Riassunto: Va bene

Capitolo 1 STATO DI SERVIZIO

(fino addí 5 marzo del 1904).

A Sorrento, da Corvara Francesco Aurelio e Florida Amidei, nella notte dal 12 al 13 febbrajo dell’anno 1861, nasce Cosmo Antonio Corvara Amidei, e subito è accolto male: a sculacciate; preso per i piedi dalla levatrice e tenuto per qualche momento a testa giú, perché, quasi strozzato a causa delle doglie stanche della madre, è entrato nel mondo senza strillare.

Botte, finché non strilla.

Entrando, bisogna strillare.

Un capolavoro tragicomico, Va bene (L. Pirandello) è un avvertimento duro su come funziona il mondo moderno… un avvertimento specialmente a coloro che sono troppo timidi per impegnarsi il mondo in una maniera efficace.  Sia possibile riassumere il messaggio centrale della novella così: “Nasciamo senza portare nulla, moriamo senza portare via nulla, ed in mezzo dobbiamo litigare per possedere qualcosa.”

La novella è diviso in tre capitoli. Il primo capitolo (“Stato di servizio”) racconta alcuni eventi dagli 43 anni della vita di Cosmo Antonio Corvara Amidei, il protagonista. La novella inizia con una descrizione della nascita del Corvara Amidei: il travaglio e il parto sono stati complicati da eccessivo dolore ed, eventualmente, l’esaurimento della mamma. Il Corvara Amidei è nato senza respirazione, ed c’è stato bisogno di ravvivarlo da sculacciato (mentre è stato tenuto a testa in giù).

L’infanzia del Corvara Amidei era caratterizzata dalle comuni malattie infantili (forse: morbillo, parotite e rosolia). È contraddistinta, tuttavia, la sua vita da una serie degli incidenti mentre era nella cura delle balie — tra cui una scottatura (“…lo tuffa nell’acqua ancor quasi bollente, scordandosi di temperarla.”) ei traumi (“…lo lascia cadere tre volte dal letto, e non di piú; e gli fa poi ruzzolare la scala, insieme con lei, una volta sola. Ferite di poco conto: la piú grave, rottura dell’osso del naso.).”

A 9 anni, il Corvara Amidei è stato consumato dalla fede quindi è entrato in seminario. È stato detto essere diligente, serio e morale (“Pochi giorni prima d’entrarvi, seguendo alla lettera una delle sette opere corporali di misericordia,…”). Era anche leggero di corporatura, timido e sottomesso (es.) dopo un atto di carità, era fisicamente abusato e battuto da suo padre:

…s’era spogliato d’un bell’abituccio nuovo che il babbo gli aveva portato da Napoli; ne aveva vestito un povero ragazzetto che se ne stava su la spiaggia ignudo nato, ed era ritornato a casa col solo berrettino da marinajo in capo. In compenso, il babbo gli aveva detto tante belle cose, imbecille, somaro, scimunito, e gli aveva carezzato con tanto slancio gli orecchi, che per miracolo non glieli aveva strappati.

Verso l’inizio dei suoi studi il Corvara Amidei era abbastanza impressionato da questa frase: “Se qualcuno dice che la grazia della perseveranza non sarebbe accettabile per lui, sia anatema.” (Il Pirandello amplifica il pensiero da scrivendo, “Perché la perseveranza, per il caso che qualcuno volesse saperlo, è — secondo la teologia cattolica cristiana — una grazia che Dio concede a chi vuol salvare, senza attenzione ai meriti o ai demeriti del salvando.”)

Poi il Corvara Amidei è diventato gravemente malato con la meningite e gli studi sono interrotti. Subito dopo il suo ritorno al seminario, tuttavia, lui si è reso conto d’aver perso la fede. Ha anche cambiato, e in peggio, il suo aspetto fisico. Alla fine il Corvara Amidei ha lasciato il seminario; si laurea dal liceo e dall’università.

Quando alla fine può riaversi, ha perduto la fede; ma pare che abbia perduto anche tant’altre cose: i capelli, intanto, la parola, un po’ anche la vista; non si ricorda piú di nulla e sta, circa un anno, intronato e come levato di cervello. Si riscuote a furia di trombate d’acqua alla schiena; e, a ventidue anni e qualche mese, può presentarsi agli esami di licenza liceale e andare a Napoli, all’Università, per addottorarsi in lettere e filosofia, calvo, mezzo cieco e col naso schiacciato dalla caduta infantile.

