Riassunto: La fede

In quell’umile cameretta di prete piena di luce e di pace, coi vecchi mattoni di Valenza che qua e là avevano perduto lo smalto e sui quali si allungava quieto e vaporante in un pulviscolo d’oro il rettangolo di sole della finestra con l’ombra precisa delle tendine trapunte e lí come stampate e perfino quella della gabbiola verde che pendeva dal palchetto col canarino che vi saltellava dentro, un odore di pane tratto ora dal forno giú nel cortiletto era venuto ad alitare caldo e a fondersi con quello umido dell’incenso della chiesetta vicina e quello acuto dei mazzetti di spigo tra la biancheria dell’antico canterano.

Inizia così La fede (L. Pirandello), una novella lirica e ben costruita (pregevole fattura) sulle conseguenze di un cambiamento in atteggiamento, sottile ma profondo, da un gruppo di giovani sacerdoti ribelli, per quanto riguarda i loro valori, le loro responsabilità e i loro obblighi.

Come abbiamo visto prima, il cambiamento è spesso difficile:

Il Pirandello sembra essere stato attratto da quest’argomento: abbiamo letto, per esempio, le novelle che si occupano delle difficoltà che possono accompagnare la transizione dall’infanzia all’età adulta. Abbiamo anche letto le novelle che descrivono i compromessi che si fa una persona quando si è sposata… così come gli adattamenti necessari quando muore un conuige.

D’altra parte sappiamo anche che un cambiamento può essere gratificante, soprattutto se è gestito bene (e forse se una persona sia fortunata):

A questo proposito, diciamo spesso: “Esci dalla sua routine!” “Prendi una nuova sfida!” “Approfitta di una nuova opportunità!” “Vedi il mondo con occhi nuovi!” “Vada avanti con la vita!” “Prendi un rischio!” “Sopravvivi!” “Prospera!”

È interessante notare che Pirandello non sembra avere molto interesse per l’idea (ottimistica!) che un cambiamento profondo potrebbe essere gratificante (per lo meno, certo, nelle novelle che abbiamo letto finora). Domanda: è questo perché la ‘cambiamento è gratificante’ idea è ultramoderna, cioè, qualcosa che si è evoluta dopo il Pirandello ha scritto le novelle?

(A questo proposito, 100 anni fa in Italia sembrava che ci siano stati relativamente poche opportunità di fare un cambiamento positivo, cioè, un miglioramento, nella propria vita. In Lontano, ad esempio, il Pietro Mìlio dice: “Perché, sissignori, non era bestia soltanto da ieri—venire egli stesso soleva dire: bestia era sempre stato…”

Paola: cosa ne pensi?

***

All’inizio di La fede, un sacerdote vecchio, don Pietro, sta morendo. La sua generazione dei sacerdoti aveva le idee rigide su cosa intesa ad essere un sacerdote: cioè, come un sacerdote dovrebbe ministro ai suoi parrocchiani, ciò che un sacerdote dovrebbe valutare, come un sacerdote dovrebbe vivere. Poi veniamo a sapere che la successiva generazione dei sacerdoti ha adottato diversi-nuovi atteggiamenti nei confronti i loro valori, i loro obblighi e le loro responsabilità. In realtà, questi nuovi atteggiamenti probabilmente non siano fondamentalmente diversi, ma sono abbastanza diversi da considerarsi profondi.

Il paragrafo di apertura è una sola frase (stupenda, bellissima) che descrive una camera dove un gruppo dei sacerdoti vivono. La camera è semplice, umile, spartana, senza pretese. Come tale, la camera sembra essere una metafora per la generazione dei vecchi sacerdoti, incarnata da don Pietro.

Le vite dei sacerdoti vecchi sembrano essere tranquilla, ordinata, insieme, ben tracciata, stabile:

Pareva che ormai non potesse avvenire piú nulla in quella cameretta. Immobile, quella luce di sole; immobile, quella pace; come, ad affacciarsi alla finestra, immobili giú tra i ciottoli grigi del cortiletto i fili di erba, i fili di paglia caduti dalla mangiatoja sotto il tettuccio in un angolo, dalle tegole sanguigne e coi tanti sassolini scivolati dalla ripa che si stendeva scabra lassú.

