Riassunto: In silenzio

– Waterloo! Waterloo, santo Dio! Si pronunzia Waterloo!

– Sissignore, dopo Sant’Elena.

– Dopo? Ma che dice? Come c’entra Sant’Elena adesso?

– Ah, già! L’isola d’Elba.

– Ma no! Lasci l’isola d’Elba, caro Brei! Crede che un lezione di storia si possa improvvisare? E dunque segga!

Cesarino Brei, pallido, timido, sedette; e il professore seguitò a guardarlo per un pezzo, contrariato, se non proprio stizzito. 

Inizia così In silenzio (L. Pirandello), una novella tristissima che racconta la storia di un giovanotto, Cesarino Brei, che deve fare i conti con una tragedia profonda e le sue conseguenze.

All’inizio della novella apprendiamo che Cesarino era uno studente altamente considerato nella sua scuola precedente (un liceo). Di recente, ha trasferito a una nuova scuola (il Collegio Nazionale), a Roma. Sta prendendo un esame orale, e il professore è sia arrabbiato e deluso per la mancanza di preparazione di Cesarino.

Il professore non è in grado di spiegare il mediocre preparazione di Cesarino. Cesarino anche non capisce perché il suo rendimento è così scadente.

Non se ne sapeva render conto nemmeno lo stesso Cesarino. Stava ore e ore a studiare, o per dir meglio, coi libri aperti sotto le grosse lenti da miope; ma non poteva piú fermare l’attenzione su di essi, sorpreso e frastornato da pensieri nuovi e confusi. E questo, non soltanto dacché era entrato in collegio, come i professori credevano, ma da qualche tempo prima. Anzi Cesarino avrebbe potuto dire che a causa di questi pensieri appunto e di certe strane impressioni s’era lasciato indurre dalla madre a entrare in collegio.

Veniamo a sapere che sua madre era quella che prima ha suggerito che Cesarino dovrebbe passare le scuole.

– Tu hai bisogno, Cesare, di cambiar vita; bisogno d’un po’ di compagnia di giovani della tua età, e d’un po’ d’ordine e di regola, non solo nello studio, ma anche nello svago. Ho pensato, se non ti dispiace, di farti passare quest’ultimo anno di liceo in collegio. Vuoi?

Poi abbiamo a sapere che Cesarino è figlio unico che vive con la madre. Non conosce il padre (non l’ha mai incontrato) e sa quasi nulla di lui.

In casa, del resto, non c’era alcun ritratto del babbo, né alcuna traccia ch’egli fosse mai esistito: la madre non gliene aveva mai parlato, né a lui era mai venuta curiosità d’averne qualche notizia. Sapeva soltanto che si chiamava Cesare come lui, e basta. Lo sapeva perché negli attestati di scuola c’era scritto: Brei Cesarino del fu Cesare, nato a Milano, ecc. A Milano? Sí. Ma non sapeva nulla neanche della sua città natale, o, per dir meglio, sapeva che a Milano c’era il Duomo, e basta: il Duomo, la Galleria Vittorio Emanuele, il panettone, e basta. La madre, anch’essa milanese, era venuta a stabilirsi a Roma subito dopo la morte del marito e la nascita di lui.

Cesarino ammette che lui anche non conosce bene sua madre… nonostante vivono insieme, in realtà loro non condividono tanto delle loro vite.

Quasi quasi, a pensarci, Cesarino poteva dire di non conoscer bene neppure la madre. Non la vedeva quasi mai durante il giorno. Dalla mattina fino alle due del pomeriggio, ella stava alla Scuola Professionale, dove insegnava disegno e ricamo; andava poi in giro fino alle sei, fino alle sette, talvolta fino alle otto di sera, per impartire lezioni particolari anche di lingua francese e di pianoforte. Rincasava stanca, la sera; ma, pure in casa, in quel po’ di tempo prima di cena, altre fatiche, certe cure domestiche a cui la serva non avrebbe potuto attendere; e, subito dopo cena, la correzione dei lavori delle scolarette private.