Poi ha accettato un lavoro in una scuola elementare (“…il posto di reggente nel ginnasio inferiore di Sassari.”) Il Corvara Amidei era un insegnante terribile in quanto non era capace di mantenere la disciplina in classe. Era anche un oggetto di scherno e di mancanza di rispetto nella scuola e nel paese.

Dopo un po’ lui ha fatto amicizia con Dolfo Dolfi, un professore delle scienze naturali. Il Dolfi era sperimentato nelle vie del mondo e possedeva una aggressiva personalità assertiva. (Le personalità dei due uomini sembrano essere diametralmente opposte.) Il Dolfi è diventato un protettore… i bambini lo temono e lo rispettano, sia all’interno che all’esterno di scuola, e un certo grado di questa paura e rispetto era condiviso dal Corvara Amidei. Alla fine gli uomini hanno deciso di condividere un appartamento. Anche se il Corvara Amidei era finalmente contento di ricevere una misura di rispetto, ha dovuto anche sopportare la personalità prepotente del suo compagno di stanza.

Protetto da Dolfo Dolfi, Cosmo Antonio Corvara Amidei vorrebbe finalmente rifiatare, ma non può: il suo protettore non gliene lascia il tempo: gli parla de’ suoi viaggi, delle sue campagne giornalistiche, de’ suoi duelli; gli narra le sue innumerevoli, straordinarie avventure, e vuole anche discutere con lui di filosofia, di religione, ecc. ecc. Bestialità, con tanto di petto in fuori. (Nota bene: Dolfo Dolfi ha la faccia piena di nèi e, parlando, se li arriccia tutti; una gamba qua, una gamba là.) Cosmo Antonio Corvara Amidei si fa piccino piccino, man mano che quegli le sballa piú grosse, e approva, approva senza mai contraddire. Egli ormai è ben protetto, non si nega; gli alunni e i monellacci di strada per paura del Dolfi lo lasciano in pace; ma è vero altresí ch’egli non è piú padrone di sé, del suo tempo, del suo misero stipendiuccio di professore di ginnasio inferiore.

La figlia del Dolfi, Satanina, ha 15 anni. Il Corvara Amidei ha pensato a lei come una persona buona. (“Buona ragazza, Satanina; tanto che (il) Corvara Amidei vorrebbe chiamarla piú brevemente e graziosamente Nina, Nineta.”) Il Dolfi, tuttavia, l’ha descritta in termini crudamente diversi: credeva che Satanina era propria come lui, cioè, aggressiva, assertiva, disobbediente, avventurosa, e una vincitore del gioco di vita.

Salute, o Satana,

O ribellione,

O forza vindice

Della ragione

(Come noi imparemo, lei non è chiamata Satana per niente!)

Hanno vissuto insieme i due uomini per tre anni. I conoscenti del Corvara Amidei non sono riusciti a capire come ha tollerato il Dolfi. Per la sua parte il Corvara Amidei ha capito che gli amici si sono preoccupati per il suo benessere… ma stanno anche esprimendo un giudizio duro, cioè, il Corvara Amidei è stato d’essere considerato essere una persona debole ed ineffetuale così come un imbecille e uno sciocco.

Il Corvara Amidei ha capito che i suoi amici avevano ragione anche se solo in parte. Era vero che lui era debole ed inefficace, ma il Corvara Amidei ha avuto un piano di sorta: ha voluto avere una moglie e una famiglia. (Per ottenere ciò che vuole ha intenzione di perseverare.)

Eh sí; Cosmo Antonio Corvara Amidei, in fondo, sarebbe anche disposto a ammettere la propria imbecillità; non ne è però al tutto convinto, giacché, a pensarci bene, gli pare che sia forse alquanto piú imbecille di lui la vita in genere, ecco; e che non valga perciò la pena d’essere o d’apparire accorti o scaltri, massime quand’essa dimostri con tanta perseveranza l’impegno di volerla proprio pigliare coi denti contro di uno. In questo caso, bisogna lasciarla fare la vita, ché un fine forse – nascosto – lo ha; e, se non ha un fine, avrà pure una fine, questo è certo.

Poi… dopo aver subito un ictus, il Dolfi è morto improvvisamente. Il Corvara Amidei aveva 30 anni, e senza un protettore ha dovuto sviluppare un nuovo piano di vita, sia per se stesso e per Satanina.

Satana, invece, aveva le proprie idee. Dopo un periodo d’intensa lutto ha deciso di viaggiare e sperimentare la vita. In definitiva, tuttavia, il Corvara Amidei è stato in grado di convincerla a rimanere ed a sposarlo. (“…e allora anche lei, Satanina, gli fa intendere che a un solo patto potrebbe rimanere con lui: a patto, sissignore, di diventare sua moglie.”)