La descrizione delle vite dei sacerdoti è rinforzata nei prossimi due paragrafi, ognuno composto da una sola frase.

Dentro, le piccole antiche sedie verniciate di nero, pulite pulite, di qua e di là dal canterano, avevano tutte una crocettina argentata sulla spalliera, che dava loro un’aria di monacelle attempate, contente di starsene lí ben custodite, al riparo, non toccate mai da nessuno; e con piacere pareva stessero a guardare il modesto lettino di ferro del prete, che aveva a capezzale, su la parete imbiancata, una croce nera col vecchio Crocefisso d’avorio, gracile e ingiallito.

Ma soprattutto un grosso Bambino Gesú di cera in un cestello imbottito di seta celeste, sul canterano, riparato dalle mosche da un tenue velo anche esso celeste, pareva profittasse del silenzio, in quella luce di sole, per dormire con una manina sotto la guancia paffuta il suo roseo sonno tra quegli odori misti d’incenso, di spigo e di caldo pane di casa.

Quando siamo introdotti a don Pietro, sta dormendo. Il suo sonno è disturbato: don Pietro è vecchio e in mancanza di salute (soffre da insufficienza cardiaca congestizia). È ovvio che morirà presto.

Dormiva anche, su la poltroncina di juta a piè del letto, col capo calvo, incartapecorito, reclinato indietro penosamente sulla spalliera, don Pietro. Ma era un sonno ben diverso, il suo. Sonno a bocca aperta, di vecchio stanco e malato. Le palpebre esili pareva non avessero piú forza neanche di chiudersi sui duri globi dolenti degli occhi appannati. Le narici s’affilavano nello stento sibilante del respiro irregolare che palesava l’infermità del cuore.

Il Pirandello suggerisce che don Pietro fosse un uomo ben disciplinato e rigoroso di principio, che abbia vissuto una vita di sacrificio e di sofferenza nel servizio degli altri. Lui anche suggerisce che il corpo di don Pietro—attraverso la malattia—sia impegnato in una vendetta con la sua mente!

Il viso giallo, scavato, aguzzo, aveva assunto in quel sonno, e pareva a tradimento, un’espressione cattiva e sguajata, come se, nella momentanea assenza, il corpo volesse vendicarsi dello spirito che per tanti anni con l’austera volontà lo aveva martoriato e ridotto in servitú, cosí disperatamente estenuato e miserabile. Con quello sguajato abbandono, con quel filo di bava che pendeva dal labbro cadente, voleva dimostrare che non ne poteva piú. E quasi oscenamente rappresentava la sua sofferenza di bestia.

Siamo poi introdotti a don Angelino, che sia l’incarnazione della giovane generazione dei sacerdoti. Don Angelino è profondamente turbato. Da un lato, ama e ammira profondamente don Pietro, che era il suo mentore e confessore. D’altra parte, don Angelino ha appena preso una difficile decisione di sostituire don Pietro con un prete più giovane e più moderno. La decisione di sostituire don Pietro ha creato un conflitto interno in don Angelino, cioè, uno caratterizzato da intensa angoscia, l’esasperazione, l’ansia, un senso di colpa e la rabbia.

Don Angelino, entrato di furia nella cameretta, s’era subito arrestato e poi era venuto avanti in punta di piedi. Ora da una decina di minuti stava a contemplare il dormente, in silenzio, ma con un’angoscia che di punto in punto, esasperandosi, gli si cangiava in rabbia; per cui apriva e serrava le mani fino ad affondarsi le unghie nella carne. Avrebbe voluto gridare per svegliarlo:

– Ho deciso, don Pietro: mi spoglio!