La loro casa, perciò, non è allegra o vivace o interessante. Nonostante un’abbondanza delle cose (la famiglia sembra appartenere alla classe media), la casa è caratterizzata dal silenzio.

Mobili piú che decenti, tutte le comodità, guardaroba ben fornito, dispensa abbondantemente provvista, eh sí, sfido! Con tutto questo gran lavoro della mammina infaticabile; ma che tristezza anche, e che silenzio in quella casa!

Cesarino ha cominciato a chiedersi se assomiglia a suo padre, e se la somiglianza sia dolorosa per sua madre.

Madre e figlio, cenando, scambiavano tra loro poche parole. Ella gli domandava qualche notizia della scuola; come avesse passato la giornata; spesso lo rimproverava del modo di vita che teneva, cosí poco giovanile, e voleva che si scotesse; lo incitava a muoversi un po’, di giorno, all’aperto; a esser piú vivace, piú uomo, via! Lo studio, sí, ma anche qualche svago ci voleva. Soffriva, ecco, a vederlo cosí uggito, pallido, disappetente. Egli le dava brevi risposte: sí, no; prometteva con freddezza e aspettava con impazienza la fine della cena per andarsene a letto, presto presto, poiché era solito di levarsi per tempo la mattina.

Cresciuto sempre solo, non aveva nessuna domestichezza con la madre. La vedeva, la sentiva molto diversa da sé, cosí alacre, energica e disinvolta. Forse egli somigliava al padre. E il vuoto lasciato dal padre da tanto tempo stava tra lui e la madre, e s’era sempre piú ingrandito con gli anni. Sua madre, anche lí presente, gli appariva sempre come lontana.

Il narratore della novella ci spiega come le domande e le preoccupazioni di Cesarino hanno cominciato nel momento in cui lui stesso ha fatto la transizione da bambino ad adulto.

Ora questa impressione era cresciuta fino a cagionargli uno stranissimo imbarazzo, allorché (molto tardi, veramente; ma Cesarino – si sa – aveva poca fantasia), per una conversazione tra due compagni di scuola, le prime infantili finzioni dell’anima gli erano cadute, scoprendogli improvvisamente certi vergognosi segreti della vita finora insospettati.

Poi impariamo che la mamma è ancora una bella donna.

Negli ultimi giorni passati a casa, aveva notato ch’ella, non ostante il gran lavoro a cui attendeva senza requie dalla mattina alla sera, si conservava bella, molto bella e florida, e che di questa bellezza aveva gran cura: si acconciava i capelli con lungo e amoroso studio ogni mattina, vestiva con signorile semplicità, con non comune eleganza; e s’era sentito quasi offeso finanche dal profumo ch’ella aveva addosso, non mai prima avvertito cosí, da lui.

Poi veniamo a sapere che sua mamma era malata di recente. Cesarino non capisce che lei è incinta: lei possibilmente soffriva di un disturbo cronico legato alla gravidanza (forse la condizione conosciuta oggi come “preeclampsia”).

…tanto piú che, ora, sapeva ammalata la mamma. Da piú mesi ella non veniva a visitarlo, le domeniche, al collegio. Le ultime volte ch’era venuta, s’era lamentata di non star bene; e, difatti, a Cesarino non era sembrata florida come prima; aveva anzi notato una trascuratezza insolita nell’acconciatura di lei, che gli aveva fatto sentire piú acuto il rimorso dei pensieri cattivi suggeriti dalla soverchia cura ch’ella prima vi poneva.

Il medico l’ha consigliata la mamma di Cesarino a riposare al letto. Cesarino è portato a comprendere che la malattia di sua madre non è grave e che lei sarà sicuramente ottenere ben presto.

…Cesarino sapeva che il medico le aveva ordinato di stare in riposo, perché si era troppo e per troppo tempo affaticata, e proibito d’uscire, assicurando tuttavia che non c’era nulla di grave e che, seguendo scrupolosamente le prescrizioni, sarebbe senza dubbio guarita. Ma l’infermità si protraeva e Cesarino già stava in pensiero e non gli pareva l’ora che l’anno scolastico terminasse.