Il Corvara Amidei non poteva credere quel che è successo… i suoi sogni si sono avverati!

Cosmo Antonio Corvara Amidei teme d’impazzire, o che tutti si siano messi d’accordo per fargli una beffa atroce. Non riesce in alcun modo a capacitarsi come quella giovinetta possa sentire sul serio la necessità di diventare sua moglie, quasi che davvero la convivenza con lui possa dar pretesto a ciarle in paese. Ma possibile che tal necessità non le appaja quasi grottesca e, a ogni modo, ripugnante? Va a guardarsi allo specchio; si vede anche piú brutto di quel che non sia: ingiallito dai patimenti e dalla miseria, squallido, calvo, quasi cieco. Pensa a lei, a Satanina, cosí giovine, cosí fresca, cosí florida, e ha come una vertigine. Sua moglie? Possibile? Si reca a ridomandarglielo, balbettando. E Satanina – sissignore – gli risponde di sí, senz’arrossire, e che anzi, se egli vi fosse disposto, ella gliene serberebbe eterna gratitudine

Cosmo Antonio Corvara Amidei si mette allora a piangere come un bambino, facendole con la mano cenno di tacere, per carità! Grata, lei? Ma che dice? E allora lui? Una tal gioja, dunque, gli serbava la sorte? Come crederci? Per piú giorni il professor Corvara Amidei non può articolar parola.

Come ha fatto una volta prima (cioè, con la sua fede), il Corvara Amidei ha immerso se stesso nel matrimonio.

Quel che tanti anni di sofferenze non han potuto, può tutt’a un tratto la gioja. Cosmo Antonio Corvara Amidei dimentica la grammatica latina, dimentica tutto, diventa proprio inetto a ogni cosa. Non vede che Satanina; non pensa che a Satanina, non sogna che Satanina; non attenderebbe piú neanche a cibarsi, se Satanina stessa non ve lo costringesse; tanto gli basta la gioja di vedersela davanti, ridente e vorace; le darebbe da mangiare anche le sue misere carni, se le stimasse degne dei dentini di lei.

Sfortunatamente l’incapacità di controllare i suoi studenti era evidente ancora una volta: questa volta, tuttavia, c’è stato un vero e proprio possibilità che perderà il suo lavoro. Satinina era incinta, e per proteggere se stessa e la sua famiglia, ha scritto un amico di suo padre per chiedere se potesse offrire al marito un posto di lavoro del governo (a Roma).

Sì, può(!) quindi la famiglia si è traslocata a Roma. Come ci si potrebbe aspettare il Corvara Amidei non è riuscito a ottenere il rispetto e l’ammirazione dei suoi co-impiegati nuovi. Ha inoltre sviluppato un tic verbale (“E va bene”) che ha usato sempre quando ha dovuto affrontare o un problema o un ostacolo o una sfida.

Gli scrivani, ogni qual volta gli sentono emettere questo sospiro: E va bene! Scoppiano a ridere a coro. Perché? Il professor Corvara Amidei non ci ha fatto mai caso; ma ripete frequentissimamente (quando qualche cosa gli va proprio male) quel suo: E va bene! E ormai tutti quegli scrivani, fra loro, non lo chiamano altrimenti che Il professor Vabene.

Quand’egli viene a saperlo, si stringe nelle spalle, sorridente, allunga il collo, socchiude gli occhi, è proprio lí lí per sospirar… Ah, ecco, dunque è vero, sí: ha preso questo vezzo, senz’accorgersene, per la lunga abitudine di rassegnarsi ai colpi del destino avverso. Ma, ormai, un compenso a tutto ciò che ha sofferto, a tutto ciò che gli toccherà forse a soffrire ancora, lo ha, e non gl’importa piú di nulla. Lo sbeffeggino pure tutti gli scrivani del mondo, lo chiamino Va bene, Va male, Va zero, come che sia, egli ha ora Satanina, e se n’infischia. A lei, dal Ministero, tien fisso di continuo il pensiero e quasi la vede, là, nelle stanze dell’umile casetta presa a pigione in Via San Niccolò da Tolentino.

(Penso che “E va bene” fosse una scelta suggestivissima, in quanto segnala allo stesso tempo la propria diffidenza, indifferenza e perseveranza.)