Ma si sforzava di trattenere perfino il respiro per paura che, svegliandosi, quel santo vecchio se lo trovasse davanti all’improvviso con quell’angoscia rabbiosa che certo doveva trasparirgli dagli occhi e da tutto il viso disgustato; e anzi aveva la tentazione di far saltare con una manata fuori della finestra quella gabbiola che pendeva dal palchetto, tanta irritazione gli cagionava, nella paura che il vecchio si svegliasse, il raspío delle zampine di quel canarino su lo zinco del fondo.

Il giorno avanti, per piú di quattr’ore, andando sú e giú per quella cameretta, dimenandosi, storcendosi tutto, come per staccare e respingere dal contatto col suo corpicciuolo ribelle l’abito talare, e movendo sott’esso le gambe come se volesse prenderlo a calci, aveva discusso accanitamente con don Pietro sulla risoluzione d’abbandonare il sacerdozio, non perché avesse perduto la fede, no, ma perché con gli studii e la meditazione era sinceramente convinto d’averne acquistata un’altra piú viva e piú libera, per cui ormai non poteva accettare né sopportare i dommi, i vincoli, le mortificazioni che l’antica gli imponeva. La discussione s’era fatta, da parte sua soltanto, sempre piú violenta, non tanto per le risposte che gli aveva dato don Pietro, quanto per un dispetto man mano crescente contro se stesso, per il bisogno che aveva sentito, invincibile e assurdo, d’andarsi a confidare con quel santo vecchio, già suo primo precettore e poi confessore per tanti anni, pur riconoscendolo incapace d’intendere i suoi tormenti, la sua angoscia, la sua disperazione.

Quando don Pietro viene a sapere della decisione, dice una sola parola, “vanità”.

Penso che “vanità” sia in parte un rimprovero e in parte un ammonimento. Don Pietro sembra avvertire i giovani sacerdoti che la loro ribellione è un errore. Lui sembra credere che, di sicuro, tutti i giovani sacerdoti rischiano di perdere l’essenza della loro vocazione: suggerisce che questa essenza sia derivata da Dio e che i sacerdoti dovrebbero essere asserviti a Dio. Dunque, don Pietro sembra dire che sia arrogante per un giovane sacerdote credere che può ribellarsi.

Don Pietro dice:

Un’altra fede? Ma quale, se non ce n’è che una? Piú viva? piú libera? Ecco appunto dov’era la vanità; e se ne sarebbe accorto bene quando, caduto quell’impeto giovanile, spento quel fervore diabolico, intepidito il sangue nelle vene, non avrebbe piú avuto tutto quel fuoco negli occhietti arditi e, coi capelli canuti o calvo, non sarebbe stato piú cosí bellino e fiero. Insomma, lo aveva trattato come un ragazzo, ecco, un buon ragazzo che sicuramente non avrebbe fatto lo scandalo che minacciava, anche in considerazione del cordoglio che avrebbe cagionato alla sua vecchia mamma, che aveva fatto tanti sacrifizii per lui.

A questo punto della storia, la sorella di don Pietro arriva: è venuta per informarlo che una dei suoi parrocchiani è arrivata. Don Pietro è troppo debole per incontrare la parrocchiana e chiede se don Angelino possa invece incontrarla.

La sorella gli s’accostò e, curvandosi sulla poltrona, gli disse piano qualche parola all’orecchio. Allora don Pietro si alzò a stento e, strascicando i piedi, venne a posare una mano sulla spalla di don Angelino, e gli domandò:

– Vuoi farmi una grazia, figliuolo mio? È arrivata dalla campagna una povera vecchia, che chiede di me. Vedi che mi reggo appena in piedi. Vorresti andare in vece mia? È giú in sagrestia. Puoi scendere di qua, dalla scaletta interna. Va’, va’, che tu sei sempre il mio buon figliuolo. E Dio ti benedica!

Don Angelino è d’accordo. Poi mentre cammina verso la sacrestia, si è ancora una volta superato dall’angoscia e rabbia.

