Riassunto: L’altro figlio

– C’è Ninfarosa?

– C’è. Bussate.

La vecchia Maragrazia bussò, e poi si calò a sedere pian piano sul logoro scalino davanti la porta.

Inizia così L’altro figlio (L. Pirandello), una descrizione della vita molto triste di un protagonista (straordinaria-perplessante) dopo un’esperienza terrificante.

La novella si svolge nella campagna siciliana vicino ad Agrigento. Secondo me la storia è disegnata di mostraci, in primo luogo, come una malattia mentale può avere una base razionale e che, in secondo luogo, se una malattia mentale rimane non trattata, può essere una fonte di un inflessibile dolore intenso e la disfunzione sociale. In un certo senso la novella cerchi di demistificare la malattia mentale (qualcosa che abbiamo visto il Pirandello tentare di fare prima). La storia è anche sorprendentemente rilevante ai tempi moderni, dato che affronta il tema d’immigrazione (anche se lo faccia dal punto di vista opposto della dilemma dell’Italia in questo momento.)

Il protagonista della novella è la vecchia Maragrazia, un’anima tormentata, una signora in estrema povertà.

Era la sua sedia naturale; quello, come tant’altri davanti le porte delle casupole di Fàrnia. Lí seduta, o dormiva o piangeva in silenzio. Qualcuno, passando, le buttava in grembo un soldo o un tozzo di pane; ella si scoteva appena dal sonno o dal pianto; baciava il soldo o il pane; si segnava, e riprendeva a piangere o a dormire.

Viene dato un ‘ritratto’ vivido di Maragrazia.

Pareva un mucchio di cenci. Cenci unti e grevi, sempre gli stessi, d’estate e d’inverno, strappati, sbrindellati, senza piú colore e impregnati di sudor puzzolente e di tutto il sudicio delle strade. La faccia giallastra era un fitto reticcio di rughe, in cui le palpebre sanguinavano, rovesciate, bruciate dal continuo lacrimare; ma, tra quelle rughe e quel sangue e quelle lagrime, gli occhi chiari apparivano come lontani, quelli d’un infanzia senza memorie. Ora, spesso, qualche mosca le si attaccava, vorace, a quegli occhi; ma ella era cosí sprofondata e assorta nella sua pena, che non l’avvertiva nemmeno; non la cacciava. I pochi capelli, aridi, spartiti sul capo, le terminavano in due nodicini pendenti su gli orecchi, i cui lobi erano strappati del peso degli orecchini massicci a pendaglio portati in gioventú. Dal mento, giú giú fin sotto la gola, la floscia giogaja era divisa da un solco nero che le sprofondava nel petto cavo.

C’è un posto nel paese in cui le donne si riuniscono ogni giorno per lavorare e socializzare. (Presumibilmente gli uomini lavorano nei campi o nelle zolfare, dove rimangono dal lunedi al venerdì, solo per tornare a casa nei fine settimana.) La vita dei paesani non è molto diversa da quella degli animali, cioè, gli paesani, a causa della loro situazione sociale, vivono in modo paragonabile alle bestie da soma.

Le vicine, messe a sedere su l’uscio, non le badavano piú. Stavano quasi tutto il giorno lí, e chi rattoppava panni, chi sceglieva legumi, chi faceva la calza, e insomma, tutte occupate in qualche lavoro; conversavano davanti a quelle loro casupole basse, che prendevano luce dall’uscio; case e stalle insieme, dal pavimento acciottolato come la strada; e di qua la mangiatoja, dove qualche asinello o qualche mula scalpitavano, tormentati dalle mosche; di là, il letto alto, monumentale; e poi una lunga cassapanca nera, d’abete o di faggio, che pareva una bara; e due o tre seggiole impagliate; la madia; e poi, attrezzi rurali. Su le pareti grezze, fuligginose, per unico ornamento, certe stampacce da un soldo, che volevano raffigurare i santi del paese. Per la strada intanfata di fumo e di stalla ruzzavano ragazzi cotti dal sole, alcuni ignudi nati, altri con la sola camicina, a brendoli, sudicia; e le galline razzolavano, e grugnivano, soffiando col grifo tra la spazzatura , i porcellini cretacei.

Verso l’inizio della novella apprendiamo che molti dei paesani hanno deciso di immigrare dalla Sicilia all’America in cerca di una vita migliore. Questa è una benedizione mista. Per esempio, in cambio dei posti di lavoro e denaro, coloro che scelgono di immigrare devono lasciarsi alle spalle un intero modo di vivere (cioè, gli abitudini, la lingua, il cibo, ecc), per non parlare del fatto che i loro legami con la famiglia e gli amici sono irrevocabilmente interrotti.

Inoltre, il marito spesso immigra prima, lasciando dietro la moglie.

Quel giorno si parlava della nuova comitiva d’emigranti che la mattina dopo doveva partire per l’America.

– Parte Saro Scoma, – diceva una. – Lascia la moglie e tre figliuoli.

– Vito Scordía, – soggiungeva un’altra, – ne lascia cinque e la moglie gravida.