A 32 anni Satanina ha dato alla luce un bambino di nome Dolfino (ovviamente). Satanina ha scelto di non allattare il bambino, e Dolfino viene inviato d’essere curato da una balia. (Il lettore può ben immaginare che l’assensa di Dolfino dev’essere stata una decisione sgraditissima per il Corvara Amidei… tuttavia lui acconsente, senza alcun lamento o rimpianto o infelicità.)

Pazienza! Vuol dire che d’ora in poi il professor Corvara Amidei farà a meno del sigaro, del caffè e di qualche altra coserella, per pagar le spese del baliatico.

Per informarci che le cose solo peggioreranno, il Pirandello ci offre questo bel passaggio.

Quando il saltimbanco, tra l’accorato stupore della folla raccolta intorno, fa lavorare un suo pagliaccetto gracile, pallido, come grida? “Ancora piú difficile, signori! Stiano a vedere: si passa a un esercizio ancora piú difficile!”

Quanti esercizi, dalla nascita in poi, il destino saltimbanco non aveva fatto eseguire a Cosmo Antonio Corvara Amidei, suo pagliaccetto? Ma il piú difficile, ancora non gliel’aveva fatto eseguire. Aspettava il giorno 20 maggio dell’anno 1894.

Quindi… un giorno il Corvara Amidei è tornato a casa per trovare l’appartamento vuoto. Satanina l’ha lasciato per un altro. Il Corvara Amidei ha scoperto la verità dalla loro serva, il quale, riconoscendo l’emotivo stato sofferente del Corvara Amidei, ha tentato di consolarlo.

Il professor Corvara Amidei séguita a star muto, col volto immobile, da ebete, e a passarsi meccanicamente le mani sulle gambe. La servetta sta un pezzo a mirarlo, impietosita, poi esclama tra sé, alludendo alla padrona:

“Imbecille, vah! Poteva starsene qua, col su’ sposo che la trattava ‘osí perbenino, tranquillo là, poer’omo, come una tartaruga.”

Poi, memorabilmente, lei descrive la natura fugace dell’amore.

‘Gnorantaccia, sa! L’amore… Sa com’è? L’è come il latte messo al foco, che prima si gonfia, poi alza il bollo e scappa via…

A questo punto nella novella il lettore capisce che in 43 anni, il Corvara Amidei ha avuto quasi la stessa esperienza con due delle principali istituzioni della società moderna, vale a dire, la Chiesa e il matrimonio. L’arco di entrambe le esperienze era effettivamente come ‘latte in ebollizione’: primo, un sentimento intenso e travolgente; poi un’immersione totale seguito da la dissipazione e la perdita. Non è discusso esplicitamente ma il lettore capisce che entrambe le istituzioni sono artificali, cioè, hanno le loro regole disegnate a promuovere le proprie interessi. Oltre le regole, tendono a favorire l’obbedienza via ‘fede cieca’ (cioè, l’accettazione e la perseveranza in tutti i soci).

In entrambi i casi, comprendiamo che la personalità del Corvara Amidei è tale che è ‘vincolato’ dalle norme delle istituzioni e anche dai desideri degli altri. Il Corvara Amidei è quasi completamente incapace d’affrontare le istituzioni della società moderna, cioè, lui non è in grado di soddisfare i proprii interessi… cioè, interessi che gli avrebbe permesso di sperimentare una certa misura di gioia, piacere e soddisfazione. Invece sostiene, va avanti, persevera. L’immagine viene convogliato che il Corvara Amidei non è così diverso da una bestia da soma legata ad una macina: arranca attraverso la vita, a testa in giù, sottomesso, docile, senza lamentarsi, non adattando, sempre in mancanza, sempre accettando.

Infatti è doloroso leggere: il Corvara Amidei accetta ciecamente il suo destino.

Ma il professor Corvara Amidei, a queste ingenue, amorevoli esortazioni, tentenna appena il capo; non dice nulla. Non piange, perché non gl’importa di far conoscere che soffre; non vuole intenerire, né chieder conforto o commiserazione. È stupito, in fondo, di non provare tutto quel cordoglio che forse qualche volta aveva pensato di dover provare se Satanina o l’amore di lei, per un caso atroce imprevedibile, gli fossero venuti a mancare. Ed ecco: nulla, invece, nulla. S’aspettava forse che il mondo dovesse crollare, o lui per lo meno restarne fulminato. Ed ecco, invece, nulla, nulla. Egli, ora, può licenziare la serva, pagarle il resto della mesata, rispondere anche alle altre esortazioni ch’ella gli fa nell’andarsene, col suo solito:

– E va bene… E va bene…

Sono passati nove anni. Veniamo a sapere che è quasi morto il Corvara Amidei, probabilmente a causa d’un esaurimento nervoso o un tentativo di suicidio. Ora Dolfino vive con il padre e le loro vite a Roma sono relativamente tranquille. Poi però Satanina torna a Roma: veniamo a sapere che lei è sola, disperata e impoverita. Satanina vuole Dolfino a vivere con lei.