Don Angelino, senza dir nulla, andò. Forse non aveva neanche compreso bene. Per la scaletta interna della cura, buja, angustissima, a chiocciola, si fermò; appoggiò il capo alla mano che, scendendo, faceva scorrere lungo il muro, e si rimise a piangere, come un bambino. Un pianto che gli bruciava gli occhi e lo strozzava. Pianto d’avvilimento, pianto di rabbia e di pietà insieme. Quando alla fine giunse alla sagrestia, si sentí improvvisamente come alienato da tutto. La sagrestia gli parve un’altra, come se vi entrasse per la prima volta. Frigida, squallida e luminosa. E trovandovi seduta la vecchia, quasi non comprese che cosa vi stesse ad aspettare, e quasi non gli parve vera.

La parrocchiana è una vecchia dalla campagna: lei è povera, senza istruzione, non sofisticata. È venuta in chiesa per fare un’offerta.

Era una decrepita contadina, tutta infagottata e lercia, dalle pàlpebre sanguigne orribilmente arrovesciate. Biasciando, faceva di continuo balzare il mento aguzzo fin sotto il naso. Reggeva in una mano due galletti per le zampe, e mostrava nel palmo dell’altra mano tre lire d’argento, chi sa da quanto tempo conservate. Per terra, davanti ai piedi imbarcati in due logore enormi scarpacce da uomo, aveva una sudicia bisaccia piena di mandorle secche e di noci.

Don Angelino la tratta (senza vergogna!) con un disprezzo mite, una mancanza di rispetto e una totale mancanza di empatia.

Don Angelino la guatò con ribrezzo.

– Che volete?

La vecchia, sforzandosi di sbirciarlo, barbugliò qualcosa con la lingua imbrogliata entro le gote flosce e cave, tra le gengive sdentate.

– Come dite? Non sento. Vi chiamate zia Croce?

La donna, zia Croce Scoma, è una vedova; qualche tempo fa il suo figlio era quasi morto da una grave malattia. Alla fine lui ha recuperato e subito dopo aveva lasciato l’Italia per l’America. Anche se ha promesso di scrivere la Croce su base regolare, è trascurato a farlo. Dunque la Croce si era molto preoccupata: lei non sapeva se il suo figlio fosse vivo o morto.

Gli amici della Croce le ha detto che suo figlio ha fallito di scriverla perché lei non ha offerto un omaggio a un santo patrono in segno di gratitudine per la guarigione miracolosa del figlio. (Perché è sempre colpa della mamma?!?)

Anche se il ragionamento degli amici sembra più come la superstizione frivola (un pensiero magico) piuttosto che la fede in Dio, la Croce l’ha creduto. Lei era anche confidato a don Pietro che era simpatico.

E con quell’offerta di due galletti e di quella bisaccia di mandorle e di noci e con le tre lire della messa doveva placare (don Pietro lo sapeva) San Calògero, il santo di tutte le grazie, che le aveva fatto guarire il figlio d’una malattia mortale.

Il voto però non lo aveva adempiuto (don Pietro lo sapeva) perché s’era spogliata di tutto per quella malattia del figlio e le erano rimasti appena gli occhi per piangere: piangere sangue! ecco, sangue! Poi, andato via il figlio, vecchia com’era e senz’ajuto di nessuno, come trovare da mettere insieme l’offerta e quelle tre lire della messa, se guadagnava appena tanto ogni giorno da non morire di fame?

Al contrario don Angelino era incredulo.

Don Angelino, mentre la vecchia parlava cosí, andava sú e giú per la sagrestia, volgendo di qua e di là occhiate feroci e aprendo e chiudendo le mani, perché aveva la tentazione d’afferrare per le spalle quella vecchia e scrollarla furiosamente, urlandole in faccia:

– Questa è la tua fede?

I giovani sacerdoti sembrano considerare una parrocchiana come la Croce una ‘perdita di tempo’.

Ma no: altri, altri, non quella povera vecchia; altri, i suoi colleghi sacerdoti avrebbe voluto afferrare per le spalle e scrollare, i suoi colleghi sacerdoti che tenevano in quell’abiezione di fede tanta povera gente, e su quell’abiezione facevano bottega. Ah Dio, come potevano prendersi per una messa le tre lire di quella vecchia, i galletti, le mandorle e le noci?

