vicende, pronto alle piú rischiose, senz’alcun ritegno d’affetto per sé, come quella volta che, traversando l’Oceano in tempesta, s’era buttato dall’Hammerfest per salvare un compagno! Sí, era vero; e senza alcun merito; perché la sua vita, per lui, non aveva piú prezzo.

Ma lí, ora? possibile? Questo paesello di mare, in Sicilia, cosí lontano lontano, era dunque la meta segnata dalla sorte alla sua vita? era egli giunto, senz’alcun sospetto, al suo destino? Per questo s’era ammalato fino a toccare la soglia della morte? per riprendere lí la via d’una nuova esistenza? Chi sa!

(Ti chiedo, Paola: è questo un buon motivo per decidere che siete in amore??)

La Venerina rivela ancora una volta che lei può essere in amore del Cleen.

– E tu gli vuoi bene? – concludeva intanto di là don Pietro, dopo avere strappato a Venerina, che non riusciva a quietarsi, le scarse, incerte notizie che ella aveva dello straniero e la confessione di quegli ingenui passatempi, donde era nato quell’amore fino a quel punto sospeso in aria, come un uccello sulle ali.

Venerina s’era nascosto il volto con le mani.

– Gli vuoi bene? – ripeté don Pietro. – Ci vuol tanto a dir di sí?

– Io non lo so, – rispose Venerina, tra due singhiozzi.

Gli ostacoli all’amore sono chiaramente indicati.

Ma si potevano vincere quelle difficoltà? Il Cleen, pur lí presente, le pareva tanto, tanto lontano: parlava una lingua ch’ella non intendeva; aveva nel cuore, negli occhi, un mondo remoto, ch’ella non indovinava neppure. Come fermarlo lí? Era possibile? E poteva egli aver l’intenzione di fermarsi, per lei, tutta la vita, fuori di quel suo mondo? Voleva, sí, restare; ma fino all’arrivo del piroscafo dall’America. Intanto, certo, in patria nessun affetto vivo lo attirava; perché, altrimenti, scampato per miracolo dalla morte, avrebbe pensato subito a rimpatriare. Se voleva aspettare, era segno che anche lui doveva sentire… chi sa! forse lo stesso affetto per lei, cosí sospeso e come smarrito nell’incertezza della sorte.

Fra altri pensieri si dibatteva don Pietro sul divanaccio che strideva con tutte le molle sconnesse. Le molle stridevano e don Paranza sbuffava:

– Pazzi! Pazzi! Come hanno fatto a intendersi, se l’uno non sa una parola della lingua dell’altra? Eppure, sissignori, si sono intesi! Miracoli della pazzia! Si amano, si amano, senza pensare che i cefali, le boghe, i gronghi dello zio bestione non possono dal mare assumersi la responsabilità e l’incarico di fare le spese del matrimonio e di mantenere una nuova famiglia. Meno male, che io… Ma sí! Se padron Di Nica vorrà saperne! Domani, domani si vedrà… Dormiamo!

Poi, alla fine del capitolo 4, il Mílio ha un’idea: chiederà il Di Nica se il Cleen può lavorare per lui durante i prossimi 3 mesi.

Faceva affaroni, col suo vaporetto, Agostino Di Nica. Tanto che aveva pensato di allargare il suo commercio fino a Tunisi e Malta e, a tale scopo, aveva ordinato all’Arsenale di Palermo la costruzione di un altro vaporetto, un po’ piú grande, che potesse servire anche al trasporto dei passeggeri.

– Forse, – seguitava a pensare don Pietro, – un uomo come L’arso potrà servirgli. Conosce il francese meglio di me e l’inglese benone. Lupo di mare, poi. O come interprete, o come marinajo, purché me lo imbarchi e gli dia da vivere e da mantenere onestamente la famiglia… Intanto Venerina gli insegnerà a parlare da cristiano. Pare che faccia miracoli, lei, con la sua scuola. Non posso lasciarli piú soli. Domani me lo porto con me da padron Di Nica e, se la proposta è accettata, egli aspetterà, se vuole, ma venendosene con me ogni giorno alla pesca; se non è accettata, bisogna che parta subito subito, senza remissione. Intanto, dormiamo.

Capitolo 5

Il rapporto fiorisce!

Il Di Nica accetta (a malincuore) di impiegare il Cleen per 3 mesi. Poi il Mílio e il Cleen raggiungono un accordo.

