Riassunto: Resti mortali

Resti mortali, un’altra novella assolutamente stupenda del Pirandello, inizia ‘sulle corna d’un dilemma’.

Ci viene presentato un signore vecchio, il signor Federico Biobin (o, com’è chiamato, zio Fifo), un protagonista memorabile che vive con la sua famiglia allargata a Roma. Eventualmente arriviamo a sospettare / capire / credere che zio Fifo abbia vissuto una vita ammirevole, cioè, che abbia guadagnato il rispetto e l’ammirazione e l’amore dei suoi parenti (i suoi numerosi nipoti) e che abbia avuto molti molti amici e collegate. Immaginiamo che sia un brav’uomo!

Sfortunatamente in questo momento zio Fifo è anziano / attempato — la sua salute è in uno stato precario, e veniamo a sospettare che la salute sia stata deteriorata per un lungo periodo di tempo… al punto in cui, adesso, lui è piuttosto fragile / debole. Inoltre è cambiata la sua personalità: zio Fifo ci è presentato come un uomo vecchio, ostinato, irritabile e contrario. E per di più le cui abilità cognitive sembra essere significativamente compromesse. Lui sembra vivere in un mondo ristretto / circoscritto… infatti non è chiaro quanta parte del mondo sia in grado di percepire, quanto riconosca, ad esempio, dell’amore e dell’affetto della sua famiglia. Ci viene detto che zio Fifo soffre di una malattia cardiovascolari aterosclerotiche, un disturbo cronico e spesso progressivo, e che questo, oltre al passare del tempo, potrebbe spiegare il mondo ristretto abitato di zio Fifo.

Mentre sarebbe ragionevole attribuire la personalità ed il carattere di zio Fifo alla vecchiaia, sarebbe anche ragionevole ipotizzare che abbia subito, nel tempo, una serie di piccoli ictus (come può accadere con l’aterosclerosi) e che, all’inizio della novella, ‘vediamo’ le effetti cumulativi di loro.

Rimane ragionevole chiedersi perché zio Fifo sia così ostinato? Una possibilità: ci sia stato un cambio profondo della vita sua, cioè, nel passato, zio Fifo sia stato abbastanza compiuto, ma adesso, la sua età e la sua cattiva salute abbiano cospirato per portarne via gran parte. In altre parole, nella misura in cui zio Fifo capisca cosa gli sta succedendo, cioè, quanto lui sia in grado di percepire i cambiamenti, debba provocare un senso di frustrazione e forse terrore. Dunque la nostra ipotezi è che il cambiamento nella personalità di zio Fifo è dovuto alla combinazione delle emozioni negative e il suo tentativo di aggrapparsi al suo passato / alla sua dignità / alla sua immagine di sé.

E finalmente ‘le corna d’un dilemma’? Ebbene il dilemma riposa sulle spalle della famiglia allargata di zio Fifo! I nipoti sembrano chiedere: “Qual è il modo migliore per gestire (cioè, sostenere e prendersi cura di) un uomo ben amato che è cambiato — in peggio, lentamente, irrevocabilmente — fino ad un punto in cui è quasi al di fuori del riconoscimento?”

***

Gentili lettori, vorremmo che tutti voi immaginaste una scena in una commedia o un film: un giorno, un piccolo gruppo di amici si incontrano per un aperitivo, e uno di loro ha una storia da raccontare agli altri. Una storia divertente, piena di assurdità, piena di ironia. Le bevande sono arrivate e gli amici sono sistemati, comodamente, ai loro posti. Dopo aver scambiato alcuni convenevoli, l’uno del gruppo annunzia agli altri: “Ho una storia da dirvi, una che non crederete!”

Poi la narrazione inizia con 5 vignette che descrivono il protagonista della storia, zio Fifo, e il mondo che abita.

  1. Mattina

Di solito zio Fifo si alza molto presto la mattina e procede a distruggere / rovesciare una parte della casa, nel processo disturbando gli altri. Quest’episodi sono indicati “esplorazioni”: zio Fifo è alla ricerca della fonte d’un cattivo odore che lui crede provenga, bizzarramente, da un mobile. Zio Fifo si rivela d’essere un uomo vecchio ed ostinato, controcorrente, strano, bizzarro, ridicolo, assurdo, stravagante.