– È vero che Càrmine Ronca, – domandava una terza, – se lo porta con sé il figliuolo di dodici anni, che già andava alla zolfara? Oh Santa Maria, il ragazzo, almeno, avrebbe potuto lasciarglielo alla moglie. Come farà quella povera cristiana, ora, a darsi ajuto?

– Che pianto, che pianto, – gridava lamentosamente una quarta piú là, – tutta la notte, in casa di Nunzia Ligreci! Il figlio Nico, tornato appena da soldato, vuol partire anche lui!

(Questo era certamente il caso per i miei nonni paterni: mio nonno è immigrato dalla Calabria all’America nel 1900, mentre mia nonna l’ha seguito nel 1903.)

Maragrazia è cronicamente e potentemente triste. Lei sembra incapace di controllare le sue emozioni.

Udendo queste notizie, la vecchia Maragrazia si turava la bocca con lo scialle per non scoppiare in singhiozzi. La foga del dolore le rompeva però, dagli occhi sanguigni, in lagrime senza fine.

Maragrazia è una vedova; i suoi due figli sono immigrati per l’America 14 anni fa. Nonostante le promesse per rimanere in contatto, lei non ha ricevuto nessun comunicazione da parte dei ragazzi. Maragrazia è ossessivamente determinta a contattare i figli. Quindi invia una lettera a loro ogni volta che un gruppo dei paesani partono per l’America. (Questo non è così peregrina come può sembrare, dato che l’abitudine degli immigrati italiani vivere insieme in America, in sostanza ricreando il paese che hanno lasciato.)

A questo punto della novella, il trauma alla vita degli immigrati e dei loro cari è potentemente descritto:

Da quattordici anni erano partiti anche a lei per l’America due figliuoli; le avevano promesso di ritornare dopo quattro o cinque anni; ma avevano fatto fortuna laggiú, specialmente uno, il maggiore, e si erano dimenticati della vecchia mamma. Ogni qual volta una nuova comitiva di emigranti partiva da Fàrnia, ella si recava da Ninfarosa, perché le scrivesse una lettera, che qualcuno dei partenti doveva per carità consegnare nelle mani dell’uno o dell’altro di quei figliuoli. Poi seguiva per un lungo tratto dello stradone polveroso la comitiva, che si recava, sovraccarica di sacchi e di fagotti, alla stazione ferroviaria della prossima città, fra le madri, le spose e le sorelle che piangevano, disperate; e, camminando, guardava affitto affitto gli occhi di questo o di quel giovane emigrante che simulava una romorosa allegria per soffocare la commozione e stordire i parenti che lo accompagnavano.

Come abbiamo visto prima, Maragrazia non può controllare né le sue emozioni né le sue ossessioni. (Per il lettore è difficile immaginare che era così per 14 anni!) Quando chiede a qualcuno di trasportare e consegnare una lettera per lei, sta facendo la richiesta in un momento di grande stress e tristezza (vedete sopra), che lei non sembra riconoscere.

Maragrazia può essere profondamente triste ma infatti non sembra essere disperata. Invece, lei sembra essere un combattente. All’inizio della novella Il Pirandello ci sembra di segnalare che Maragrazia probabilmente non suicidarsi.

– Vecchia matta, – qualcuno le gridava. – O perché mi guardate cosí? Vorreste cavarmi gli occhi?

– No, bello, te li invidio! – gli rispondeva la vecchia – Perché tu li vedrai i miei figliuoli. Di’ loro come m’hai lasciata; che non mi ritroveranno piú, se tardano ancora.

Poi il lettore apprende un altro punto di vista per quanto riguarda l’immigrazione, cioè, come la perdita dei paesani intensificherà ulteriormente la povertà di loro che rimangono.

Intanto là le comari del vicinato seguitavano a fare il conto di quelli che partivano il giorno appresso. A un tratto un vecchio dalla barba e dai capelli lanosi, che se n’era stato finora zitto ad ascoltare, steso a pancia all’aria e fumando la pipa in fondo alla straducola, rizzò il capo che teneva appoggiato a una bardella d’asino, e, posandosi le grosse mani rocciose sul petto:

– S’io fossi re, – disse, e sputò, – s’io fossi re, nemmeno una lettera farei piú arrivare a Fàrnia da laggiú.

Avanti incontriamo Ninfarosa, una dei paesani più ricca.

A questo punto, Ninfarosa schiuse la porta, e parve spuntasse il sole in quella stradetta.

Bruna e colorita, dagli occhi neri, sfavillanti, dalle labbra accese, da tutto il corpo solido e svelto, spirava una allegra fierezza. Aveva sul petto colmo un gran fazzoletto di cotone rosso, a lune gialle, e grossi cerchi d’oro agli orecchi. I capelli corvini, lucidi, ondulati, volti indietro senza scriminatura le si annodavano voluminosamente sulla nuca attorno a uno spadino d’argento. Nel mento rotondo, una fossetta acuta nel mezzo le dava una grazia maliziosa e provocante.

Il marito di Ninfarosa è immigrato all’America cinque anni fa, e lei ha preso un amante.