Venerina aveva fatto intender bene allo zio che il Cleen non s’era ancora spiegato con lei chiaramente, e gli aveva perciò raccomandato di comPortorsi con la massima delicatezza, tirandolo prima con ogni circospezione a parlare, a spiegarsi. Il povero don Paranza, sbuffando piú che mai, nel cresciuto impiccio, si era recato dapprima solo dal Di Nica e, ottenuto il posto, era ritornato a casa a offrirlo al Cleen, soggiungendogli nel suo barbaro francese che, se voleva restare, come gliene aveva espresso il desiderio, se voleva trattenersi fino al ritorno dell’Hammerfest, doveva essere a questo patto: che lavorasse; il posto, ecco, glielo aveva procurato lui: quando poi il piroscafo sarebbe arrivato dall’America, ne avrebbe avuti due, di posti; e allora, a sua scelta: o questo o quello, quale gli sarebbe convenuto di piú. Intanto, nell’attesa, bisognava che andasse con lui ogni giorno alla pesca.

Il Cleen e la Venerina decidono di sposarsi. Dopo un po’ la Venerina rivela la notizia al Mílio.

– Fatto?

Venerina si nascose il volto con le mani, accennando piú volte di sí col capo, vivacemente. Don Paranza, pur contento in cuor suo, alleggerito da quel peso quando meno se l’aspettava, montò su le furie.

– Come! E non me ne dici niente? E mi tieni lí per tanti giorni alla tortura? E lui, anche lui, muto come un pesce!

Venerina sollevò la faccia dalle mani:

– Non t’ha saputo dir nulla, neanche oggi?

– Pesce, ti dico! Baccalà! – gridò don Paranza al colmo della stizza. – Ho il fegato grosso cosí, dalla bile di tutti questi giorni!

– Si sarà vergognato – disse Venerina, cercando di scusarlo.

Questo possa essere una conversazione imPortonte a mio parere perché dimostra che il Cleen non è per sua natura come un tipico siciliano — si sente vergogna:

– Vergognato! Un uomo! – esclamò don Pietro. – Ha fatto ridere alle mie spalle tutti i pesci del mare, ha fatto ridere! Dov’è? Chiamalo; fammelo dire questa sera stessa: non basta che l’abbia detto a te!

Poi il Mílio discute la decisione di sposarsi con il Cleen.

Don Paranza si piantò in mezzo alla camera con le gambe aperte, tentennando il capo: avrebbe voluto fargli un predicozzo da vecchio zio brontolone; ma sentí subito la difficoltà d’un discorso in francese consentaneo all’aria burbera a cui già aveva composta la faccia e l’atteggiamento preso. Frenò a stento un solennissimo sbuffo d’impazienza e cominciò:

– Mossiur Cleen, ma nièsse m’a dit…

Il Cleen, sorrise, timido, smarrito, e chinò leggermente il capo piú volte.

– Oui? – riprese don Paranza. – E va bene!

Tese gl’indici delle mani e li accostò ripetutamente l’uno all’altro, per significare: “Marito e moglie, uniti…”

– Vous et ma nièsse… mariage… oui?

– Si vous voulez, – rispose il Cleen aprendo le mani, come se non fosse ben certo del consenso.

– Oh, per me! – scappò a don Pietro. Si riprese subito. – Très-heureux, mossiur Cleen, trèsheureux. C’est fait! Donnez-moi la main…

Si strinsero la mano. E cosí il matrimonio fu concluso. Ma il Cleen rimase stordito. Sorrideva, sí, d’un timido sorriso, nell’impaccio della strana situazione in cui s’era cacciato senza una volontà ben definita. Gli piaceva, sí, quella bruna siciliana, cosí vivace, con quegli occhi di sole; le era gratissimo dell’amorosa assistenza: le doveva la vita, sí… ma, sua moglie, davvero? già concluso?

Quella sera il Mílio, il Cleen e la Venerina cenano insieme. C’è un inaspettato silenzio imbarazzato (e il lettore può chiedersi se il piano del matrimonio durerà).

Quella prima sera, a tavola, provarono tutti e tre un grandissimo imbarazzo. Il Cleen pareva caduto dalle nuvole; Venerina, col volto in fiamme, confusa, non riusciva a guardare né il fidanzato né lo zio. Gli occhi le si intorbidivano, incontrando quelli del Cleen e s’abbassavano subito. Sorrideva, per rispondere al sorriso di lui non meno impacciato, ma volentieri sarebbe scappata a chiudersi sola sola in camera, a buttarsi sul letto, per piangere… Sí. Senza saper perché.