(A questo punto della novella, il lettore può immaginare che la sua gravidanza probabilmente spiega perché ha incoraggiato Cesarino per passare dal liceo al Collegio Nazionale.)

Tutte queste cose — le domande di Cesarino sul sua vita (passata e presente), la nuova scuola, la malattia di sua madre — sembrano creare un profondo senso d’incertezza e dubbio. Cesarino si rende conto che vuole qualcosa di più dalla vita, ma gli manca la maturità a capire e spiegare ciò che lo disturba. (In effetti, il lettore viene a capire cosa sta succedendo a Cesarino dalle spiegazioni del narratore.)

Cesarino è smarrito e da solo; il lettore capisce che lui ha bisogno di consulenza, l’orientamento e la prospettiva. Purtroppo, non c’è nessuno nella sua vita che lo può aiutare. Cesarino è da solo (in silenzio) e bloccato sul posto… la sua vita da studente ha effettivamente arrivato a un punto morto.

Naturalmente, in tali condizioni di spirito, le vere ragioni escogitate dal professore di storia, per cui Napoleone Bonaparte era stato sconfitto a Waterloo, per quanti sforzi facesse, non riusciva a penetrarle bene.

Un giorno Cesarino ritorna a scuola e viene convocato nell’ufficio del direttore. Cesarino presume che sarà rimproverato per lo scarso rendimento, ma invece gli viene detto che deve tornare a casa. Nessun spiegazione chiara è data. Un membro del personale della scuola viene inviato con lui per fornire supporto.

Al suo arrivo Cesarino viene a sapere che sua madre infatti era incinta, che lei ha dato alla luce un figlio, e che lei è morta di parto.

Precipitandosi dentro, Cesarino cacciò subito lo sguardo nella camera della madre, in fondo, e la intravide, là… sul letto… lunga – fu questa, nello stordimento, la prima impressione, strana, di meraviglia – lunga, oh Dio, come se la morte l’avesse stirata, a forza; rigida, pallida piú della cera, e già livida nelle occhiaje, ai lati del naso irriconoscibile!

– Come?… come?… – balbettò, piú incuriosito quasi sulle prime, che atterrito da quella vista, stringendosi nelle spalle e protendendo il collo a guardare come fanno i miopi.

Quasi in risposta, venne dall’altra stanza, a infrangere orribilmente quel silenzio di morte, uno strillo infantile, roco.

Cesarino si voltò di scatto, quasi quello strillo gli fosse arrivato come una rasojata alla schiena, e tremando in tutto il corpo guardò la serva che piangeva in silenzio inginocchiata presso il letto.

– Un bimbo?

– Di là… – gli accennò quella.

– Suo? – domandò, piú col fiato che con la voce, allibito.

La serva accennò di sí, col capo.

Si voltò di nuovo verso la madre, non poté sostenerne la vista. Sconvolto dall’improvvisa, atroce rivelazione che lo istupidiva e gli strappava, ora, il cordoglio violentemente, si nascose gli occhi con le mani, mentre sú dalle viscere sospese gli saliva come un urlo che la gola, strozzata dall’angoscia, non lasciava passare.

Di parto, dunque? Morta di parto? Ma come? Dunque, per questo? E subito gli balenò il sospetto che di là, dond’era venuto quel pianto infantile, ci fosse qualcuno; e si voltò a guatare la serva odiosamente.

Cesarino chiede l’identità e il luogo del padre.

Cesarino lo guardò con ribrezzo, e si volse di nuovo alla serva.

– Nessuno? – disse, quasi tra sé. – Questo bambino?

– Oh signorino mio! – esclamò la serva, giungendo le mani. – Che posso dirle? Non so nulla, io.

Dicevo appunto questo alla levatrice qua… Non so proprio nulla! Qua non è mai venuto nessuno: questo glielo posso giurare!

– Non ti disse?