Vedova d’un primo marito, dopo appena due anni di matrimonio, era stata abbandonata dal secondo, partito per l’America cinque anni addietro. Di notte – nessuno doveva saperlo – dalla porticina posta sul dietro della casa dov’era l’orto, qualcuno (un pezzo grosso del paese) veniva a visitarla. Perciò le vicine, oneste e timorate, la vedevano di mal’occhio, quantunque in segreto poi la invidiassero. Gliene volevano anche, perché in paese si diceva che, per vendicarsi dell’abbandono del secondo marito, aveva scritto parecchie lettere anonime agli emigrati in America, calunniando e infamando alcune povere donne.

Quello che segue è un divertente conversazione (un po’ ribaldo) tra Ninfarosa e Jaco Spina. Ognuno riceve quello che si merita! La conversazione è di circa la vita quotidiana (cioè, i rimpianti, la tristezza e le perdita), e come affrontarla.

– Chi predica cosí? – disse, scendendo su la via. – Ah, Jaco Spina! Meglio, zio Jaco, se restiamo a Fàrnia noi soli! Zapperemo noi donne la terra.

– Voi donne, – brontolò di nuovo il vecchio con voce catarrosa, – per una cosa sola siete buone. E sputò.

– Per che cosa, zio Jaco? Dite forte.

– Piangere e un’altra cosa.

– E dunque per due, allegramente! Io non piango però, vedete?

– Eh, lo so, figlia. Non piangesti neppure quando ti morí il primo marito!

Poi la conversazione si sposta a Maragrazia; il seguente è uno scambio tra Ninfarosa e Maragrazia. Ninfarosa ha chiaramente perso l’empatia per lei; al contrario, Maragrazia parla ostinatamente la sua mente.

– Ma se morivo prima io, zio Jaco, – ribatté pronta Ninfarosa, – non avrebbe forse ripreso moglie, lui? Dunque! Vedete chi piange qua per tutti? Maragrazia.

– Questo dipende, – sentenziò Jaco Spina, sdrajandosi di nuovo a pancia all’aria, – perché la vecchia ha acqua da buttar via, e la butta anche dagli occhi.

Le vicine risero. Maragrazia si scosse ed esclamò:

– Due figli ho perduto, belli come il sole, e volete che non pianga?

– Belli davvero, oh! E da piangerli, – disse Ninfarosa. – Nuotano nell’abbondanza, laggiú, e vi lasciano morire qua, mendica.

– Loro sono i figli e io sono la mamma, – replicò la vecchia. – Come possono capirla la mia pena?

– Ih! Io non so perché tante lagrime e tanta pena, – riprese Ninfarosa, – quando voi stessa, a quel che dicono, li faceste scappar via per disperati.

– Io? – esclamò Maragrazia, dandosi un pugno sul petto e sorgendo in piedi, trasecolata. – Io? Chi l’ha detto?

– Chi si sia, l’ha detto.

– Infamità! Io? Ai figli miei? Io, che…

– Lasciatela perdere! – la interruppe una delle vicine. – Non vedete che scherza?

(Inizialmente, questo possa sembrare un po’ strano: come può Maragrazia singhiozzare inconsolabilmente, giorno dopo giorno, e poi impegnarsi Ninfarosa come fa qui?)

Infine Ninfarosa chiede Maragrazia perché ha bussato alla porta. (Come se lei non lo sapeva!) Apprendiamo che Maragrazia non può né leggere né scrivere, e quindi si dipende dagli altri per creare le lettere per i suoi figli. (Penso che la dipendenza di Maragrazia sugli altri aggiunga alla percezione che lei è ‘pazza’.)

– Sú, sú, nonnetta mia, che volete?

Maragrazia si cacciò in seno la mano tremolante e ne trasse fuori un foglietto di carta tutto gualcito e una busta; mostrò l’uno e l’altra, con aria supplichevole, a Ninfarosa, e disse:

– Se vuoi farmi la solita carità…

– Ancora una lettera?

– Se vuoi…

Ninfarosa sbuffò; ma poi, sapendo che non se la sarebbe levata d’addosso, la invitò a entrare.

La sua casa non era come quelle del vicinato. La vasta camera, un po’ buja quando la porta era chiusa, perché prendeva luce allora soltanto da una finestra ferrata che s’apriva su la porta stessa, era imbiancata, ammattonata, pulita e ben messa, con una lettiera di ferro, un armadio, un cassettone dal piano di marmo, un tavolino impiallacciato di noce: mobilia modesta, ma di cui tuttavia si capiva che Ninfarosa non avrebbe potuto da sola pagarsi il lusso, coi suoi guadagni molto incerti di sarta rurale.

Prese la penna e il calamajo, posò il foglietto gualcito sul piano del cassettone e si dispose a scrivere, lí in piedi.

– Dite sú, sbrigatevi!

– Cari figli – cominciò a dettare la vecchia.

– Io non ho piú occhi per piangere… – seguitò Ninfarosa, con un sospiro di stanchezza.