Alla fine del capitolo 5 però Il Cleen dice qualcosa gentile alla Venerina, e lei ricambia. “Il ghiaccio è rotto” ed è chiaro al lettore che queste due personne si sono innamorate.

Ma poi, prima il Cleen, con qualche ritegno, lo pregò di tradurre per Venerina un pensiero gentile che egli non avrebbe saputo manifestarle; quindi Venerina, timida e accesa, lo pregò di ringraziarlo e di dirgli…

– Che cosa? – domandò don Paranza, sbarrando tanto d’occhi.

E poiché, dopo quel primo scambio di frasi, la conversazione tra i due fidanzati avrebbe voluto continuare attraverso a lui, egli battendo le pugna su la tavola:

– Oh insomma! – esclamò. – Che figura ci faccio io? Ingegnatevi tra voi.

Si alzò, fra le risa dei due giovani, e andò a fumarsi la pipa sul divanaccio, brontolando il suo porco diavolo nel barbone lanoso.

Capitolo 6

Il Cleen si adatta con difficoltà alla vita in Sicilia.

A questo punto della novella il Cleen ha lavorato per il Di Nica per qualche tempo come il capo di un equipaggio di marinai sulla nave mercantile del Di Nica. Il rapporto tra il Cleen e i marinai non è buono: è uno straniero e quindi non accettato.

Poi riapriva gli occhi, e allora, non già quello che aveva veduto ricordando e fantasticando gli sembrava un sogno, ma quel mare lí, quel cielo, quel vaporetto, e la sua presente vita. E una tristezza profonda lo invadeva, uno smanioso avvilimento. I suoi nuovi compagni non lo amavano, non lo comprendevano, né volevano comprenderlo; lo deridevano per il suo modo di pronunziare quelle poche parole d’italiano che già era riuscito a imparare; e lui, per non far peggio, doveva costringere la sua stizza segreta a sorridere di quel volgare e stupido dileggio. Mah! Pazienza L’avrebbero smesso, col tempo. A poco a poco, egli, con l’uso continuo e l’ajuto di Venerina, avrebbe imparato a parlare correttamente. Ormai, era detto: lí, in quel borgo, lí, su quel guscio e per quel mare, tutta la vita.

Ritornano i dubbi del Cleen sul matrimonio e sulla sua vita in Sicilia.

Incerto come si sentiva ancora, nella nuova esistenza, non riusciva a immaginare nulla di preciso per l’avvenire. Può crescere l’albero nell’aria, se ancora scarse e non ben ferme ha le radici nella terra? Ma questo era certo, che lí ormai e per sempre la sorte lo aveva trapiantato.

La nave mercantile torna a Porto Empedocle. Come il Cleen lascia la nave i marinai lo sfottono.

Ma, poco dopo, quando il vaporetto finalmente si fu ormeggiato nel Molo e il Cleen poté scenderne, quella sua gioja fu improvvisamente turbata dalla stizza, udendo il saluto che gli altri marinaj rivolgevano, quasi miagolando, al suo fidanzato:

– Bon cion! Bon cion!

La Venerina è infuriata: vuole che il Cleen disciplinare gli uomini (e comandare loro, esigere il loro rispetto, li rendono lo temono). Poi questo diventa uno scontro delle culture: la Venerina sta chiedendo al Cleen a comPortorsi come un siciliano, ma quello non è la sua natura.

– Brutti imbecilli! – disse tra i denti, voltandosi a fulminarli con gli occhi.

Il Cleen sorrideva, e Venerina si stizzí allora maggiormente.

– Ma non sei buono da rompere il grugno a qualcuno, di’ un po’? Ti lasci canzonare cosí, sorridendo, da questi mascalzoni?

– Eh via! – disse don Paranza. – Non vedi che scherzano, tra compagni?

– E io non voglio! – rimbeccò Venerina, accesa di sdegno. – Scherzino tra loro, e non stupidamente, con un forestiere che non può loro rispondere per le rime.

Si sentiva, quasi quasi, messa in berlina anche lei. Il Cleen la guardava, e quegli sguardi fieri gli parevano vampate di passione per lui: gli piaceva quello sdegno; ma ogni qualvolta gli veniva di manifestarle ciò che sentiva o di confidarle qualcosa, gli pareva d’urtare contro un muro, e taceva e sorrideva, senza intendere che quella bontà sorridente, in certi casi, non poteva piacere a Venerina.