– Mai, nulla! Non mi confidò mai nulla, e io, certo, non potevo domandarle… Piangeva, sa? Oh tanto, di nascosto… Non uscí piú di casa, dacché cominciò a parere… lei m’intende…

Cesarino, da solo, cerca di capire cos’è successo. Cioè, per quanto riguarda sua madre:

– Quando ha primo incontrato quest’uomo?

– Quando era lei in grado di trascorrere del tempo con lui?

– Era sua madre abbandonata da quest’uomo?

– L’ha inviato al Colegio Nazionale per nascondere la sua gravidanza (cioè, la sua vergogna)?

Cesarino alla fine arriva a capire che ora si è completamente da solo. Ma poi i suoi pensieri si rivolgono al neonato (Ninní). Cesarino si rende conto che Ninní probabilmente non sarà mai conoscere suo padre, cioè, Cesarino e Ninnì condividono qualcosa di profondo.

Cesarino sentí d’improvviso il vuoto spalancarglisi piú nero e piú vasto d’attorno. Si vide solo, solo nella vita, senz’ajuto, senz’alcun parente, né prossimo né lontano; solo, con quella creaturina lí che aveva ucciso la mamma venendo al mondo ed era rimasta anche lei, cosí, nello stesso vuoto, abbandonata alla stessa sorte, senza padre… Come lui.

Poi Cesarino si domanda se sua madre anche era da sola quando è nato (Cesarino), e se l’abbandono spiega perché lui ha il cognome della madre invece del padre.

Come lui? Eh sí, fors’anche lui… – come non ci aveva mai pensato prima? – fors’anche lui era nato cosí! Che sapeva di suo padre? Chi era stato quel Cesare Brei?… Brei? Ma non era questo il cognome della madre? Sí. Enrica Brei. Cosí ella si firmava, e tutti la conoscevano come la maestra Brei. Se fosse stata vedova, venuta a Roma, entrata nell’insegnamento, non avrebbe ripreso il suo cognome, magari facendolo seguire da quello del marito? Ma no: Brei era il cognome della madre; ed egli dunque portava soltanto il cognome di lei; e quel fu Cesare, di cui non sapeva nulla, di cui non era rimasta in casa alcuna traccia, forse non era mai esistito: Cesare, forse, sí, ma non Brei… Chi sa qual era veramente il cognome di suo padre! Come non ci aveva mai pensato, finora, a queste cose?

Questi pensieri sono interrotti improvvisamente dai bisogni urgenti della situazione. Cesarino è costretto a decidere della cura e il benessere di Ninní. (In particolare, riuscirà a decidere di rinunciare al neonato?) Le due donne che hanno partecipato alla nascita, una levatrice e una serva (Rosa), spingono Cesarino a prendere queste decisioni. Dei due, Rosa è chiaramente il più attenta e sincera.

Prima che decide ciò che dovrebb’essere fatto, Cesarino cerca gli effetti personali di sua mamma.

Ah, mute, mute ora, per sempre, quelle labbra, da cui tante cose egli avrebbe voluto sapere! Se l’era portato via con sé, nel silenzio orribile della morte il mistero di quel bimbo di là, e l’altro della nascita di lui… Ma, forse, cercando, frugando… Dov’erano le chiavi?

Le prese dalla specchiera, e seguí la serva nello studiolo della madre.

– Ecco… veda là, in quello stipetto.

Vi trovò poco piú di cento lire, ch’erano forse il residuo dei risparmii.

– Nient’altro?

Alla fine Cesarino scopre alcune lettere che la mamma ha salvato, tra cui, la sua corrispondenza con un uomo, Alberto Rocchi, che in ogni probabilità era il suo amante e il padre di Ninní.

– Niente, aspetta…

Aveva scorto in quello stipetto alcune lettere. Volle leggerle subito. Ma erano (tre, in tutto) di una maestra della Scuola Professionale, dirette alla madre a Rio Freddo, dove due anni avanti ella, insieme con lui, aveva passato le vacanze estive. E l’anno dopo, quella maestra, collega della madre, era morta. Dall’ultima di quelle lettere, a un tratto scivolò a terra un bigliettino, che la serva s’affrettò a raccogliere.

– Da’ qua! Da’ qua!

