Riassunto: I pensionati della memoria

I pensionati della memoria (L. Pirandello) è strutturato come una conversazione (di sorta) tra il protagonista, uno scrittore (delle storie di fantasia / d’invenzione) e un piccolo gruppo di amici. (Diciamo che la storia era strutturata come una conversazione; lo è, ma in un modo particolare, dato che l’unica voce che il lettore incontra è quella del protagonista. Ogni volta che parla un altro membro del gruppo, lo scrittore ripete ciò che è stato detto e poi continua. In questo modo, la novella è tanto un soliloquio quanto qualsiasi altra cosa.)

L’ambientazione della storia è mal definita (nella nostra immaginazione si svolge in una grande città, forse verso la fine d’una giornata lavorativa). Il protagonista e i suoi amici si incontrano, ed, all’inizio della storia, la conversazione si concentra sul tema della morte. La domanda in questione è, “Come facciamo a ricordare i morti?”, ed offre lo scrittore il seguente parere:

Bella fortuna, la vostra! Accompagnare i morti al camposanto e ritornarvene a casa, magari con una gran tristezza nell’anima e un gran vuoto nel cuore, se il morto vi era caro; e se no, con la soddisfazione d’aver compiuto un dovere increscioso e desiderosi di dissipare,

Lo scrittore sembra dire che i suoi amici lo hanno ‘facile’. Dopo la morte di una persona cara (o qualcuno non tanto amato), si addolorano, quindi l’accompagnano il corpo al cimitero, assistono alla sepoltura e poi tornano a casa. Basta! Potrebbero continuare a compiangere per un po’, ma alla fine (inevitabilmente) loro torneranno al trambusto e alle preoccupazioni della vita quotidiana. Basta.

Il ritorno alla vita quotidiana è caratterizzato dallo scrittore come una benedizione. In altre parole, dopo il funerale gli amici hanno l’opportunità di dimenticare un’esperienza dolorosa, cioè, hanno l’oppotunità di ‘isolare’ / ‘sequestrare’ il ricordo della morte (nel subconscio?) ed andare avanti con la propria vita.

rientrando nelle cure e nel tramenio della vita, la costernazione e l’ambascia che il pensiero e lo spettacolo della morte incutono sempre.

A questo punto lo scrittore suggerisce che gli amici possono anche avere un senso di sollievo,

Tutti, a ogni modo, con un senso di sollievo,

…forse a causa del considerevole tempo e sforzo richiesto per organizzare/sistemare un funerale (“d’aver compiuto un dovere increscioso” …lavoro ben fatto!), e anche perché — a dir la verità — questo è un compito ingrato: è ben saputo che i morti non sembrano mai mostrare alcun apprezzamento per gli sforzi fatto a loro favore!

perché, anche per i parenti più intimi, il morto – diciamo la verità – con quella gelida immobile durezza impassibilmente opposta a tutte le cure che ce ne diamo, a tutto il pianto che gli facciamo attorno, è un orribile ingombro, di cui lo stesso cordoglio – per quanto accenni e tenti di volersene ancora disperatamente gravare – anela in fondo in fondo a liberarsi.

Alla fine lo scrittore si riferisce alla morte d’un’altra persona come un “orribile ingombro”, qualcosa da cui si desidera essere liberati.

E ve ne liberate, voi, almeno di quest’orribile ingombro materiale, andando a lasciare i vostri morti al camposanto. Sarà una pena, sarà un fastidio; ma poi vedete sciogliersi il mortorio; calare il feretro nella fossa; là, e addio. Finito.

Vi sembra poca fortuna?

Poi, in netto contrasto, lo scrittore descrive la sua esperienza dei morti, che è diversa, profondamente diversa. Lo scrittore non è in grado di liberarsi dalla morte. Rimangono loro vivi per lui; infatti dice che loro rimangono con lui dopo la sepoltura, tornando a casa sua dove rimangono (per sempre?). In un certo senso, i morti fintano l’esserci morti!

A me, tutti i morti che accompagno al camposanto, mi ritornano indietro.