Era colpa sua, intanto, se gli altri erano maleducati? se egli ancora non poteva uscire per le strade, che subito una frotta di monellacci non lo attorniasse? Minacciava, e faceva peggio: quelli si sbandavano con grida e lazzi e rumori sguajati.

Venerina n’era furibonda.

– Storpiane qualcuno! Da’ una buona lezione! È possibile che tu debba diventare lo zimbello del paese?

Ad un certo punto il Mílio si riferisce al Cleen dal suo nomignono; questo fa anche infuriare la Venerina.

– Bei consigli! – sbuffava don Pietro. – Invece di raccomandargli la prudenza!

– Con questi cani? Il bastone ci vuole, il bastone!

– Smetteranno, smetteranno, sta’ quieta, appena L’arso avrà imparato.

– Lars! – gridava Venerina, infuriandosi ora anche contro lo zio che chiamava a quel modo il fidanzato, come tutto il paese.

– Ma se è lo stesso! – sospirava, seccato, don Pietro, alzando le spalle.

– Càmbiati codesto nome! – ripigliava Venerina, esasperata, rivolta al Cleen. – Bel piacere sentirsi chiamare la moglie de L’arso!

– E non ti chiamano adesso la nipote di Don Paranza? che male c’è? Lui L’arso, e io, Paranza. Allegramente!

Qualche tempo dopo il Cleen viene mistificato dalla sua incapacità di trascorrere del tempo da solo con la Venerina: dopotutto, ha accettato di sposarla. Questo, naturalmente, è ancora un altro scontro delle culture: un comPortomento del genere non sarebbe mai stato tollerato in Sicilia.

Questi dispettucci parevano puerili a don Pietro, condannato a far la guardia, e se ne infastidiva. La sua presenza intanto impacciava peggio il Cleen, che non arrivava ancora a comprendere perché ci fosse bisogno di lui: non era egli il fidanzato di Venerina? non poteva uscir solo con lei a passeggiare lassú, su l’altipiano, in campagna? Lo aveva proposto un giorno; ma dalla stessa Venerina si era sentito domandare:

– Sei pazzo?

– Perché?

– Qua i fidanzati non si lasciano soli, neppure per un momento.

– Ci vuole il lampione! – sbuffava don Pietro.

E il Cleen s’avviliva di tutte queste costrizioni, che gli ammiserivano lo spirito e lo intontivano.

Alla fine del capitolo 6, le nuove preoccupazioni emergono che rendere in discussione la decisione di sposarsi.

Cominciava a sentire una sorda irritazione, un segreto rodío, nel vedersi trattato, in quel paese, e considerato quasi come uno stupido, e temeva di istupidirsi davvero.

Capitolo 7

Si sposano il Cleen e la Venerina!

Il lettore viene a sapere che il Di Nica ammira il Cleen.

Ma che non fosse stupido, lo sapeva bene padron Di Nica, dal modo con cui gli disimpegnava le commissioni e gli affari con quei ladri agenti di Tunisi e di Malta. Non voleva dirlo – al solito – non per negare il merito e la lode, ma per le conseguenze della lode, ecco.

(Questo passaggio suggerisce che il Cleen sia intelligente e forte.)

Dopo la cerimonia del matrimonio, il Cleen, la Venerina, il Mílio e la Rosolina viaggiano insieme a una casa sulla proprietà della Rosolina, dove i sposati rimarranno in luna di miele. Più tardi, una famiglia dei contadini (lavorano per la Rosolina) viene a casa per salutare gli sposi. Il Cleen è stordito dall’incontro.

Quell’oretta passata lassú con gli sposi fu un vero supplizio per donna Rosolina. Soffrí nel veder toccare questo o quell’oggetto, come se si fosse sentita strappare quei mezzi ricci unti di tintura che le virgolavano la fronte; soffrí nel vedere entrare coi pesanti scarponi ferrati la famiglia del garzone per porgere gli omaggi agli sposini.

Stava quel garzone a guardia del podere e abitava con la famiglia nel cortile acciottolato della villa, con la cisterna in mezzo, in una stanzaccia buja: casa e stalla insieme. Perplesso, se avesse fatto bene o male, recava in dono un paniere di frutta fresche.