Era scritto a lapis, senza intestazione, senza data, e diceva cosí:

Impossibile, oggi. Forse venerdí.

Alberto

– Alberto… – ripeté, guardando la serva. – È lui! Alberto… Lo conosci? Non sai nulla? Proprio nulla! Parla!

– Nulla, signorino mio, gliel’ho detto!

L’esperienza condivisa (d’essere nato senza un padre) si reso caro Ninní a Cesarino. Quindi Cesarino decide di prendersi cura di lui.

Cercò di nuovo nello stipetto, poi nei cassetti degli armadii, dovunque, scompigliando ogni cosa. Non trovò nulla. Solo quel nome! Solo questa notizia: che il padre di quel bimbo si chiamava Alberto. E suo padre, Cesare… Due nomi: nient’altro. E lei, di là, morta. E tutti quei mobili della casa, inconsapevoli, impassibili. E lui, ora, senza piú nessun sostegno, in quel vuoto, con quel bimbo là, che, appena nato, non apparteneva piú a nessuno; mentre lui almeno, finora, aveva avuto la madre. Buttarlo via? No, no, povero piccino!

Cesarino ha bisogno dei consigli e del denaro. La gente nella comunità inizialmente venire al suo aiuto.

Era divenuto un altro, in pochi istanti. Espose al Direttore, senza un lamento, il suo caso, il suo proposito, chiedendogli ajuto, sicuramente, con la ferma convinzione che nessuno avrebbe potuto negarglielo, perché ne aveva il diritto sacrosanto, ormai, per tutto il male che, innocente, gli toccava soffrire, dalla propria madre, da quell’ignoto che gli aveva dato la vita, da quest’altro ignoto che gli aveva tolto la madre, lasciandogli in braccio un bambino appena nato.

Il Direttore che, ascoltandolo, stava a mirarlo a bocca aperta e con gli occhi pieni di lagrime, subito lo assicurò che avrebbe fatto di tutto per ottenergli al piú presto un soccorso, e che non lo avrebbe mai, mai abbandonato. Se lo strinse al petto, pianse con lui, gli disse che quella sera stessa sarebbe venuto a trovarlo a casa e, sperava, con una buona notizia.

– Sta bene. Sissignore. L’aspetto.

E ritornò di furia a casa.

La situazione di Cesarino non è né disperata né senza rischio. Per i soldi, lui vende molti dei beni di sua madre. Una balia è assunto per la cura di Ninní.

Cesarino è molto chiaramente incentrato sulla salute e il benessere del suo fratellastro.

Ecco, gli appariva ormai come una cosa preziosa, preziosa e cara, quel bimbo, non piú soltanto da salvare, ma anche da tener custodito con tutte quelle cure che certamente avrebbe avuto per lui la mamma, di cui era felice di risentire in sé, cosí d’improvviso ridestata, la bella alacrità coraggiosa.

Cesarino è determinato a non fallire. Oltre ai suoi studi Cesarino ottiene un lavoro presso un’agenzia governativa.

Affannato, angosciato dalla paura di non arrivare mai a tempo, correva di qua, di là, per trar partito da tutto. Lo ajutavano e non ringraziava nemmeno. Non ringraziò neanche il Direttore del collegio quando, nella casetta nuova, dopo lo sgombero, venne ad annunziargli che gli aveva trovato il posto di scrivanello al Ministero della Pubblica Istruzione.

La sua determinazione di non fallire porta ad una scena piena d’ironia, in cui Cesarino agisce con maturità mentre i suoi colleghi di lavoro, che sono più vechii ed esperti, non la fanno.