Quello che segue è uno scambio che illustra la ribellione (l’insubordinazione) dei giovani sacerdoti.

– Riprendete codesta bisaccia e andatevene! – le gridò, tutto fremente.

Quella lo guardò, sbalordita.

– Potete andarvene, ve lo dico io! – aggiunse don Angelino, infuriandosi vieppiú. – San Calògero non ha bisogno né di galletti né di fichi secchi! Se vostro figlio ha da scrivervi, state sicura che vi scriverà. Quanto alla messa, vi dico che don Pietro è malato. Andatevene! andatevene!

Come intronata da quelle parole furiose, la vecchia gli domandò:

– Ma che dice? Non ha capito che questo è un voto? È un voto!

Poi, però, don Angelino ferma un attimo a riconsiderare la vecchia,

E c’era nella parola, pur ferma, un tale sbalordimento per l’incomprensione di lui, quasi incredibile, che don Angelino fu costretto a fermarvi l’attenzione. Pensò ch’era lí in vece di don Pietro, e si frenò. Con parole meno furiose cercò di persuadere la vecchia a riportarsi i galletti e le mandorle e le noci, e le disse che, quanto alla messa, ecco, se proprio la voleva, magari gliel’avrebbe detta lui, invece di don Pietro, ma a patto che lei si tenesse le tre lire.

…e la Croce è così incredula—cioè, don Angelino è così diverso da don Pietro—che si chiede se don Angelino sia davvero un sacerdote!

La vecchia tornò a guardarlo, quasi atterrita, e ripeté:

– Ma come! Che dice? E allora che voto è? Se non do quello che ho promesso, che vale? Ma scusi, a chi parlo? Non parlo forse a un sacerdote? E perché allora mi tratta cosí? O che forse crede che non do a San Calògero miracoloso con tutto il cuore quello che gli ho promesso? Oh Dio! oh Dio! Forse perché le ho parlato di quanto ho penato per raccoglierlo? E cosí dicendo, si mise a piangere perdutamente, con quegli orribili occhi insanguati.

Poco tempo dopo, don Angelino ha deciso di accettare l’offerta della Croce e si prepara a dire messa per lei… per caso, lui la trova nella chiesa vuota, veramente consumata dalla sua fede in Dio.

E don Angelino, già parato, col calice in mano, si fermò un istante, incerto e oppresso d’angoscia, su la soglia della sagrestia a guardare nella chiesetta deserta; se gli conveniva, cosí senza fede, salire all’altare. Ma vide davanti a quell’altare prosternata con la fronte a terra la vecchia, e si sentí come da un respiro non suo sollevare tutto il petto, e fendere la schiena da un brivido nuovo. O perché se l’era immaginata bella e radiosa come un sole, finora, la fede? Eccola lí, eccola lí, nella miseria di quel dolore inginocchiato, nella squallida angustia di quella paura prosternata, la fede!

(Guarda che non è conveniente-pratica-giustificata per don Angelino a dir messa a una chiesa vuota. Sembra di natura economica, quindi, parte della tensione tra i sacerdoti più anziani e più giovani).

L’atto di fede della Croce si muove don Angelino: sperimenta lui una sorta d’un’epifania.

E don Angelino salí come sospinto all’altare, esaltato di tanta carità, che le mani gli tremavano e tutta l’anima gli tremava, come la prima volta che vi si era accostato.

E per quella fede pregò, a occhi chiusi, entrando nell’anima di quella vecchia come in un oscuro e angusto tempio, dov’essa ardeva; pregò il Dio di quel tempio, qual esso era, quale poteva essere: unico bene, comunque, conforto unico per quella miseria.

E finita la messa, si tenne l’offerta e le tre lire, per non scemare con una piccola carità la carità grande di quella fede.

(Immagino che don Angelino ha riscoperto in se stesso i valori originariamente impartitagli da don Pietro!)

Il finale della novella è (come sempre!) ambiguo. Sarà don Angelino mantenere la sua ribellione o sarà invertire il suo corso e diventare più simile a don Pietro?

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