Lars Cleen contemplava stupito quegli esseri umani che gli parevano d’un altro mondo, vestiti a quel modo, cosí anneriti dal sole. Gli parevano siffattamente strani e diversi da lui, che si meravigliava poi nel veder loro battere le pàlpebre, com’egli le batteva, e muovere le labbra, com’egli le moveva. Ma che dicevano?

Capitolo 8

La Venerina insegna il Cleen sulla Sicilia, ma forse in un modo che è troppo intenso e un po’ umiliante.

Superato il primo impaccio, vivissimo, della improvvisa intrinsechezza piú che ogni altra intima, con un uomo che le pareva ancora quasi piovuto dal cielo, Venerina prese a proteggere e a condurre per mano, come un bambino, il marito incantato dagli spettacoli che gli offriva la campagna, quella natura per lui cosí strana e quasi violenta.

Si fermava a contemplare a lungo certi tronchi enormi, stravolti, d’olivi, pieni di groppi, di sproni, di giunture storpie, nodose, e non rifiniva d’esclamare:

– Il sole! il sole! – come se in quei tronchi vedesse viva, impressa, tutta quella cocente rabbia solare, da cui si sentiva stordito e quasi ubriacato.

Lo vedeva da per tutto, il sole, e specialmente negli occhi e nelle labbra ardenti e succhiose di Venerina, che rideva di quelle sue meraviglie e lo trascinava via, per mostrargli altre cose che le parevano piú degne d’esser vedute: la grotta del Cioccafa, per esempio. Ma egli si arrestava, quando ella se l’aspettava meno, davanti a certe cose per lei cosí comuni.

– Ebbene, fichi d’India. Che stai a guardare?

Proprio un fanciullo le pareva, e gli scoppiava a ridere in faccia, dopo averlo guardato un po’, cosí allocchito per niente! e lo scoteva, gli soffiava sugli occhi, per rompere quello stupore che talvolta lo rendeva attonito.

Il Cleen rimane stordito dall’incontro con i contadini. La Venerina risponde da dicendo che questo è il modo di vita in Sicilia.

Ricadeva sempre a parlarle, con le stesse frasi d’orrore, della famiglia del garzone, a cui entrambi avevano fatto la visita promessa. Non si poteva dar pace che quella gente abitasse lí, in quella stanzaccia, ch’era divenuta quasi una grotta fumida e fetida, e invano Venerina gli ripeteva:

– Ma se togli loro l’asino, il porcellino e le galline dalla camera, non vi possono piú dormire in pace. Devono star lí tutti insieme; fanno una famiglia sola.

– Orribile! orribile! – esclamava egli, agitando in aria le mani.

E quel povero ragazzo, lí, sul pagliericcio per terra, ingiallito dalle febbri continue e quasi ischeletrito? Lo curavano con certi loro decotti infallibili. Sarebbe guarito, come erano guariti gli altri. E, intanto, il poverino, che pena! se ne stava a rosicchiare, svogliato, un tozzo di pan nero.

– Non ci pensare! – gli diceva Venerina, che pur se ne affliggeva, ma non tanto, sapendo che la povera gente vive cosí. Credeva che dovesse saperlo anche lui, il marito, e perciò, nel vederlo cosí afflitto, sempre piú si raffermava nell’idea che egli fosse di una bontà non comune, quasi morbosa, e questo le dispiaceva.

(A questo punto l’impressione è che il Cleen sia un pesce fuori d’acqua.)

Alla fine della luna di miele, il Cleen è in programma di fare un viaggio in Tunisia a bordo la nave mercantile. (Il Di Nica ha concesso l‘autorizzazione alla Venerina viaggiare con il Cleen come un regalo di nozze). La Venerina teme il mare però e si rifiuta di andare.

Passarono presto quei dieci giorni in campagna. Ritornati in paese, Venerina accompagnò fino al vaporetto il marito, ma non volle imbarcarsi con lui per il viaggio di nozze concesso dal Di Nica.

Don Pietro ve la spingeva.

– Vedrai Tunisi, che quei cari nostri fratelli francesi, sempre aggraziati, ci hanno presa di furto. Vedrai Malta, dove tuo zio bestione andò a rovinarsi. Magari potessi venirci anch’io! Vedresti di che cuore mi schiaffeggerei, se m’incontrassi con me stesso per le vie de La Valletta, com’ero allora, giovane patriota imbecille.

No, no; Venerina non volle saperne: il mare le faceva paura, e poi si vergognava, in mezzo a tutti quegli uomini.