E la vecchia:

– Perché gli occhi miei sono abbruciati di vedervi almeno per l’ultima volta…

– Avanti, avanti! – la incitò Ninfarosa. – Questo gliel’avete scritto, a dir poco, una trentina di volte.

Ormai il lettore ha la sensazione che la malattia mentale (e la disfunzione sociale risultante) possiano aver portato Maragrazia ad una vita di estrema povertà. D’altra parte la sua personalità è affascinante perché è una combattente: i suoi figli probabilmente hanno i soldi e lei vuole l’assistenza.

– E tu scrivi. È la verità, cuore mio, non vedi? Dunque, scrivi: Cari figli…

– Daccapo?

– No. Adesso un’altra cosa. Ci ho pensato tutta stanotte. Senti: Cari figli, la povera vecchia mamma vostra vi promette e giura… cosí, vi promette e giura davanti a Dio che, se voi ritornate a Fàrnia, vi cederà in vita il suo casalino.

Ninfarosa scoppiò a ridere:

– Pure il casalino? Ma che volete che se ne facciano, se già sono ricchi, di quei quattro muri di creta e canne che crollano a soffiarci sú?

– E tu scrivi, – ripeté la vecchia, ostinata. – Valgono piú quattro pietruzze in patria, che tutto un regno fuorivia. Scrivi, scrivi.

– Ho scritto. Che altro volete aggiungere?

– Ecco, questo: che la vostra povera mamma, cari figli, ora che l’inverno è alle porte, trema di freddo; vorrebbe farsi un vestitino e non può; che vogliate farle la carità di mandarle almeno una carta da cinque lire, per…

Dopo aver pagato Ninfarosa per il suo servizio, Maragrazia prende la lettera e lascia di trovare qualcuna che lo porterà in America. Cala la sera e Maragrazia ha ancora la lettera. Lei è molto preoccupata, infatti, a causa di una possibilità che la parte termina della lettera, in cui ha chiesto per qualche aiuto finanziario, non è stato trascritto pienamente-fedelmente.

La vecchia Maragrazia andava curva, premendosi con una mano sul seno la lettera da mandare ai figliuoli, come per comunicare a quel pezzo di carta il suo calore materno. Con l’altra, o si grattava a una spalla, o si grattava in testa. A ogni nuova lettera, le rinasceva prepotente la speranza, che con quella sarebbe alla fine riuscita a commuovere e a richiamare a sé i figliuoli. Certo, leggendo quelle sue parole, pregne di tutte le lagrime versate per loro in quattordici anni, i suoi figliuoli belli, i suoi dolci figliuoli non avrebbero piú saputo resistere.

Ma questa volta, veramente, non era molto soddisfatta della lettera che recava in seno. Le pareva che Ninfarosa l’avesse buttata giú troppo in fretta, e non era neanche ben sicura che ci avesse proprio messo l’ultima parte, delle cinque lire per il vestitino. Cinque lire! Che guasto avrebbero fatto ai suoi figliuoli, già ricchi, cinque lire, per vestire le carni della loro vecchia mamma infreddolita?

Per caso Maragrazia incontra il medico del paese. Lui è giovane e molto intelligente, ma non ancora completamente accettato nel paese.

Ah, era il nuovo medico condotto, quel giovine venuto da poco, ma che presto – a quanto dicevano – sarebbe andato via, non perché avesse fatto cattiva prova, ma perché malvisto dai pochi signorotti del paese. Tutti i poveri, invece, avevano preso subito a volergli bene. Sembrava un ragazzo, a vederlo; eppure era proprio vecchio di senno, e dotto: faceva restar tutti a bocca aperta, quando parlava. Dicevano che anche lui voleva partire per l’America. Ma non aveva piú la mamma, lui: era solo!

Per controllare il contenuto della sua lettera, Maragrazia chiede al medico di leggere la lettera ad alta voce. Tuttavia la carta, ad eccezione di alcuni scarabocchi, è vuoto!

Alla fine, disse:

– Ma che è?

– Non si legge? – domandò timidamente Maragrazia.

Il dottore si mise a ridere.

– Ma qua non c’è scritto nulla, – disse. – Quattro sgorbii, tirati giú con la penna, a zig-zag. Guardate.

Maragrazia lamenta, sinceramente, appassionatamente:

Maragrazia rimase come un ceppo; poi si diede un gran pugno sul petto:

– Ah, infamaccia! – proruppe. – E perché m’ha ingannata cosí? Ah, per questo, dunque, i miei figli non mi rispondono! Dunque, nulla! Mai nulla ha scritto loro di tutto quello che io le ho dettato… Per questo! Dunque non ne sanno niente i figli miei, del mio stato? Che io sto morendo per loro? E io li incolpavo, signor dottore, mentr’era lei, quest’infamaccia qua, che si è sempre burlata di me… Oh Dio! Oh Dio! E come si può fare un simile tradimento a una povera madre, a una povera vecchia come me? O oh, che cosa! Oh…

Commosso dall’angoscia apparente di Maragrazia, il medico, che è relativamente nuovo nel paese e quindi a conoscenza di ciò che passa per ‘la conoscenza comune’ decide d’indagare ulteriormente l’inganno crudele di Nifarosa.