Fanno finta d’esser morti, dentro la cassa. O forse veramente sono morti per sé. Ma non per me, vi prego di credere! Quando tutto per voi è finito, per me non è finito niente. Se ne rivengono meco, tutti, a casa mia. Ho la casa piena. Voi credete di morti? Ma che morti! Sono tutti vivi. Vivi, come me, come voi; più di prima.

(In effetti, lo scrittore sembra credere che i morti potrebbero non morire mai. Invece la loro memoria rimane viva, e per questo i morti ‘vivono’. La prospettiva dello scrittore è che i ricordi d’una persona li rendono altrettanto vibranti, presenti, vivi… proprio come lo scrittore in questo preciso istante.)

Lo scrittore continua la conversazione definendo i morti come “i disillusi”.

Soltanto – questo sì – sono disillusi.

(Qui, sembra che lo scrittore desideri distinguere attentamente tra ‘uno che è vivo’ e ‘uno che è morto’. Prima di tutto, ‘disilluso’ è una scelta di parole molto interessante: letteralmente, la significa ‘deluso’ o ‘disincantato’, ma sembra possibile, a nostro parere, che lo scrittore abbia preso in prestito la parola per chiarire che un morto non è più fisicamente presente… vuole segnalarci invece che è solamente un ricordo, una presenza immaginata e quindi ‘illusore’. Cosa c’è di più, come vedremo, il ricordo appartiene a qualcun’altro.)

Lo scrittore continua, chiedendo ai suoi amici cosa perde una persona quando si verifica la morte? Certamente perdono la loro presenza fisica. Poi, tuttavia, lui continua dicendo che ognuno di noi proietta un’immagine al mondo. Quest’immagine è egocentrico: è come pensiamo noi stessi e come vogliamo che gli altri pensino a noi. A questo proposito, è giusto supponere che le immagini includano cose come il nostro stile, modi, opinioni, temperamento, esperienze, competenze.

Perché – riflettete bene: che cosa può esser morto di loro? Quella realtà ch’essi diedero, e non sempre uguale, a se stessi, alla vita. Oh, una realtà molto relativa, vi prego di credere. Non era la vostra; non era la mia. Io e voi, infatti, vediamo, sentiamo e pensiamo, ciascuno a modo nostro noi stessi e la vita. Il che vuol dire, che a noi stessi e alla vita diamo ciascuno a modo nostro una realtà: la projettiamo fuori e crediamo che, così com’è nostra, debba essere anche di tutti; e allegramente ci viviamo in mezzo e ci camminiamo sicuri, il bastone in mano, il sigaro in bocca.

(Qui, in una parola, lo scrittore sembra riferirsi al concetto di personalità — qualcosa che è straordinariamente fragile e soggetto a cambiamenti ma comunque cruciale per la nostra identità. Lo scrittore sembra equiparare la presenza fisica e la personalità come realtà co-eguali, cioè, espressioni co-eguali dell’identità.)

Di nuovo… qual è il punto di vista dello scrittore?

Ah, signori miei, non ve ne fidate troppo! Basta appena un soffio a portarsela via, codesta vostra realtà! Ma non vedete che vi cangia dentro di continuo? Cangia, appena cominciate a vedere, a sentire, a pensare un tantino diversamente di poc’anzi; sicché ciò che poc’anzi era per voi la realtà, v’accorgete adesso ch’era invece un’illusione. Ma pure, ahimè, c’è forse altra realtà fuori di questa illusione? E che cos’altro è dunque la morte se non la disillusione totale?

Però, ecco, se sono tanti poveri disillusi i morti, per l’illusione che si fecero di se medesimi e della vita; per quella che me ne faccio io ancora, possono aver la consolazione di viver sempre, finché vivo io. E se n’approfittano! V’assicuro che se n’approfittano.

(In altre parole, il punto di vista dello scrittore è che, primo, ognuno di noi ha una duplice realtà, cioè, una presenza fisica ed una personalità — entrambi sono fragili e soggetti a cambiamenti — e secondo, un ricordo d’una persona può sopravvivere la sua morte, e questo ricordo appartiene alla persona che ricorda e non al morto… quindi rappresenta una ‘terza realtà’.)