Il Mílio la spinge andare ma lei si rifiuta ancora una volta. Poi il Mílio chiede il Cleen cosa ne pensa della decisione della Venerina. Il Cleen considera i sentimenti di lei sui proprii, cioè, ha rimette alla sua volontà, cioè, una cosa molto poco siciliana da fare!

– E non sei con tuo marito? – insisteva don Pietro. -Tutte cosí, le nostre donne! Non debbono far mai piacere ai loro uomini. Tu che ne dici? – domandava al Cleen.

Non diceva nulla, lui: guardava Venerina col desiderio di averla con sé, ma non voleva che ella facesse un sacrifizio o che avesse veramente a soffrire del viaggio.

– Ho capito! – concluse don Paranza, – sei un gran babbalacchio!

Lars non comprese la parola siciliana dello zio, ma sorrise vedendo riderne tanto Venerina. E, poco dopo, partí solo.

Dopo la partenza, il Cleen è rattristato dalla decisione della Venerina.

Appena si fu allontanato dal porto, dopo gli ultimi saluti col fazzoletto alla sposa che agitava il suo dalla banchina del Molo e ormai quasi non si distingueva piú, egli provò istintivamente un gran sollievo, che pur lo rese piú triste, a pensarci. S’accorse ora, lí, solo davanti allo spettacolo del mare, d’aver sofferto in quei dieci giorni una grande oppressione nell’intimità pur tanto cara con la giovane sposa. Ora poteva pensare liberamente, espandere la propria anima, senza dover sforzare il cervello a indovinare, a intendere i pensieri, i sentimenti di quella creatura tanto diversa da lui e che tuttavia gli apparteneva cosí intimamente.

Sorprendentemente, il Mílio vive con gli sposi. Prima di partire, il Cleen ha suggerito alla Venerina che il Mílio non ha più bisogno di pigliar pesce per la famiglia, cioè, il Cleen può supPortore tutti e tre. Il Mílio rifiuta l’offerta.

Prima di partire, il Cleen aveva suggerito a Venerina di non lasciar andar piú il vecchio zio alla pesca; ma don Pietro, non solo non volle saperne, ma anche s’arrabbiò:

– Non sapete piú che farvene adesso de’ miei gronghi? Bene, bene. Me li mangerò io solo.

– Non è per questo, zio! – esclamò Venerina.

– E allora volete farmi morire? – riprese don Paranza. – C’era ai miei tempi un povero contadino che aveva novantacinque anni, e ogni santa mattina saliva dalla campagna a Girgenti con una gran cesta d’erbaggi su le spalle, e andava tutto il giorno in giro per venderli. Lo videro cosí vecchio, ne sentirono pietà, pensarono di ricoverarlo all’ospedale e lo fecero morire dopo tre giorni. L’equilibrio, cara mia! Toltagli la cesta dalle spalle, quel poveretto perdette l’equilibrio e morí. Cosí io, se mi togliete la lenza. Gronghi han da essere: stasera e domani sera e fin che campo.

Capitolo 8 conclude con la Venerina sola in casa. Lei ha i proprii dubbi segreti sul matrimonio.

Sola, Venerina, si metteva anche a pensare al marito lontano. Lo aspettava con ansia, sí, in quei primi giorni; ma non sapeva neppur desiderarlo altrimenti che cosí; due giorni in casa e il resto della settimana fuori; due giorni con lui, e il resto della settimana, sola, ad aspettare ogni sera che lo zio tornasse dalla pesca; e poi, la cena; e poi, a letto, sí, sola. Si contentava? No. Neppure lei, cosí. Troppo poco… E restava a lungo assorta in una segreta aspettazione, che pure le ispirava una certa ambascia, quasi di sgomento.

– Quando?

Capitolo 9

Gravidanza.

La Venerina è incinta e ha la malattia di mattina.

– Ih, che prescia! – esclamò don Paranza, appena si accorse delle prime nausee, dei primi capogiri. – Lo previde quel boja d’Agostino! Di’ un po’, hai avuto paura che tuo zio non ci arrivasse a sentire la bella musica del gattino?

– Zio! – gli gridò Venerina, offesa e sorridente.

La Venerina è felicissima con la gravidanza: essere madre è un sogno che si avvera. Al tempo stesso lei si diventa progressivamente meno preoccupata con i suoi sentimenti per il Cleen.