Impariamo poi ulteriori informazioni sulla malattia mentale di Maragrazia. È probabile che la sua depressione e l’ansia le impediscano di dormire la notte. In primo luogo, questo passaggio:

– Sú, sú, non vi disperate cosí! Verrete domattina da me. A dormire, adesso! Andate a dormire.

Ma che dormire! Circa due ore dopo, il dottore, ripassando per quella straducola, la ritrovò ancora lí, che piangeva, inconsolabile, accosciata sotto il lampioncino. La rimproverò, la fece levare, le ingiunse d’andar subito a casa, subito, perché era notte.

– Dove state?

– Ah, signor dottore… Ho un casalino, qua sotto, all’uscita del paese. Avevo detto a quell’infamaccia di scrivere ai figli miei che lo avrei loro ceduto in vita, se volevano ritornare. S’è messa a ridere, svergognata! Perché sono quattro muretti di creta e canne. Ma io…

E poi questo:

All’alba, dormiva, quando il dottore, ch’era mattiniero uscí per le prime visite. Essendo il portoncino a un solo battente, nell’aprirlo, si vide cadere ai piedi la vecchia dormente, che vi stava appoggiata.

– Ohé! Voi! Vi siete fatta male?

– Vo… vossignoria mi perdoni, – balbettò Maragrazia, ajutandosi, con ambo le mani, avviluppate nello scialle, a rizzarsi.

– Avete passato qua la notte?

– Sissignore… È niente, ci sono avvezza, – si scusò la vecchia. – Che vuole, signorino mio? Non mi so dar pace… non mi so dar pace del tradimento di quella scellerata! Mi verrebbe d’ammazzarla, signor dottore! Poteva dirmi che le seccava scrivere, sarei andata da un altro; sarei venuta da vossignoria, che è tanto buono…

(Infatti l’insonnia può essere un fattore nel progressivo peggioramento della sua malattia mentale.)

Il medico confronta Ninfarosa. Lei gli spiega che non è l’unica del paese che manca l’empatia per Maragrazia. In primo luogo, è stato 14 anni da quando i suoi figli sono immigrati e Maragrazia non possono ancora controllare le sue emozioni. Secondo, lei è bisognoso (un parassita). Terzo, è rimasta indigente (invece di trovare un modo per guadagnare soldi). E quarto, lei non è l’unico paesano per cui la famiglia è stata distrutta per l’immigrazione. Infatti Ninfarosa ha la sua storia terribile da raccontare.

– Ma scusi tanto, signor dottore, – disse, socchiudendo i begli occhi neri, – lei s’affligge sul serio per quella vecchia matta? Qua in paese la conoscono tutti, signor dottore, e non le bada piú nessuno. Lei domandi a chi vuole, e tutti le diranno che è matta, da quattordici anni, sa? Da che le sono partiti quei due figliuoli per l’America. Non vuole ammettere che essi si siano scordati di lei, com’è la verità, e s’ostina a scrivere, a scrivere… Ora, tanto per contentarla, capisce? Io fingo… cosí, di farle la lettera; quelli che partono, poi, fingono di prendersela per recapitarla. E lei, poveraccia, s’illude. Ma se tutti dovessimo far come lei, a quest’ora, signor dottore mio, non ci sarebbe piú mondo. Guardi, anch’io che le parlo sono stata abbandonata da mio marito… Sissignore! E sa che coraggio ha avuto questo bel galantuomo? Di mandarmi un ritratto di lui e della sua bella di laggiú! Glielo posso far vedere. Stanno tutti e due con le teste, l’una appoggiata all’altra e le mani afferrate cosí, permette? Mi dia la mano… cosí! E ridono, ridono in faccia a chi li guarda: in faccia a me vuol dire. Ah, signor dottore, tutta la pietà è per chi parte e per chi resta niente! Ho pianto anch’io, si sa, nei primi tempi; ma poi mi sono fatta una ragione, e ora… ora tiro a campare e a spassarmela anche, se mi capita, visto che il mondo è fatto cosí!

Alla fine il medico arriva a capire che Ninfarosa è una persona ragionevole, cioè, una personna con i reclami e le prospettive validi. Infine Ninfarosa spiega che il comportamento di Maragrazia è particolarmente difficile da spiegare dato che Maragrazia ha un terzo figlio che vive nelle vicinanze!

Ninfarosa, nel vedergli quel bel faccino stupito, scoppiò a ridere, scoprendo i denti forti e bianchi, che davano al suo sorriso la bellezza splendida della salute.

– Ma sí! – disse. – Non vuole, signor dottore! Ha un altro figlio qua, l’ultimo, che la vorrebbe con sé e non le farebbe mancare mai nulla.

– Un altro figlio? Lei?

– Sissignore. Si chiama Rocco Trupía. Non vuole saperne.

– E perché?

– Perché è proprio matta, non glielo dico? Piange giorno e notte per quei due che l’hanno abbandonata, e non vuole accettare neanche un tozzo di pane da quest’altro che la prega a mani giunte. Dagli estranei, sí.