Poi lo scrittore ci dà un esempio, cioè, il suo ricordo del signor Herbst, un cappellaio tedesco che vive a Bonn, qualcuno che lo scrittore ha incontrato più di vent’anni fa.

Guardate. Ho conosciuto, più di vent’anni fa, a Bonn sul Reno, un certo signor Herbst. Herbst vuol dire autunno; ma il signor Herbst era anche d’inverno, di primavera e d’estate, cappellajo, e aveva bottega in un angolo della Piazza del Mercato, presso la Beethoven–Halle.

Vedo quel canto della piazza, come se vi fossi ancora, di sera; ne respiro gli odori misti esalanti dalle botteghe illuminate, odori grassi; e vedo i lumi accesi anche davanti la vetrina del signor Herbst, il quale se ne sta su la soglia della bottega con le gambe aperte e le mani in tasca. Mi vede passare, inchina la testa e mi augura, con la special cantilena del dialetto renano:

– Gute Nacht, Herr Doktor.

Non importa allo scrittore se in questo momento il signor Herbst sia vivo o morto. Né importa se la piazza in cui si trovava la bottega del signor Herbst sia cambiata o rimane la stessa. Tutto ciò che conta per lo scrittore è la memoria del signore. Questo ricordo è una realtà (la terza realtà), e nelle mani dello scrittore l’ha il potenziale per essere immortalato (“V’assicuro che se n’approffitano.”).

Sono trascorsi più di vent’anni. Ne aveva, a dir poco, cinquantotto il signor Herbst, allora. Ebbene, forse a quest’ora sarà morto. Ma sarà morto per sé, non per me, vi prego di credere. Ed è inutile, proprio inutile che mi diciate che siete stati di recente a Bonn sul Reno e che nell’angolo della Marktplatz accanto alla Beethoven–Halle non avete trovato traccia né del signor Herbst né della sua bottega di cappellajo. Che ci avete trovato invece? Un’altra realtà, è vero? E credete che sia più vera di quella che ci lasciai io vent’anni fa? Ripassate, caro signore, di qui ad altri vent’anni, e vedrete che ne sarà di questa che ci avete lasciato voi adesso.

(Nota bene: qui la cambia d’un piazza o d’un’edificio sembra esser analogo alla morte di una persona, no?)

Quale realtà? Ma credete forse che la mia di vent’anni fa, col signor Herbst su la soglia della sua bottega, le gambe aperte e le mani in tasca, sia quella stessa che si faceva di sé e della sua bottega e della Piazza del Mercato, lui, il signor Herbst? Ma chi sa il signor Herbst come vedeva se stesso e la sua bottega e quella piazza!

No, no, cari signori: quella era una realtà mia, unicamente mia, che non può cangiare né perire, finché io vivrò, e che potrà anche vivere eterna, se io avrò la forza d’eternarla in qualche pagina, o almeno, via, per altri cento milioni d’anni, secondo i calcoli fatti or ora in America circa la durata della vita umana sulla Terra.

Ora, com’è per me del signor Herbst tanto lontano, se a quest’ora è morto; così è dei tanti morti che vado ad accompagnare al camposanto e che se ne vanno anch’essi per conto loro assai più lontano e chi sa dove. La realtà loro è svanita; ma quale? quella ch’essi davano a se medesimi. E che potevo saperne io, di quella loro realtà? Che ne sapete voi? Io so quella che davo ad essi per conto mio. Illusione la mia e la loro.

Ma se essi, poveri morti, si sono totalmente disillusi della loro, l’illusione mia ancora vive ed è così forte che io, ripeto, dopo averli accompagnati al camposanto, me li vedo ritornare indietro, tutti, tali e quali: pian piano, fuori della cassa, accanto a me.

(Ancora una volta, c’è una terza realtà, cioè, la memoria dello scrittore del signor Herbst. Questa realtà non appartiene al signor Herbst, appartiene invece allo scrittore!)

Poi uno degli amici chiede perché i morti tornano a casa dello scrittore invece che a casa loro?