– Piano piano, sí, volentieri. Purché gli mettiate un nome cristiano. Io non lo so ancora chiamare tuo marito.

– Lo chiami L’arso, come lo chiamano tutti! – le rispondeva ridendo Venerina. – Non me n’imPorto piú, adesso!

Non le imPortova piú di niente, ora: non s’acconciava neppure pochino, quand’egli doveva arrivare.

– Rifatti un po’ i capelli, almeno! – le consigliava donna Rosolina. – Non stai bene, cosí.

– Ormai! Chi n’ha avuto, n’ha avuto. Cosí, se mi vuole! E se non mi vuole, mi lasci in pace: tanto meglio!

Alla fine del capitolo 9 il Cleen e la Venerina sono allontanati.

Era cosí esclusiva la gioja di quella sua nuova attesa, che il Cleen non si sentiva chiamato a parteciparne, come di gioja anche sua: si sentiva lasciato da parte, e n’era lieto soltanto per lei, quasi che il figlio nascituro non dovesse appartenere anche a lui, nato lí in quel paese non suo, da quella madre che non si curava neppure di sapere quel che egli ne sentisse e ne pensasse.

Lei aveva già trovato il suo posto nella vita: aveva la sua casetta, il marito; tra breve avrebbe avuto anche il figlio desiderato; e non pensava che lui, straniero, era sul principio di quella sua nuova esistenza e aspettava che ella gli tendesse la mano per guidarlo. Noncurante, o ignara, lei lo lasciava lí, alla soglia, escluso, smarrito.

E ripartiva, e lontano, per quel mare, su quel guscio di noce, si sentiva sempre piú solo e piú angosciato. I compagni, nel vederlo cosí triste, non lo deridevano piú come prima, è vero, ma non si curavano di lui, proprio come se non ci fosse: nessuno gli domandava: – Che hai? – Era il forestiere. Chi sa com’era fatto e perché era cosí!

Non se ne sarebbe afflitto tanto, egli, se anche a casa sua, come lí sul vaporetto, non si fosse sentito estraneo. Casa sua? Questa, in quel borgo di Sicilia? No, no! Il cuore gli volava ancora lontano, lassú, al paese natale, alla casa antica, ove sua madre era morta, ove abitava la sorella, che forse in quel punto pensava a lui e forse lo credeva felice.

Capitolo 10

Il bambino è nato… e lui assomiglia la Venerina ed è collegato a lei emotivamente. Il Cleen e la Venerina deriva più distanti.

Una speranza ancora resisteva in lui, ultimo argine, ultimo riparo contro la malinconia che lo invadeva e lo soffocava: che si vedesse, che si riconoscesse nel suo bambino appena nato e si sentisse in lui, e con lui, lí, in quella terra d’esilio, meno solo, non piú solo.

Ma anche questa speranza gli venne subito meno, appena guardato il figlioletto, nato da due giorni, durante la sua assenza. Somigliava tutto alla madre.

– Nero, nero, povero ninno mio! Sicilianaccio – gli disse Venerina dal letto, mentre egli lo contemplava deluso, nella cuna. – Richiudi la cortina. Me lo farai svegliare. Non m’ha fatto dormire tutta la notte, poverino: ha le dogliette. Ora riposa, e io vorrei profittarne.

Il Cleen baciò in fronte, commosso, la moglie; riaccostò gli scuri e uscí dalla camera in punta di piedi. Appena solo, si premette le mani sul volto e soffocò il pianto irrompente.

Che sperava? Un segno, almeno un segno in quell’esseruccio, nel colore degli occhi, nella prima peluria del capo, che lo palesasse suo, straniero anche lui, e che gli richiamasse il suo paese lontano. Che sperava? Quand’anche, quand’anche, non sarebbe forse cresciuto lí, come tutti gli altri ragazzi del paese, sotto quel sole cocente, con quelle abitudini di vita, alle quali egli si sentiva estraneo, allevato quasi soltanto dalla madre e perciò con gli stessi pensieri, con gli stessi sentimenti di lei? Che sperava? Straniero, straniero anche per suo figlio.

Il Cleen si sente solo e sempre bisognoso di affetto.

Ora, nei due giorni che passava in casa, cercava di nascondere il suo animo; né gli riusciva difficile, poiché nessuno badava a lui: don Pietro se n’andava al solito alla pesca, e Venerina era tutta intenta al bambino, che non gli lasciava neppur toccare:

– Me lo fai piangere… Non sai tenerlo! Via, via, esci un po’ di casa. Che stai a guardarmi? Vedi come mi sono ridotta? Sú, va’ a fare una visita alla zia Rosolina, che non viene da tre giorni. Forse vuol fatta davvero la corte, come dice zio Pietro.