…E al Ministero, se gli altri scrivani, tutti uomini maturi o vecchi, passavano il tempo a far la burletta, nonostante la minaccia dei capi che quell’ufficio di ricopiatura sarebbe stato soppresso per lo scarso rendimento che dava, egli dapprima s’agitava sulla seggiola, sbuffando, o pestava un piede, poi si voltava brusco a guardarli dal suo tavolino, battendo il pugno sulla spalliera della seggiola; non perché gli paresse disonesta quella loro stupida negligenza, ma perché, non sentendo l’obbligo di lavorare con lui e quasi per lui, lo mettevano a rischio di perdere il posto. Nel vedersi cosí richiamati al dovere da un ragazzo, era naturale che quelli ridessero e se lo pigliassero a godere. Balzava in piedi; minacciava d’andarli a denunziare; e faceva peggio; perché quelli, ecco, lo sfidavano a farlo; allora lui doveva riconoscere che, facendolo, avrebbe forse affrettato il danno di tutti. Restava a guardarli come se con le loro risate gli avessero squarciato il ventre; poi ricurvava le spallucce sul tavolino, e dalli a ricopiare, a ricopiare quante piú carte poteva, a rivedere anche le poche ricopiate dagli altri per levarne via gli errori; sordo ai motteggi con cui quelli ora si spassavano a sbottoneggiarlo. Certe sere, perché il lavoro assegnato all’ufficio fosse terminato, usciva dal Ministero un’ora dopo tutti gli altri. Il Direttore se lo vedeva arrivare al collegio, trafelato ansante, con gli occhi induriti dalla fissità spasimosa che dava loro il pensiero di non bastare a difendersi dalle difficoltà e le contrarietà della sorte, a cui purtroppo s’univa anche la malignità degli uomini, adesso.

Come il lettore può ben immaginare, la vita di Cesarino è faticoso… E i ruoli sono invertiti, cioè, la vita di Cesarino è venuto ad assomigliare la vita di sua madre quando lui era un ragazzo!

Sul balconcino dalla ringhiera di ferro arrugginita, che gli era parso tanto bello dapprima là alla vista degli orti suburbani, ora, tenendo sulle ginocchia Ninní, avrebbe voluto compensarsi delle corse, delle fatiche, delle amarezze di tutta la giornata. Ma il bimbo, che aveva già circa tre mesi, non voleva stare con lui, forse perché, non vedendolo quasi mai durante la giornata, ancora non lo riconosceva; fors’anche perché egli non lo sapeva tener bene in braccio; o perché aveva già sonno, come diceva la balia per scusarlo.

Poi il lettore viene a sapere che Cesarino sperimenta la disperazione e l’angoscia.

Aspettando la cena, lí seduto sul balconcino, nell’ultima luce fredda del crepuscolo, guardando (senza neppur forse vederla) la fetta di luna già accesa nel cielo scialbo e vano; poi abbassando gli occhi sulla sudicia stradicciuola deserta costeggiata da una parte da una siepe secca e polverosa a riparo degli orti, si sentiva invader l’anima, in quella stanchezza, da uno squallore angoscioso; ma non appena il pianto accennava di pungergli gli occhi, serrava i denti, stringeva nel pugno la bacchetta di ferro della ringhiera, appuntava lo sguardo all’unico fanale della stradicciuola, a cui i monellacci avevano fracassato a sassate due vetri, e si metteva a pensar cose cattive, apposta, contro gli scolaretti del convitto, anche contro il Direttore, ora che non sentiva piú di poter essere come prima fiducioso con lui, avendo capito che gli faceva il bene, sí, ma quasi piú per sé, per il compiacimento di sentirsi, lui, buono; il che gli dava adesso, nel riceverne quel bene, come un impiccio d’umiliazione. E quei compagni d’ufficio, coi loro sudici discorsi e certe sconce domande che avrebbero voluto avvilirlo di vergogna: “se e come faceva; se l’aveva mai fatto”. Ed ecco, un improvviso convulso di lagrime lo assaliva al ricordo d’una sera che, andando al solito di furia per via, come un cieco, aveva inciampato in una donnaccia di strada la quale, subito, fingendo di pararlo, se l’era premuto al seno con tutte e due le braccia, costringendolo cosí a cogliere con le nari sulla carne viva, oscenamente, il profumo, quel profumo stesso della sua mamma; per cui s’era strappato da lei, mugolando, ed era fuggito via. Gli pareva ora di sentirsi frustato dal dileggio di quelli: “Verginello! Verginello!”, e tornava a stringere nel pugno la bacchetta della ringhiera e a serrare i denti. No, non avrebbe potuto mai farlo, lui, perché sempre, sempre avrebbe avuto nelle nari, a dargliene l’orrore, quel profumo della madre.