Disperazione dei nipoti, che pur gli dovevano volere un gran bene se, dopo che s’era spogliato per loro di tutto il suo, ancora avevano tanta sopportazione di lui, il signor Federico Biobin (zio Fifo, come lo chiamavano) si alzava col lume, e subito, zitto zitto, piccolino com’era di statura, col testoncino a pera che gli lustrava, calvo fino alla nuca, una ventina di duri peluzzi ritinti, dieci per parte drizzati sul musetto da topo, si metteva a frugolare per casa, sorsando, soffiando, dando smusatine, come per tenere in continuo esercizio d’esplorazione il naso puntuto, le labbra armate di quei venti spunzoncini; finché all’improvviso tutta la casa non sobbalzava dal sonno o per un rovinio di scodelle dalla piattaja in cucina o di casse che crollavano a catafascio nel ripostiglio. Accorrevano tutti, chi in camicia, chi in pigiama, chi in sottana.

– Zio, che hai fatto? che è stato?

Dava le risposte più inaspettate:

– Niente: sento puzza di mobili vecchi.

Ma come se tutto quel fracasso non l’avesse fatto lui e non l’avesse nemmeno sentito, e placido e un po’ seccato parlasse ancora dal silenzio che c’era prima nella casa.

Per la costernazione della famiglia, questi episodi si verificano ogni giorno… incredibilmente sono considerati da zio Fifo come un servizio che fornisce agli altri!

Non lasciava giorno, senza che ne facesse una. E il bello si era che i fastidi che dava, i dispetti che faceva, per cui le budella ai nipoti, alle serve, si ritorcevano dentro come una fune, lui li chiamava servizi.

  1. Pomeriggio

Più tardi nel corso della giornata, zio Fifo lavora a un progetto per riparare una lastra di vetro rotta in un portone. Passa ore in cucina ad incollare striscioline di carta per riparare il vetro.

Capace di stare giornate sane in cucina a ritagliare e tentar d’incollare striscioline di carta per medicare un vetro rotto della finestra a usciale

Poi impariamo che questa porta si apre su una specie di ballatojo dove si trova un casottino del cesso (“puzzolentissimo”), e che questo casottino (come tutti sanno… tutti, cioè, tranne lo zio Fifo) è in realtà responsabile del cattivo odore che zio Fifo attribuisce ai mobili.

…usciale che dava su una specie di ballatojo, dov’era puzzolentissimo il casottino del cesso. La cuoca si dannava.

– Ma lei che sente la puzza dei mobili vecchi, o non la sente codesta del cesso?

A questo punto ci viene fornita una spiegazione di quanto sia diventato circoscritto e ristretto il mondo di zio Fifo.

Non la sentiva, quella; e seguitava, sorsando, soffiando, smusando, a tentare d’incollare quelle striscioline di carta.

(Qui ci rimane da immaginare quanto terrificante / frustrante debba essere ‘sentirsi’ scivolare via (gradualmente e progressivamente) le sue abilità fisiche e cognitive. Può essere che la combinazione di età, la sua malattia cronica e il suo senso di frustrazione e terrore, per quanto riguarda le sue perdite (cioè, su ciò che non può più controllare), spieghino non solo il comportamento bizzarro, ma anche la ostinazione, contrarietà, meschinità, ecc. Inoltre è vero che se capiamo la personalità ed il carattere di zio Fifo in questo modo, diventa lui un personaggio che possiamo perdonare, qualcuno per il quale ci sentiamo una profonda empatia).

  1. Giardino

Zio Fifo si arrabbia quando non è in grado d’aggiustare un cancello che non funziona più. Il metallo del cancello è forte, mentre le sue braccia sono deboli. La soluzione? Zio Fifo vorrebbe strappare entrambe le sue braccia inutili dal suo busto! Poi in una frenesia zio Fifo lavora (inutilmente) fino ad un punto di esaurimento fisico — nel processo, danneggiando le sue mani, che devono essere fasciate.