Colpito da questa rivelazione, il medico cerca una spiegazione razionale perché Maragrazia non ha trovato conforto in compagnia del suo terzo figlio. Alla fine lui decide d’andare a casa del figlio.

La campagna attorno la casa del figlio è vividamente descritto.

Superata l’erta, il dottore si fermò, per riprender fiato. Poche altre povere casette di qua e di là e il paese finiva; la viuzza immetteva nello stradone provinciale, che correva diritto e polveroso per piú d’un miglio sul vasto altipiano, tra le campagne: terre di pane, per la maggior parte, gialle ora di stoppie. Un magnifico pino marittimo sorgeva a sinistra, come un gigantesco ombrello, meta ai signorotti di Fàrnia delle consuete loro passeggiate vespertine. Una lunga giogaja di monti azzurrognoli limitava, in fondo in fondo, l’altipiano; dense nubi candenti, bambagiose, stavano dietro ad essi come in agguato: qualcuna se ne staccava, vagava lenta pel cielo, passava sopra Monte Mirotta, che sorgeva dietro Fàrnia. A quel passaggio, il monte s’invaporava d’un’ombra cupa, violacea, e subito si rischiarava. La quiete silentissima della mattina era rotta di tratto in tratto dagli spari dei cacciatori al passo delle tortore o alla prima entrata delle allodole; seguiva a quegli spari un lungo, furibondo abbajare dei cani di guardia.

…com’è la casa e la famiglia di Rocco Trupía, il terzo figlio

Sul murello davanti la roba stava seduta la madre, che pettinava la figliuola maggiore, la quale poteva aver presso a dodici anni, seduta su un secchio di latta, con un bambinello di pochi mesi su le ginocchia. Un altro bambino ruzzava per terra, tra le galline che non lo temevano, a dispetto d’un bel gallo che, impettito, drizzava il collo e scoteva la cresta.

– Vorrei parlare con Rocco Trupía, – disse il giovane dottore alla donna. – Sono il nuovo medico del paese.

La donna rimase un tratto a guardarlo, turbata, non comprendendo che cosa potesse volere quel medico da suo marito. Si cacciò la camicia ruvida dentro il busto, che le era rimasto aperto da che aveva finito d’allattare il piccino, se lo abbottonò e si levò in piedi per offrire una sedia. Il medico non la volle, e si chinò a carezzare il bamboccetto per terra, mentre l’altro ragazzo scappava a chiamare il padre.

…com’è la descrizione di Rocco Trupía se stesso.

Poco dopo s’intese lo scalpiccío di grossi scarponi imbullettati, e, di tra i fichidindia, apparve Rocco Trupía, che camminava curvo, con le gambe larghe ad arco, e una mano alla schiena, come la maggior parte dei contadini.

Il naso largo, schiacciato, e la troppa lunghezza del labbro superiore, raso, rilevato, gli davano un aspetto scimmiesco; era rosso di pelo, e aveva la pelle del viso pallida e sparsa di lentiggini; gli occhi verdastri, affossati, gli guizzavano a tratti di torvi sguardi, sfuggenti.

Sollevò una mano per spingere un po’ indietro su la fronte la berretta nera, a calza, in segno di saluto.

– Bacio le mani a vossignoria. Che comandi ha da darmi?

Una volta che capisce il motivo del il medico, il Trupía offre una spiegazione parziale: infatti ama sua madre, ha offerto sua mamma un posto d’onore nella sua casa ma lei ha rifiutato. Anzi Maragrazia ha tagliato tutte le comunicazioni con il Trupía da quando è nato (lei gli ha dato in adozione).

– Venga qua, signor dottore, – saltò sú a dire Rocco Trupía improvvisamente, additando la porta della roba. – Casa da poverelli, ma se vossignoria fa il medico, chi sa quante altre ne avrà vedute. Le voglio mostrare il letto pronto sempre e apparecchiato per quella… buona vecchia: è mia madre, non posso chiamarla altrimenti. Qua c’è mia moglie, ci sono i miei figliuoli: possono attestarle com’io abbia loro comandato di servire, di rispettare quella vecchia come Maria Santissima. Perché la mamma è santa, signor dottore! Che ho fatto io a questa madre? Perché deve svergognarmi cosí davanti a tutto il paese e lasciar credere di me chi sa che cosa? Io sono cresciuto, signor dottore, coi parenti di mio padre, è vero, fin da bambino; non dovrei rispettarla come madre, perché essa è sempre stata dura con me; eppure l’ho rispettata e le ho voluto bene. Quando quei figliacci partirono per l’America, subito corsi da lei per prendermela e portarmela qua, come la regina della mia casa. Nossignore! Deve far la mendica, per il paese, deve dare questo spettacolo alla gente e quest’onta a me! Signor dottore, Le giuro che se qualcuno di quei suoi figliacci ritorna a Fàrnia, io lo ammazzo per quest’onta e per tutte le amarezze che da quattordici anni soffro per loro: lo ammazzo, com’è vero che sto parlando con Lei, in presenza di mia moglie e di questi quattro innocenti!