Apprendiamo anche che la balia trascura alcuni (ma non tutti) dei suoi compiti.

…il corredino di Ninní… l’eleganza, il gusto, quello scrupolo di pulizia della mamma; e ora, ecco stesa là sulla tavola una sudicia tovaglia; la cena non ancora preparata; il suo letto, di là, non ancora rifatto dalla mattina, e fosse stato almeno ben curato il bimbo; ma nossignori: sporca la vestina, sporco il bavaglino; e a muoverne a quella balia il minimo rimprovero, già la certezza d’indispettirla e il pericolo ch’ella approfittasse dell’assenza di lui per sfogare il dispetto contro la creaturina innocente; e poi subito pronta la doppia scusa che, dovendo badare al bambino, non aveva tempo né di rassettare la casa né di attendere alla cucina; e che, se mancava al bambino qualche cura, questo dipendeva perché le toccava far anche da serva e da cuoca. Brutta zoticona, venuta sú dalla campagna che pareva un tronco d’albero, e che ora credeva di farsi bella, pettinandosi coi capelli alti e infronzolandosi. Ma pazienza! Il latte, lo aveva buono; e il bimbo, quantunque trascurato, prosperava.

L’antipatia di Cesarino per il Rocchi è profonda: il Rocchi ha abbandonato sua madre e Ninni, causando una tragedia di enorme dolore; il Rocchi è anche venuto a incarnare il padre che Cesarino non ha mai saputo.

Ah, come somigliava alla mamma! Gli stessi occhi e quel nasino, quella boccuccia… La balia gli voleva far credere che somigliasse a lui, invece. Ma che! Chi sa a chi somigliava lui! Ma ormai, non gl’importava piú di saperlo. Gli bastava che Ninní somigliasse alla mamma; n’era felice, anzi, perché cosí non avrebbe baciato su quel visino alcun tratto che avrebbe potuto fargli nascere l’idea di quell’ignoto, che ormai non si curava piú di scoprire.

Cesarino prevede di diventare un avvocato e quindi avanzare la sua carriera presso l’agenzia governativa. Per il lettore, questo piano sembra rappresentare un filo di speranza per una vita migliore. Allo stesso tempo, il narratore mette in chiaro che l’angoscia e la disperazione di Cesarino sono costantemente presenti.

Dopo cena, sulla stessa tavola appena sparecchiata, si metteva a studiare, con l’intenzione di presentarsi l’anno appresso agli esami di licenza liceale, per entrar poi – con l’esenzione dalle tasse, se gli veniva fatto – all’Università. Si sarebbe iscritto in legge; e se riusciva a ottener la laurea, questa gli avrebbe servito per qualche concorso di segretario allo stesso Ministero della Pubblica Istruzione. Voleva sollevarsi al piú presto da quella meschina e non ben sicura condizione di scrivano. Ma studiando, certe sere, era a poco a poco invaso e vinto da un cupo scoraggiamento. Gli parevan cosí lontane dal suo presente affanno quelle cose da studiare! E, distratto in quella lontananza, sentiva come vano il suo stesso affanno; e che non dovesse né potesse aver mai fine. Il silenzio di quelle tre stanzette quasi nude era tanto, che gli faceva perfino avvertire il ronzío del lume a petrolio tolto dalla sospensione e posato lí sulla tavola per vederci meglio: si toglieva le lenti dal naso; fissava con gli occhi socchiusi la fiamma e grosse lagrime allora gli pollavano dalle palpebre e piombavano sul libro aperto sotto il mento.

Dopo qualche tempo Rosa torna per aiutare Cesarino e Ninní. Il ritorno di Rosa porta ad un periodo di tranquillità e pace. Tutto sembra essere bene; il progresso sembra essere fatto.