La Venerina non vuole il Cleen di rimanere in casa quando si trova in Porto Empedocle.

– Non hai trovato ancora un amico? – gli domandava Venerina.

– No.

– È difficile, lo so: siamo orsi, caro mio! Tu poi sei cosí, ancora come una mosca senza capo. Non ti vuoi svegliare? Va’ a trovare lo zio, almeno: sta al porto. Tra voi uomini, v’intenderete. Io sono donna, e non posso tenerti conversazione: ho tanto da fare!

Egli la guardava, la guardava, e gli veniva di domandarle: “Non mi ami piú?” – Venerina, sentendo che non si moveva, alzava gli occhi dal cucito, lo vedeva con quell’aria smarrita e rompeva in una gaja risata:

– Che vuoi da me? Un omaccione tanto, che se ne sta in casa come un ragazzino, Dio benedetto! Impara un po’ a vivere come i nostri uomini: piú fuori che dentro. Non posso vederti cosí. Mi fai rabbia e pena.

Fuori non lo vedeva. Ma dall’aria triste, con cui egli si disponeva a uscire, cacciato cosí di casa, come un cane caduto in disgrazia, avrebbe potuto argomentare come egli si trascinasse per le vie del paese, in cui la sorte lo aveva gettato, e che egli già odiava.

Il Cleen fa diversi tentativi di trovare lavoro fuori casa, ma lui non ha successo. Alla fine del Capitolo 10, c’è una chiara descrizione di un matrimonio siciliano.

Sí, e intanto su la spiaggia nuda, tra i depositi di zolfo, correvano scoperte le fogne, che appestavano il paese; e tutti si lamentavano e nessuno badava a provveder d’acqua sufficiente il paese assetato. A che serviva tutto quel denaro con tanto accanimento guadagnato? Chi se ne giovava? Tutti ricchi e tutti poveri! Non un teatro, né un luogo o un mezzo di onesto svago, dopo tanto e cosí enorme lavoro. Appena sera, il paese pareva morto, vegliato da quei quattro lampioncini a petrolio. E pareva che gli uomini, tra le brighe continue e le diffidenze di quella guerra di lucro, non avessero neanche tempo di badare all’amore, se le donne si mostravano cosí svogliate, neghittose. Il marito era fatto per lavorare: la moglie per badare alla casa e far figliuoli.

– Qua? – pensava il Cleen, – qua, tutta la vita?

E si sentiva stringere la gola sempre piú da un nodo di pianto.

Capitolo 11

Il Cleen ha l’opportunità di lasciare il suo matrimonio fallito, ma decide di rimanere.

Lars Cleen si precipitò su una lancia, e volò a bordo del suo piroscafo, col cuore in tumulto. Non ragionava piú! Ah, partire, fuggire coi suoi compagni, parlare di nuovo la sua lingua, sentirsi in patria, lí, sul suo piroscafo – eccolo! grande! bello! – fuggire da quell’esilio, da quella morte! – Si buttò tra le braccia del cognato, se lo strinse a sé fin quasi a soffocarlo, scoppiando irresistibilmente in un pianto dirotto.

Ma quando i compagni intorno gli chiesero, costernati, la cagione di quel pianto convulso, egli rientrò in sé, mentí, disse che piangeva soltanto per la gioja di rivederli.

Solo il cognato non gli chiese nulla: gli lesse negli occhi la disperazione, il violento proposito con cui era volato a bordo, e lo guardò per fargli intendere che egli aveva compreso. Non c’era tempo da perdere: sonava già la campana per dare il segno della partenza.

Poco dopo Lars Cleen dalla lancia vedeva uscire dal porto l’Hammerfest e lo salutava col fazzoletto bagnato di lagrime, mentre altre lagrime gli sgorgavano dagli occhi, senza fine. Comandò al barcajolo di remare fino all’uscita del porto per poter vedere liberamente il piroscafo allontanarsi man mano nel mare sconfinato, e allontanarsi con lui la sua patria, la sua anima, la sua vita. Eccolo, piú lontano… piú lontano ancora… spariva…

– Torniamo? – gli domandò, sbadigliando, il barcaiolo.

Egli accennò di sí, col capo.

 

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