E ora eccolo giù in giardino, infuriato contro un’ala del cancello che, interrata, non voleva più andare né avanti né indietro. Illividito dalla congestione e con le vene del cranio che gli scoppiavano, dava certe scrollate che le braccia, appena i ferri del cancello brandivano in contrasto, pareva gli si dovessero staccar nette dal busto. I nipoti gli gridavano dalle finestre:

– Smettila, zio! Non vedi che non s’apre?

– La smetto? O io l’apro, o ci crepo!

Non l’apriva e non ci crepava: veniva su, tutto slogato, in un bagno di sudore, presentando le manine ridotte una pietà, perché gli fossero unte d’olio e fasciate.

  1. Pioggia

Durante un intenso temporale, zio Fifo posiziona se stesso sotto gli sgrondi dalle case dei vicini, in modo tale che il deflusso dell’acqua lo inondasse, facendo infuriare i vicini e i passanti.

Quando poi era stanco di farne ai suoi di casa, usciva e si metteva a far dispetti alla gente per via: per esempio, certe giornate che pioveva a dirotto, andando a pigliarsi apposta sull’ombrello lo sgrondo di tutte le case, con un’aria così parlante di farlo per dispetto, che veniva la tentazione a chi gli passava accanto di strapparlo per un braccio accosto al muro. Il piacere maligno, che sotto sotto ne provava, gli faceva arricciare agli angoli il labbro con tutti quei suoi venti peluzzi irti, quasi in un digrignamento appena percettibile, di cagnolino bizzoso.

  1. La spolverina grigia d’alpagà

A qualche punto prima, ha acquistato zio Fifo una lunga spolverina che doveva essere indossata all’aperto (es.) durante un viaggio. Invece, lui la indossa in casa.

L’ultimo fu quello della spolverina grigia d’alpagà, comperata per veste da camera, quando i nipoti, ridendo della compera, gli fecero notare ch’era una spolverina da viaggio, quella.

I nipoti spiegano l’errore. Una volta che zio Fifo capisce che ha fatto uno sbaglio, decide di viaggiare — impulsivamente, apparentemente con piccola rima o ragione, ostinatamente — a Bergamo, cioè, a visitare Ernesto, un’altro nipote che in questo momento sta preparando ad emigrare in America.

– Da viaggio? E allora parto!

– Parti? Dove vai?

– A Bergamo, da Ernesto, a salutarlo prima che vada a Genova a imbarcarsi per l’America.

Non ci fu verso di rimuoverlo più da quel ticchio di partire lì per lì.

Certo a causa del viaggio imminente, povero Ernesto non è nella posizione di poter ricevere qualche ospite a casa sua, per non parlare d’un ospite tanto esigente come zio Fifo!

Anzi, che la sua visita per quel povero Ernesto dovesse essere un gravissimo imbarazzo piuttosto che un piacere nel trambusto in cui doveva trovarsi alla vigilia di salpar per l’America: ragione di più.

Inoltre il medico di zio Fifo ha avvertito la famiglia che è in pessime condizioni di salute, quindi un viaggio è fuori questione… lo sforzo di viaggiare potrebbe affrettare / scatenare la sua morte.

E che il medico gli avesse ordinato di star tranquillo e non strapazzarsi per la sclerosi cardiaca di cui era affetto: ragione di più, anche questa.

Zio Fifo ovviamente è indifferente, ostinato, sdegnoso.

Voleva morire! Ma come, a Bergamo? morire a Bergamo, mentre Ernesto vi spiantava la casa? Sissignori, morire a Bergamo, nella casa spiantata.

Zio Fifo parte, arriva a Bergamo e, come previsto, muore il giorno del suo arrivo!

Partì con quella spolverina grigia; e purtroppo la minaccia di quel pericolo che i nipoti di Roma, senza punto crederci, gli avevano fatto balenare per trattenerlo, s’avverò. La notizia fulminea della morte di zio Fifo lo stesso giorno che arrivò a Bergamo, lasciò quasi basiti i nipoti di Roma per il fatto che, pur senza crederci, l’avevano preveduta; e che, pur avendola preveduta, per quel non crederci, avessero lasciato partire lo zio.