Fremente, piú che mai sbiancato in volto, Rocco Trupía si forbí la bocca schiumosa col braccio. Gli occhi gli s’erano iniettati di sangue.

Inoltre… gli altri due figli sembrano essere indegno della preoccupazione di Maragrazia!

– Ma ecco – poi disse, – perché vostra madre non vuole accettare l’ospitalità che le offrite: per codesto odio che nutrite contro i vostri fratelli! È chiaro.

– Odio? – fece Rocco Trupía serrando le pugna indietro e protendendosi. – Ora sí, odio, signor dottore, per quello che hanno fatto patire alla loro madre e a me! Ma prima, quando erano qua, io li amavo e rispettavo come fratelli maggiori. E loro, invece, due Caini per me! Ma senta: non lavoravano, e lavoravo io per tutti; venivano qua a dirmi che non avevano da cucinare la sera; che la mamma se ne sarebbe andata a letto digiuna, e io davo; s’ubriacavano, scialacquavano con le donnacce, e io davo; quando partirono per l’America, mi svenai per loro. Qua c’è mia moglie che glielo può dire.

La domanda, “Perché?” (cioè, “Perché Maragrazia comportarsi in questo modo?”) rimane senza risposta.

Il dottore ritorna al villaggio e si confronta Maragrazia. Poi spega.

– Nulla, m’ha fatto, – s’affrettò a rispondere la vecchia. – Questo debbo riconoscerlo, in coscienza! Anzi, m’è sempre venuto appresso, rispettoso… Ma io… vede come tremo, signorino mio, appena ne parlo? Non ne posso parlare! Perché quello lí, signor dottore, non è figlio mio!

Il giovane medico perdette la pazienza, proruppe:

– Ma come non è figlio vostro? Che dite? Siete stolida o matta davvero? Non l’avete fatto voi?

La vecchia chinò il capo, a questa sfuriata, socchiuse gli occhi sanguigni, rispose:

– Sissignore. E sono stolida, forse. Matta, no. Dio volesse! Non penerei piú tanto. Ma certe cose vossignoria non le può sapere, perché è ancora ragazzo. Io ho i capelli bianchi, sto a penare da tanto tempo io, e n’ho viste! N’ho viste! Ho visto cose, signorino mio, che vossignoria non si può nemmeno immaginare.

Quali cose? Per un lettore moderno, loro sono infatti unimmaginabli atti indicibili di violenza. (Unimmaginabli? Purtroppo, non sono così unimmaginabili nel mondo di oggi.)

– C’entra, perché vossignoria deve sapere che questo Canebardo diede ordine, quando venne, che fossero aperte tutte le carceri di tutti i paesi. Ora, si figuri vossignoria che ira di Dio si scatenò allora per le nostre campagne! I peggiori ladri, i peggiori assassini, bestie selvagge, sanguinarie, arrabbiate da tanti anni di catena… Tra gli altri ce n’era uno, il piú feroce, un certo Cola Camizzi, capobrigante, che ammazzava le povere creature di Dio, cosí, per piacere, come fossero mosche, per provare la polvere – diceva, – per vedere se la carabina era parata bene. Costui si buttò in campagna, dalle nostre parti. Passò per Fàrnia, con una banda che s’era formata, di contadini; ma non era contento, ne voleva altri, e uccideva tutti quelli che non volevano seguirlo. Io ero maritata da pochi anni e avevo già quei due figliucci, che ora sono laggiú, in America, sangue mio! Stavamo nelle terre del Pozzetto che mio marito, sant’anima, teneva a mezzadria. Cola Camizzi passò di là e si trascinò via anche lui, mio marito, a viva forza. Due giorni dopo, me lo vidi ritornare come un morto; non pareva piú lui; non poteva parlare, con gli occhi pieni di quello che aveva veduto, e si nascondeva le mani, poveretto, per il ribrezzo di ciò ch’era stato costretto a fare… Ah, signorino mio, mi si voltò il cuore in petto quando me lo vidi davanti cosí: “Nino mio!” gli gridai (sant’anima!) “Nino mio, che hai fatto?” Non poteva parlare. “Te ne sei scappato? E se ti riafferrano, ora? Ti ammazzeranno!” Il cuore, il cuore mi parlava. Ma egli, zitto, sedette vicino al fuoco, sempre con le mani nascoste cosí, sotto la giacca, gli occhi da insensato, e stette un pezzo a guardare verso terra; poi disse “Meglio morto!”. Non disse altro. Stette tre giorni nascosto; al quarto uscí: eravamo poverelli, bisognava che lavorasse. Uscí per lavorare. Venne la sera; non tornò… Aspettai, aspettai, ah Dio! Ma già lo sapevo me l’ero immaginato. Pure pensavo: “Chi sa! Forse non l’hanno ammazzato; forse se lo sono ripreso!”. Venni a sapere, dopo sei giorni, che Cola Camizzi si trovava con la sua banda nel feudo di Montelusa, che era dei Padri Liguorini, scappati via. Ci andai, come una pazza. C’erano, dal Pozzetto, piú di sei miglia di strada. Era una giornata di vento, signorino mio, come non ne ho piú viste in vita mia. Si vede il vento? Eppure quel giorno si vedeva! Pareva che tutte le anime degli assassinati gridassero vendetta. Agli uomini e a Dio. Mi misi in quel vento, tutta strappata, ed esso mi portò: gridavo piú di lui. Volai: ci avrò messo appena un’ora ad arrivare al convento, che stava lassú lassú, tra tante pioppe nere. C’era un gran cortile, murato. Vi s’entrava per una porticina piccola piccola, da una parte, mezzo nascosta, ricordo ancora, da un gran cespo di capperi radicato su, nel muro. Presi una pietra, per bussare piú forte; bussai, bussai; non mi volevano aprire; ma tanto bussai, che finalmente m’aprirono. Ah, che vidi!