Satanina, che fin dall’età di diciott’anni, alla morte de padre, voleva andarsene – come si sa – alla ventura, fuggita col pittore francese che le faceva il ritratto, era stata quattr’anni a Parigi, poi a Nizza, poi a Torino, poi a Milano, cadendo man mano sempre piú nel fango. Pochi giorni dopo il suo arrivo a Roma, era stata veduta dal marito il quale, nello scorgerla in quello stato, quantunque già se lo fosse immaginato, s’era sentito mancare in mezzo alla via ed era stato condotto in una farmacia, sorretto per le ascelle.

Nel frattempo il Corvara Amidei è venuto sotto la guida d’un sacerdote che ha tentato di tornarlo ad uno stato di grazia.

Egli era già caduto in mano d’un certo prete sardo, conosciuto a Sassari, per nome don Melchiorre Spanu, il quale s’era fisso il chiodo di ricondurre all’ovile quella pecorella da tant’anni smarrita. Gli dava a leggere, nelle interminabili ore d’ufficio, libri e libri e libri d’argomento religioso; gli dimostrava con le piú lampanti prove che unica e sola causa di tutte le sciagure sofferte era l’indegno modo con cui egli in gioventú s’era regolato con la Santa Madre Chiesa, e che non per nulla, certo, Dio pareva si volesse raccogliere ora nella sede degli angeli e dei beati quel caro ragazzo, quel buon Dolfino: insomma, era un sacro ammonimento, questo, perché il professor Corvara Amidei, l’apostata, rimasto solo, si fosse indotto a entrare in qualche convento: per esempio, in quello della Trappa, alle Tre Fontane. Santo luogo, santo luogo; quello che proprio ci voleva per far penitenza.

Il primo capitolo si conclude. Il Corvara Amidei ha 43 anni ed è la primavera. Dolfino è malato e il medico raccomanda che loro vanno al mare insieme (“Intanto, era prossima la primavera: stagione piú delle altre nociva ai malati di petto; e il medico aveva consigliato al professor Corvara Amidei di condurre Dolfino al mare, almeno per il primo mese, durante il quale l’aria di Roma sarebbe stata per lui troppo sottile.”).

Capitolo 2. LA PIGNA.

Il secondo capitolo inizia come il Corvara Amidei viaggia in treno al mare per affittare un apartamento. Ha intenzione di tornare a Roma il giorno stesso.

Dopo aver lasciato la città il Corvara Amidei entra in un altro mondo, vale a dire, il mondo naturale (“…appena uscito dalla stazione: alle porte di Roma, la Primavera, in un non so che di roseo fuggevole e palpitante tra il tenero verde dei prati. Che era? Forse un gruppo di peschi fioriti. Sí sí, eccone un altro, e un altro. La Primavera! Ah da quanto tempo non l’aveva piú veduta cosí, nel suo primo nascere, con quel roseo riso dei peschi!”).

La campagna sembra essere una fuga dalla sua realtà. È inebriante, e le attrazioni e gli odori riportare vecchi ricordi d’un tempo della vita più semplice e felice.

Trasse un lungo sospiro, e si sentí da quell’aria nuova inebriare, d’una ebrezza cosí limpida e pura, che lo intenerí fino alle lagrime. Gli parve una grazia che la sorte nemica gli volesse concedere quella vista deliziosa, da cui gli veniva una letizia cosí arcana che ora, ecco, non sapeva perché, pur lí presente, gli pareva dei lievi anni lontani della sua fanciullezza, là nell’incanto del suo paese nativo.

Gli effetti curativi del mondo naturale sono evidenti, e possiamo chiedere se la personalità e il carattere del Corvara Amidei siano più allineati con la campagna. Dopotutto non è vero che alcune persone sembrano prosperare in città (ad esempio Dolfo Dolfi) mentre le altre non lo fanno?

Quello che segue è una conversazione (avanti e indietro, con se stesso) della sua vita, cioè, una conversazione che contrasta il pessimismo associato con i fallimenti precedenti e la bellezza della campagna.