(Qui vediamo che i nipoti subiscono un notevole senso di colpa perché l’hanno permesso andare… dopotutto era chiarissimo a tutti che la decisione era un errore — “un disastro che aspetta d’accadere”, potremmo dire.)

Povero Ernesto! Nel mezzo dello sconvolgimento d’abbandonare la sua casa, ha adesso un cadavere di confrontarsi!

Di quest’ultimo dispetto ai nipoti lontani e dell’altro ancor più acerbo al nipote vicino, là a Bergamo, zio Fifo, in mezzo alla confusione della casa tutta sossopra per lo sgombero, stecchito sul lettino di ferro, con la sua brava spolverina grigia da cui spuntavano i due piedini giunti, più che soddisfatto, pareva ora felicissimo.

Tra gli altri mobili della camera scostati dalle pareti e fuori di posto, comodissimo comodissimo ci stava lui, su quel lettino di ferro che nessuno, finché ci stava lui, avrebbe potuto toccare, coi quattro ceri accesi, due da capo, due da piedi; le manine intrecciate sul ventre che gli s’era un po’ gonfiato.

Pareva proprio che sorridesse, sornione, con gli occhi chiusi e quei venti spunzoncini ancora drizzati sul musetto da topo.

Ernesto sperimenta un mix delle emozioni: il dolore della mote del zio, sì, ma anche la benedizione che è morto (dopotutto la morte gli permette continuare a concentrarsi sui suoi preparativi per il viaggio). Veniamo a sapere che Ernesto non prova alcun malumore per la decisione dei suoi cugini; allo stesso tempo, non ha né interesse né tempo per il cadavere. Ai suoi cugini Ernesto lo rende abbondantemente chiaro che loro devono decidere il prossimo passo e poi assumersi la responsabilità.

Difatti, il compito di venire a morire a Bergamo per maggior ristoro del nipote Ernesto in partenza per l’America, lui lo aveva assolto; ora toccava agli altri quello di rimuoverlo di lì, o per seppellirlo nel cimitero di Bergamo o per rispedirlo a Roma se lo volevano là nella tomba di famiglia.

I nipoti decidono di restituire il corpo a Roma. Alla fine sarebbe compito di Ernesto completare i documenti necessari per trasportare, da Bergamo a Roma, il corpo in treno.

Per varie ragioni (era distratto? ha avuto fretta?), Ernesto prende la decisione di descrivere il corpo di zio Fifo come ‘resti mortali’ piuttosto che un ‘cadavere’. Questa è descritta come una decisione ragionevole / pratica, una, cioè, che Ernesto riteneva fosse legittima, lecita e corretta. (Il narratore spiega che Ernesto considerava anche ‘resti mortali’ un termine appropriato, date le circostanze della morte e la costernazione che aveva causato).

Stimò più sbrigativo il nipote Ernesto rispedirlo a Roma e lasciare ai cugini la cura e il resto delle spese per i funerali all’arrivo: aveva i minuti contati; sarebbe arrivato a Genova appena in tempo per imbarcarsi. Malauguratamente però, nel fare la spedizione, credette che l’uso della frase «resti mortali» invece della cruda parola «cadavere» fosse lecito, com’era certo più gentile e pietoso; e se ne volle servire, forse a compensare il povero zio di tutte le imprecazioni che gli aveva scagliate per esser venuto a buttarglisi morto tra i piedi in un frangente come quello.

Forse non sappiamo bene il motivo, ma intendiamo che i nipoti hanno organizzato una celebrazione quasi ‘felliniana’ per ricevere il corpo alla stazione ferroviaria di Roma.