A questo punto, Maragrazia si levò in piedi, stravolta dall’orrore, con gli occhi sanguigni sbarrati, e allungò una mano con le dita artigliate dal ribrezzo. Le mancò la voce in prima, per proseguire.

– In mano… – poi disse, – in mano… quegli assassini…

S’arrestò di nuovo, come soffocata, e agitò quella mano, quasi volesse lanciare qualcosa.

– Ebbene? – domandò il dottore, allibito.

– Giocavano… là, in quel cortile… alle bocce… ma con teste d’uomini… nere, piene di terra… le tenevano acciuffate pei capelli… e una, quella di mio marito… la teneva lui, Cola Camizzi… e me la mostrò. Gettai un grido che mi stracciò la gola e il petto, un grido cosí forte, che quegli assassini ne tremarono; ma, come Cola Camizzi mi mise le mani al collo per farmi tacere, uno di loro gli saltò addosso, furioso; e allora, quattro, cinque, dieci, prendendo ardire da quello, gli s’avventarono contro, se lo presero in mezzo. Erano sazii, rivoltati anche loro della tirannia feroce di quel mostro, signor dottore, e io ebbi la soddisfazione di vederlo scannato lí, sotto gli occhi miei, dai suoi stessi compagni, cane assassino!

Questo, dunque, è la probabile eziologia della malattia mentale di Maragrazia: lei non sia stata mai in grado di riprendersi dallo shock di testimoniare tale brutalità.

Abbiamo poi a sapere che il padre di Rocco Trupía, Marco Trupía, era il bandito che ha iniziato la ribellione contro Cola Camizzi. Dopo l’omicidio del Camizzi, Maragrazia aveva una relazione con Marco Trupía; rimase incinta e diede alla luce Rocco.

– Aspetti, – rispose la vecchia, appena poté riprender fiato. – Quello che prima si ribellò, quello che prese le mie difese, si chiamava Marco Trupía.

– Ah! – esclamò il medico. – Dunque, questo Rocco…

Ma Maragrazia non poteva sopportare l’idea di vivere con un figlio che le ricordava gli eventi che circondano la morte del marito, così lei ha rinunciato Rocco al momento della nascita. Poi, Rocco ha diventato un uomo che assomiglia molto a suo padre e lei non riusciva a sopportare la vista di suo figlio adulto.

– Suo figlio, – rispose Maragrazia. – Ma pensi, signor dottore, se io potevo esser la moglie di quell’uomo dopo quanto avevo visto! Mi volle per forza; tre mesi mi tenne con sé, legata, imbavagliata, perché io gridavo, lo mordevo… Dopo tre mesi, la giustizia venne a scovarlo là e lo richiuse in galera, dove morí poco dopo. Ma rimasi incinta. Ah, signorino mio, Le giuro che mi sarei strappate le viscere: mi pareva che stessi a covarci un mostro! Sentivo che non me lo sarei potuto vedere tra le braccia. Al solo pensiero che avrei dovuto attaccarmelo al petto, gridavo come una pazza. Fui per morire, quando lo misi alla luce. Mi assisteva mia madre, sant’anima, che non me lo fece neanche vedere: lo portò subito dai parenti di lui, che lo allevarono… Ora non Le pare, signor dottore ch’io possa dire davvero ch’egli non è figlio mio?

Questi sembrano essere ragionevoli spiegazioni in luce delle esperienze di Maragrazia e la sua malattia. Lei è una donna buona. Infatti, tutti i personaggi della storia sono onorevoli e ragionevoli al loro modo. Hanno sofferto in questa vita, ma non hanno rinunciato. Sono tutti sopravvissuti.

Attese un po’, asciugandosi gli occhi col dorso delle mani; poi, temendo che la comitiva degli emigranti partisse da Fàrnia senza la lettera per i suoi figliuoli veri, per i suoi figliuoli adorati, si fece coraggio e disse al dottore ancora assorto:

– Se vossignoria volesse farmi la carità che mi ha promesso…

E come il dottore, riscotendosi, le disse che era pronto si accostò con la seggiola alla scrivania e, ancora una volta, con la stessa voce di lagrime, cominciò a dettare:

– Cari figli…

Leave a comment