Sí, poteva, poteva esser bella la vita; ma lí, in mezzo a quel verde, all’aperto, dove la sorte crudele, certo, non poteva esercitare, come in città, la sua feroce persecuzione. Di questa persecuzione per le opprimenti vie cittadine, egli aveva quasi un’immagine tangibile: se la sentiva realmente dietro le spalle, come un’ombra orrenda, che lo faceva andar curvo, guardingo, tutto ristretto in sé: sua moglie.

Ne scacciò subito l’immagine, che gli aveva tutt’a un tratto offuscato la dolce visione, e si rimise a mirare. Ecco là i Monti Albani che pareva respirassero nel cielo, lievi, come se non fossero di dura pietra. Monte Cavo, con la vetta incoronata di aceri e di faggi, e il vecchio convento e il bosco biancheggiante a mezza costa. Ecco, piú là, Frascati solatía. Al fragore del treno si levò uno stormo di passeri, e un’allodola, in alto, librata sulle ali brillanti trillò. Il professor Corvara Amidei si ricordò allora della prima proposizione della grammatica latina, che da tanti anni non insegnava piú: alauda est laeta. E tentennò il capo. Ora, quasi quasi, gli parevano belli anche i suoi primi anni d’insegnamento, quando però non s’era ancor messo a far casa comune con quel…

– E va bene! – sospirò, turbandosi di nuovo.

Ma fu per poco. Passata la stazione di Carroceto cominciò a sentir prossimo il mare, e tutta l’anima gli si allargò, ilare e trepidante, nella viva aspettazione di quella tremula azzurra immensità, che da un momento all’altro gli si sarebbe spalancata davanti a gli occhi. Ah, il suo mare! Da quanto tempo piú non lo vedeva, e che desiderio acuto, intenso, ardente, di rivederlo! Ma eccolo già! Eccolo! Eccolo! E il professor Corvara Amidei sorse in piedi, tutto tremante dall’emozione, si sporse dal finestrino, e bevve con tanta ansia e tanta voluttà la brezza marina, che n’ebbe una vertigine, e ricadde a sedere su la panca della vettura, con le mani sul volto.

Il Corvara Amidei affitta un appartamento con le splendide viste della costa e sul mare.

Dirimpetto al villino, dal lato di ponente, sorgeva e s’avanzava fin nel mare, maestoso, l’antico castello sansovinesco, annerito dal tempo. Salí su la scogliera sotto il castello, e lí rimase per piú di un’ora stupefatto, a contemplare. Vide in fondo al mare levarsi azzurrino, quasi fragile, Monte Circello come un’isola aerea, e piú qua, seguendo la riviera, il Castello di Stura; vide prossimo, a destra, il porto d’Anzio popolato di navi, nereggiante per il traffico del carbone, e poi la sterminata distesa delle acque, riscintillante al sole cosí placida, che sulla spiaggia s’arricciava appena, silenziosamente.

Ha tre ore prima della partenza e decide di visitare il magnifico parco Borghese (con una pineta).

Cinque soldi. Li pagò, quantunque si fosse proposto di limitarsi nelle spese. E riprese a vagare per quei viali profondi, deserti, ombrosi, come in un sogno. In un sogno parevano veramente assorti quegli alberi maestosi, nel silenzio che il canto degli uccelli non rompeva, ma rendeva anzi piú misterioso. Gli avevano detto che in quel parco quasi abbandonato c’erano molti usignoli. Gli parve, ascoltando, di sentirne cantare uno, in fondo, e s’internò da quella parte. Si trovò, dopo un lungo tratto, in una meravigliosa pineta. I fusti altissimi, diritti, davan l’immagine di colonne d’un tempio gigantesco; le fitte corone, lassú, eran confuse ed escludevano del tutto lo sguardo dalla vista del cielo. Pareva che la pineta avesse una sua propria aria, cuprea, insaporata di quella frescura d’ombra speciale delle chiese.

Mentre nel parco il Corvara Amidei esamina ancora una volta le vicende della sua vita. Non può spiegare perché il suo destino è stato così crudele. Capisce che è una brava persona, qualcuno sempre con buone intenzioni. Non può spiegare come Dio avrebbe permesso una vita così miserabile.