Ora ai nipoti di Roma venuti alla stazione a ricevere il feretro con molte corone di fiori e un magnifico carro funebre di prima classe a quattro cavalli e più d’un centinajo d’amici e conoscenti e rappresentanze di sodalizi con labari e bandiere e il parroco per la benedizione alla salma e due belle file di monache e chierici con le candele in mano;

Tuttavia, sorge un problema. Poiché il corpo era (erroneamente!) dichiarato ‘resti mortali’ invece di un ‘cadavere’, i nipoti saranno richiesto pagare non solo una tariffa ma anche una multa (rigida!) prima che il corpo venga rilasciato!!!

appunto per l’uso gentile e pietoso di quella frase, l’ufficiale di dogana presentò una bolletta gravata da una multa di parecchie migliaja di lire.

I nipoti sono incredula. I funzionari sono inflessibili.

– Multa? E perché?

– Falso in denunzia.

– Falso? Che falso?

– Ma credono lor signori, che si possa impunemente denunziare un feretro come resti mortali? I resti mortali sono un conto: un mucchietto d’ossa e di cenere in una cassettina di latta; e pagano per tali, secondo una loro tariffa. Un feretro è un altro conto. Per quanto piccolo, bisogna che paghi come feretro. Altra tariffa.

Ciò che ne deriva è e_si_la_ran_te. I nipoti tentano di ragionare con i funzionari — roba da farsa! (es.) “È colpa di Ernesto, invece di colpa nostra!” poi, “È colpa dei funzionari doganali di Bergamo, non colpa nostra!” L’ironia della situazione si basa sulla ridicola, cioè, “sofisticata” (hahahahaha) differenza nella definizione di ‘resti mortali’ e ‘cadavere’!

Protestarono i nipoti che intenzione di frode nel cugino Ernesto non poteva esserci stata; ma, anche ammesso e non concesso che ci fosse stata, la multa, se mai, doveva pagarla chi aveva spedito e non chi riceveva. Erano pronti a pagare il di più della spesa, secondo la tariffa, trattandosi realmente di un feretro e non di resti mortali (benché la distinzione potesse parere a prima giunta sofistica); ma, a ogni modo, la multa no, no e no.

Non avevano nessuna colpa, loro. Il cugino Ernesto era partito per l’America, e responsabile dello sbaglio (non diciamo frode, per carità!) restava allora l’ufficio di spedizione alla dogana di Bergamo che s’era ricevuto a occhi chiusi e aveva «inoltrato» come resti mortali un feretro intero. Per placare il capo–stazione chiamato a dare man forte all’ufficiale di dogana, i nipoti si mostrarono disposti a scusare, del resto, anche l’ufficio di spedizione della dogana di Bergamo, informando che il cugino Ernesto doveva aver spedito in quei giorni chi sa quanti colli, per cui sapendosi in città ch’egli era sul punto di lasciare l’Italia per sempre, quell’ufficiale di dogana, addetto alla spedizione, facilmente aveva potuto supporre che spedisse anche i resti mortali di qualche parente sepolto da tempo nel cimitero di Bergamo, per non lasciarli colà. La colpa, in questo caso, si riduceva soltanto a una mancata verifica. Gli volevano far pagare la multa per questo? Ecco, ma a lui sempre, la multa, se mai; mica a loro che non c’entravano né punto né poco.

Allora è l’estate. In attesa al sole, la moltitudine riunita fuori la stazione soffre molto, mentre il dramma dell’argomento, della protesta, dello stato di diritto si svolge all’interno della stazione.