E poi… crolla il mondo di Cesarino ancora una volta. Il Rocchi arriva, e la sua intenzione è quella di forzare Cesarino e Ninní vivere con lui. Non c’è posto per Rosa, dunque sarà spezzata ancora una volta la famiglia di Cesarino. Cesarino resiste il piano del Rocchi, ma senza alcun risultato: legalmente, il Rocchi è nel suo diritto di rivendicare entrambi i ragazzi.

Cesarino rimase al bujo, nella saletta, dietro la porta tutto vibrante dell’impeto violento che in lui, timido, debole, avevano fatto il rancore, l’onta, la paura di perdere il suo piccino adorato. Rimessosi alla meglio, andò a bussare all’uscio di Rosa, che s’era chiusa a chiave, col bimbo stretto tra le braccia.

– Ho capito! Ho capito! – gli disse Rosa.

– Voleva Ninní.

– Lui?

– Sí. E le sue ragioni, capisci? Vuol far valere…

– Lui? E chi può dar ragione a lui?

– È il padre. Ma mi può togliere forse Ninní ora? L’ho cacciato via, come un cane! Gli ho detto che… che m’ha ucciso la madre… e che l’ho raccolto io, il bambino… e che ora è mio, è mio; e nessuno me lo può strappare dalle braccia! Mio! Mio!… Guarda un po’… Miserabile… assa… assassino…

Cesarino decide di fornire così come può per Rosa.

Il giorno appresso, non ritornò a casa a mezzodí per il desinare. La vecchia Rosa non sapeva come spiegarsi quel ritardo. Verso le quattro, finalmente, lo vide arrivare ansante, livido, con una fissità truce negli occhi.

– Devo darglielo. M’hanno chiamato in questura. C’era anche lui. Ha mostrato le lettere di mia madre. È suo.

Disse cosí, a scatti, senza alzar gli occhi a guardare il bimbo, che Rosa teneva in braccio.

– Oh cuore mio! – esclamò questa, stringendosi al seno Ninní. – Ma come? Che ha detto? Come ha potuto la giustizia?…

– È il padre! È il padre! – rispose Cesarino. – Dunque è suo!

– E lei? – domandò Rosa. – Come farà lei?

– Io? Io, con lui. Ce n’andremo insieme.

– Con Ninní, da lui?

– Da lui.

– Ah, cosí?… tutt’e due insieme, allora? Ah, cosí va bene! Non lo lascerà… E io, signorino? Questa povera Rosa?

E poi… è ambiguo, ma penso che Cesarino commetta un suicidio-omicidio.

– Lo lascio qua? – domandò. – Tanto, se doman debbo ritornare…

– Sí, certo, – le rispose Cesarino. – E ora, eccoti: bacia Ninní… Bacialo, e addio.

Rosa si prese in braccio il piccino che guardava un po’ sbigottito; ma non poté in prima baciarlo:

bisognò che si sfogasse un pezzo, pur dicendo:

– È una sciocchezza piangere… perché domani… Ecco a lei, signorino… se lo prenda. E coraggio, eh? Un bacio anche a lei… A domani!

Se ne andò senza voltarsi indietro, soffocando i singhiozzi nel fazzoletto.

Subito Cesarino sprangò la porta. Si passò una mano su i capelli, che gli si drizzarono, irti. Andò a posare Ninní sul letto: gli mise in mano l’orologino d’argento, perché stesse quieto. Scrisse in gran fretta poche righe su un foglio di carta: la donazione a Rosa della povera suppellettile di casa. Poi scappò in cucina; preparò lesto lesto un buon fuoco; lo portò in camera; chiuse gli scuri, l’uscio e al lume della lampadina che la vecchia Rosa teneva sempre accesa davanti un’immagine della Madonna, si stese sul letto accanto a Ninní. Questo allora lasciò cadere sul letto l’orologino, e – al solito – alzò la mano per strappare dal naso al fratello le lenti. Cesarino, questa volta, se le lasciò strappare; chiuse gli occhi e si strinse il bimbo al petto:

– Quieto, ora, Ninní, quieto… Facciamo la nanna bellino, la nanna.

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