E si domandò perché mai egli, che non aveva mai fatto per volontà male ad alcuno, doveva esser cosí bersagliato dalla sorte, egli, che anzi s’era inteso di far sempre il bene; bene lasciando l’abito ecclesiastico, quando la sua logica non s’era piú accordata con quella dei dottori della chiesa, la quale avrebbe dovuto esser legge per lui; bene, sposando per dare il pane a un’orfana, la quale per forza aveva voluto accettarlo a questo patto, mentr’egli onestamente e con tutto il cuore avrebbe voluto offrirglielo altrimenti. E ora, dopo l’infame tradimento e la fuga di quella donna indegna che gli aveva spezzata l’esistenza, ora quasi certamente gli toccava a soffrire anche la pena di vedersi morire a poco a poco il figliuolo, l’unico bene, per quanto amaro, che gli fosse rimasto. Ma perché? Dio, no: Dio non poteva voler questo. Se Dio esisteva, doveva coi buoni esser buono. Egli lo avrebbe offeso, credendo in lui. E chi dunque, chi dunque aveva il governo del mondo, di questa sciaguratissima vita degli uomini?

E poi … e poi… (Oh mio Dio!)

Alla fine del secondo capitolo, il Corvara Amidei viene colpito in testa da un proiettile d’artiglieria, sparato durante gli esercizi di formazione condotte dai militari. Stordito, il Corvara Amidei presuppone che fu colpito da una pigna!

Una pigna. Come? Sí: una grossa pigna, staccandosi in quel momento dai rami lassú, piombò, a guisa di fulminea risposta, sul capo del professor Corvara Amidei.

Rimase il pover’uomo a giacere, quietamente, privo di sensi, quasi fulminato. Quando poté riaversi, si trovò in una pozza di sangue. E ne perdeva ancora, da una bella ferita, che dal sommo del capo gli andava giú giú dietro l’orecchio. Ancor tutto intronato, riuscí a levarsi in piedi e a grande stento si trascinò fino al cancello della villa. La nanerottola di guardia, nel rivederlo in quello stato, col volto tutto imbrattato di sangue, strillò, inorridita:

– Gesú! Che ha fatto?

Dissanguamento e incapace di parlare coerentemente, riceve l’assistenza medica e poi si torna a Roma.

Capitolo 3. IL VENTO

Il Corvara Amidei e Dolfino sono al mare. Il tempo però non è affatto come la primavera — è più come l’inverno, con venti fortissimi e temperature fredde. Devono sopportare questo tempo i primi quindici giorni della visita.

“Tu, cara Primavera, non vedo perché debba proprio quest’anno venire innanzi al dí che gli uomini ne’ loro calendarii t’assegnano per il ritorno. L’inverno è stato piuttosto mite, e vorrebbe, prima di spirare, fare almeno un po’ di guasto: è nel suo diritto; vorrebbe che tu, per esempio, gli lasciassi il tempo di scaricarsi di qualche temporaletto che l’addoglia; ma se questo non ti garba perché temi che ti sporcheresti i rosei piedini, trovando troppo imbrattate le campagne e le vie della città per il tuo ingresso trionfale; egli ti fa sapere che è ancor tutto gonfio di vento, povero vecchio, e ti prega che sii contenta di fargli, se non altro, buttar fuori questo, che ti snebbierebbe anche l’aria ben bene e ti spazzerebbe le terre dalle sudicerie che v’ha fatto. Renderesti un gran piacere a lui e uno grandissimo a me, che proteggo tanto, se tu sapessi, un brav’uomo, fin da quand’egli è nato. Figúrati, per dirtene una, che jeri, mentre egli si beava di te, steso a pancia all’aria nella pineta d’un bel parco, mi son divertita a fargli cadere in testa una pigna bella grossa e dura, che avrebbe potuto anche accopparlo, eh altro! ma io non ho voluto. Sai bene che porto nello stemma un gatto che scherza col topolino e non l’uccide.”

E vento, e vento, e vento! Da quindici giorni non cessava un minuto, né dí né notte. Fischiava, mugolava, ruggiva in tutti i toni, ed era in certe scosse lunghe e tremende di tanta veemenza, che pareva volesse schiantar le case e portarsele via. Pareva; perché poi, in realtà, si portava via soltanto qualche tegola, abbatteva qualche albero o qualche palo telegrafico e infrangeva qualche vetro. Si divertiva poi a rendere furioso il mare, perché si ripigliasse la spiaggia, e venisse a rompersi fragoroso e spaventevole contro le mura delle case.

Il Corvara Amidei dichiara che si sente come se sia in una barca al mare durante una tempesta infuria.

Al professor Corvara Amidei sembrava di trovarsi su una nave assaltata e sbattuta dalla tempesta. Il povero Dolfino n’era atterrito, e lui non trovava piú modo a confortarlo con qualche parolina, perché quel mugolo del vento, piú che il fragore del mare, gli toglieva, non che la voce, ma finanche il respiro, gli torceva dentro le viscere, gli dava un’angoscia rabbiosa e muta, che trovava solo, di tanto in tanto, un po’ di sfogo involontario nella gola della povera balia, la quale, per compir l’opera, s’era ammalata d’angina e doveva starsene a letto, anche lei.