Mentre così si discuteva nell’ufficio di dogana, fuori nello spiazzale quelli ch’eran venuti per l’accompagnamento funebre vestiti di nero e in tubino, s’erano ritratti e impalati in fila, gomito a gomito, a ridosso al muro, per ripararsi da un terribile sole d’agosto, prossimo al meriggio. C’era a mala pena, lungo quel muro, un filo d’ombra che non arrivava a riparare fino alla punta neanche i piedi; e davanti, tutte le cose, a quella vampa di sole, abbarbagliavano. Così tutti impalati, con gli occhi fuori del capo, guardavano l’enorme carro funebre, rimasto in mezzo allo spiazzale, là, ferocemente nero e dorato, e pareva ne avessero un formidabile incubo, come di quelle monache che se ne stavano impassibili, a occhi bassi, così infagottate in quelle loro tonache di pesantissimo panno marrone, con quel cappuccetto nero a capanna in capo, tutte bene appettate sotto il modestino bianco insaldato, e le candele accese in mano. Dio, quelle candele, la cui fiamma nel sole non si vedeva, e se ne vedeva invece il fumighio tremolante! Ma che avveniva? Perché non portavano il feretro? Che s’aspettava? Alcuni, più impazienti, andarono a sentire; poi a poco a poco, tutti, tranne il cocchiere sul carro funebre, le monache, i chierici e i portatori dei labari e delle bandiere, entrarono nel fresco delizioso dell’ufficio della dogana, ch’era un alto e vasto magazzino ingombro tutt’intorno alle pareti di casse rammontate e di balle e di colli.

I funzionari rimangono implacabili. Furibondo, i nipoti suggeriscono che il corpo sarà un problema se non viene rilasciato, cioè, che la famiglia sta facendo un favore ai funzionari da accettando il corpo! I funzionari rimangono indifferenti, dicendo che se la tariffa e la multa non vengono pagate, il corpo sarà sepolto in una tomba comunale (poco profondo, immaginiamo!) — e per la più sarà tenuto a pagare per la sepoltura!!

Vi rintronavano i gridi della contesa tra i nipoti del morto da una parte, e il capo–stazione e gli ufficiali di dogana dall’altra. Gli animi s’erano accesi. Il capo–stazione era irremovibile: o pagare la multa, o niente feretro! Il maggiore dei nipoti, furibondo, minacciava che glielo avrebbero lasciato lì. Non era mica merce, un morto, che si potesse rivendere all’asta! Volevano vedere che cosa il capo–stazione se ne farebbe! E il capo–stazione sghignazzava e rispondeva che, chiestane licenza a chi di dovere, lo avrebbe mandato a seppellire con due facchini; e che poi a far pagare le spese e la tariffa e la multa ci avrebbero pensato con comodo gli uscieri. Un fremito d’indignazione accolse questa risposta e allora l’altro nipote, confortato dal consenso di tutti, lo diffidò dal farlo: avrebbe chiamato responsabile l’amministrazione dei danni morali e materiali, perché non era mica un cane il loro zio da esser mandato a seppellire in quel modo; c’erano là centinaja di persone venute a rendergli i meritati onori funebri, labari e bandiere di sodalizi, un carro di prima classe, un santo sacerdote, monache e chierici con più di quaranta candele!

Questa ovviamente è la fine. La famiglia non ha altra scelta che pagare la multa.

E i due nipoti, rossi come gamberi, con le camice bianche che, nello scompiglio dell’esagitazione, strabuzzavano loro dalle maniche nere e perfino di sotto il panciotto, tutti tremanti per lo sfogo violento e piangenti dalla rabbia, furono condotti via.

Ora quell’incubo di carro funebre che se n’andava vuoto e traballante, diretto alla rimessa, e quelle monache e quei chierici che capovolgevano le candele per smorzarle in terra, diedero a tutti, anche ai nipoti, in quell’animazione insolita, un senso di leggerezza, come se zio Fifo, mandato a monte il funerale, non fosse più morto.

Quindi il narratore termina la storia chiedendosi se zio Fifo avesse apprezzato la scena? Era, in effetti, il suo ultimo atto d’ostinazione, contrarietà e mancanza di rispetto nei confronti della sua famiglia?

Ma si poteva veramente dir morto zio Fifo, se seguitava a fare con tanta pervicacia ciò che aveva sempre fatto in vita: dispetti a tutti?

So bene che non s’è mai dato il caso che un morto si sia staccate le mani dal petto per cacciarsi una mosca dal naso; ma per zio Fifo riparato dalla doppia cassa di zinco e di noce, là sotto gli occhi del capo–stazione rimasto solo nel magazzino della dogana a grattarsi la testa, mi par proprio lecito immaginare che se le sia staccate davvero, quelle sue gracili manine dal petto, per darsi contentone una bella stropicciatina.

 

Leave a comment