– Ma perché, – voi dite, – non se ne ritornano alle loro case, invece di venirsene a casa vostra?

Oh bella! ma perché non hanno mica una realtà per sé, da potersene andare dove loro piace. La realtà non è mai per sé. Ed essi l’hanno, ora, per me, e con me dunque per forza se ne debbono venire.

Poveri pensionati della memoria, la disillusione loro m’accora indicibilmente.

(Sii consapevole, cari lettori, del pericolo associato a una lettura troppo letterale d’una novella di Pirandello!)

Quello che segue è una deliziosa descrizione dei morti mentre escono dal cimitero e seguono a casa dello scrittore.

Dapprima, cioè appena terminata l’ultima rappresentazione (dico dopo l’accompagnamento funebre) quando rinvengon fuori dal feretro per ritornarsene con me a piedi dal camposanto, hanno una certa balda vivacità sprezzante, come di chi si sia scrollato con poco onore, è vero, e a costo di perder tutto, un gran peso d’addosso. Pure, rimasti come peggio non si potrebbe, vogliono rifiatare. Eh sì! almeno, via, un bel respiro di sollievo. Tante ore, lì, rigidi, immobili, impalati su un letto, a fare i morti. Vogliono sgranchirsi: girano e rigirano il collo; alzano ora questa ora quella spalla; stirano, storcono, dimenano le braccia; vogliono muover le gambe speditamente e anche mi lasciano di qualche passo indietro. Ma non possono mica allontanarsi troppo. Sanno bene d’esser legati a me, d’aver ormai in me soltanto la loro realtà, o illusione di vita, che fa proprio lo stesso.

(Sembra essere analogo, non sia vero, al “Giudizio Finale” d’una persona e la successiva “Ascensione in Paradiso”?)

E poi lo scrittore ci ricorda ancora una volta che la sua esperienza dei morti differisce da quella degli amici.

Altri – parenti – qualche amico – li piangono, li rimpiangono, ricordano questo o quel loro tratto, soffrono della loro perdita; ma questo pianto, questo rimpianto, questo ricordo, questa sofferenza sono per una realtà che fu, ch’essi credono svanita col morto, perché non hanno mai riflettuto sul valore di questa realtà.

Tutto è per loro l’esserci o il non esserci d’un corpo.

Infatti lo scrittore postula che, a volte, i suoi amici possano costruire un’elaborata razionalizzazione della morte, cioè, una razionalizzazione per affrontare la costernazione che la morte d’una persona amata provoca / induce / manifesta dentro di loro: i morti non sono sepolti nella terra, sono in viaggio!

Basterebbe a consolarli il credere che questo corpo non c’è più, non perché sia già sotterra, ma perché è partito, in viaggio, e ritornerà chi sa quando.

Su, lasciate tutto com’è: la camera pronta per il suo ritorno; il letto rifatto, con la coperta un po’ rimboccata e la camicia da notte distesa; la candela e la scatola dei fiammiferi sul comodino; le pantofole davanti la poltrona, a piè del letto.

– È partito. Ritornerà.

Basterebbe questo. Sareste consolati. Perché? Perché voi date una realtà per sé a quel corpo, che invece, per sé, non ne ha nessuna.

(Nota bene: qui la razionalizzazione è una forma della ‘terza realtà, no?)

Perché la razionalizzazione d’un viaggio è semplicemente impossibile? Decomposizione!

Tanto vero che – morto – si disgrega, svanisce.

Poi leggiamo questo scambio, in cui uno degli amici sembra pensare troppo ‘alla lettera’ / ‘concretamente’… lo scrittore offre una correzione.

– Ah, ecco, – esclamate voi ora. – Morto! Tu dici che, morto, si disgrega; ma quando era vivo? Aveva una realtà!