Poi Satanina arriva: ha intenzione ancora una volta di costringere Dolfino vivere con lei. Questa volta però ha coinvolto le autorità e loro sono disposti ad agire per suo conto. Satanina diventa emozionale.

Entra, si precipita, cade in ginocchio ai piedi del professore, il quale indietreggia sbalordito; gli s’aggrappa alla giacca, gridando, scarmigliata:

– Cosmo! Cosmo, per carità! Lasciami veder Dolfino mio! Perdonami! Salvami! Abbi compassione di me!

E scoppia, cosí gridando, in un pianto dirotto, in un pianto vero, di lagrime vere, senza fine, e in singhiozzi anche, in singhiozzi non meno veri, che la scuotono tutta; e non si leva da terra, e si nasconde la faccia con le mani seguitando a implorare:

– Bacerò, bacerò la terra, dove tu metti i piedi, Cosmo, se tu mi perdoni, se tu mi salvi! Non ne posso piú! Voglio esser tutta del mio Dolfino, ora! Lasciamelo assistere, curare, per carità! Cosmo Antonio Corvara Amidei casca a sedere su una seggiola, si nasconde il volto con le mani anche lui, benché in quella cameretta, veramente, per l’ombra della sera sopravvenuta, non ci si veda quasi piú. Suona la campana dell’Avemaria.

La serva si preoccupa che il Corvara Amidei permetterà Dolfino d’essere tolto.

– Ave Maria… – dice forte, apposta, la balia dal letto, cominciando la preghiera, per sottrarre il padrone alla tentazione.

Un agguato è stato pianificato. Gli uomini al di fuori della casa entrano con l’intenzione di portare via il Corvara Amidei. (Dopo questo Satanina avrà la possibilità di portare via Dolfino.)

Bussano furiosamente alla porta. La balia scappa a infilarsi una sottana, corre ad aprire: un fiume di gente, soldati e ufficiali allagano vociando la casa ancora al bujo, dietro a due carabinieri e al delegato.

– Abbiano pazienza, accendo il lume… – balbetta la balia, spaventata.

Cosmo Antonio Corvara Amidei si tiene stretto con tutte e due le braccia Dolfino, che s’è inginocchiato sul letto.

– Via! Venite con me! – gli grida il delegato.

Egli si volta a guardarlo. Sotto il turbante delle fasce, quella faccia da morto con gli occhiali incute sgomento e orrore alla folla che ha invaso la camera.

– Dove? – domanda.

– Con me! Senza storie! – gli risponde, brusco, il delegato, prendendolo per una spalla.

– Va bene. Ma questo figlio? – domanda lui, di nuovo. – È malato. A chi lo lascio? Sappia, signor delegato…

– Via! Via! Via! – lo interrompe questi, con violenza. – Vostro figlio sarà condotto al Sanatorio. Voi venite con me!

Il professor Corvara Amidei rimette a giacere Dolfino che trema tutto dallo spavento; lo esorta pian piano a far buon animo: ché non è nulla, ché presto ritornerà a lui; e se lo bacia quasi a ogni parola rattenendo le lagrime. Uno dei carabinieri, spazientito, lo agguanta per un braccio.

– Anche le manette? – domanda il professor Corvara Amidei.

Ammanettato, si china su Dolfino, di nuovo, e gli dice:

– Figlio mio, questi occhiali…

– Che vuoi? – gli chiede il ragazzo, tremando, atterrito.

– Strappameli dal naso, bello mio… Cosí… Bravo! Ora non ti vedo piú…

Si volge verso la folla, ammiccando e scoprendo nella contrazione del volto, i denti gialli; si stringe nelle spalle, protende il collo, ma l’angoscia gli serra troppo la gola, e non può ripetere anche questa volta:

– E va bene!

***

A questo punto il Corvara Amidei ha perso tutto. La novella sembra chiedere al lettore, “Cosa farebbe?”. (es.) Tornerebbe l’altra guancia allo scopo d’agire in modo umile, morale, affettuoso, dolce, gentile? Questo, certo, è un insegnamento centrale della Chiesa.

Invece la risposta giusta sembra essere che il mondo moderno vive da un altro regola, forse esemplificato migliore dal detto “Solo i forti sopravvivono”. Oppure “Nasciamo senza portare nulla, moriamo senza portare via nulla, ed in mezzo litighiamo per possedere qualcosa.”

 

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