Cari miei, torniamo daccapo? Ma sì, quella realtà ch’egli si dava e che voi gli davate. E non abbiamo provato ch’era un’illusione? La realtà ch’egli si dava, voi non la sapete, non potete saperla perché era in lui e fuori di voi; voi sapete quella che gli davate voi. E non potete forse dargliela ancora, senza vedere il suo corpo? Ma sì! tanto vero, che subito vi consolereste, se poteste crederlo partito, in viaggio. Dite di no? E non seguitaste forse a dargliela tante volte, sapendolo realmente partito, in viaggio? E non è forse quella stessa che io do da lontano al signor Herbst, che non so se per sé sia vivo o morto?

Successivamente lo scrittore evidenzia la costernazione che tendiamo a sentire quando qualcuno muore. La morte, dopotutto, è anche il nostro destino. Ogni volta che qualcuno muore, ci viene ricordato del proprio destino.

Via, via! sapete perché voi piangete, invece? Per un’altra ragione piangete, cari miei, che non supponete neppur lontanamente. Voi piangete perché il morto, lui, non può più dare a voi una realtà. Vi fanno paura i suoi occhi chiusi, che non vi possono più vedere; quelle sue mani dure gelide, che non vi possono più toccare. Non vi potete dar pace per quella sua assoluta insensibilità. Dunque, proprio perché egli, il morto, non vi sente più. Il che vuol dire che vi è caduto con lui, per la vostra illusione, un sostegno, un conforto: la reciprocità dell’illusione.

Quand’egli era partito, in viaggio, voi, sua moglie, dicevate:

– Se egli da lontano mi pensa, io sono viva per lui.

E questo vi sosteneva e vi confortava. Ora ch’egli è morto, voi non dite più:

– Io non sono più viva per lui!

Dite invece:

– Egli non è più vivo per me!

Ma sì ch’egli è vivo per voi! Vivo per quel tanto che può esser vivo, cioè per quel tanto di realtà che voi gli avete dato. La verità è che voi gli deste sempre una realtà molto labile, una realtà tutta fatta per voi, per l’illusione della vostra vita, e niente o ben poco per quella di lui.

Lo scrittore ci lascia un riassunto del suo punto di vista.

Ed ecco perché i morti se ne vengono da me, ora. E con me – poveri pensionati della memoria – amaramente ragionano su le vane illusioni della vita, di cui essi al tutto si sono disillusi, di cui non posso ancora disilludermi al tutto anch’io, benché come loro le riconosca vane.

***

In precedenza abbiamo scritto: “Poi, in netto contrasto, lo scrittore descrive la sua esperienza dei morti, che è diversa, profondamente diversa. Lo scrittore non è in grado di liberarsi dalla morte. Rimangono loro vivi per lui; infatti rimangono con lui dopo la sepoltura, tornando con lui a casa sua (dove rimangono). In un certo senso, i morti fintano l’esserci morti!”

A me, tutti i morti che accompagno al camposanto, mi ritornano indietro.

Fanno finta d’esser morti, dentro la cassa. O forse veramente sono morti per sé. Ma non per me, vi prego di credere! Quando tutto per voi è finito, per me non è finito niente. Se ne rivengono meco, tutti, a casa mia. Ho la casa piena. Voi credete di morti? Ma che morti! Sono tutti vivi. Vivi, come me, come voi; più di prima.

A noi sembrava esserci un sottile tono lamentoso alla voce dello scrittore, come se la sua preoccupazione per i ricordi dei morti fosse un’arma a doppio taglio: da un lato questi ricordi potrebbero aver servito come ispirazioni per il suo processo creativo ed il suo lavoro, d’altra parte la preoccupazione poteva esser un peso, qualcosa che doveva sempre sopportare, un’aspetto di vita sua che non cambia mai, qualcosa che era al di fuori del suo controllo.

Altri artisti, naturalmente, hanno parlato di questo fardello. Ad esempio, ecco una citazione dal superbo musicista americano Patti Smith,

“He asked… ‘Did art get us?’ The question for me wasn’t if art got us. The question was, ‘Do we regret that?’ I know art got us, because if art gets you, you can never be normal. You can never enjoy. You can’t go anywhere without trying to transform it, you know? You go to church to pray, and you start writing a story about being in church praying. You are always observing what you do. I noticed that when I was young and going to parties. I could never lose myself… because I was always observing… observing or creating a mental scenario.”

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