Riassunto: La disdetta di Pitagora

— Perbacco!

E, rimettendomi il cappello, mi voltai a guardare la bella sposina tra il fidanzato e la vecchia madre.

Dri dri dri… — ah come strillavano di felicità sul lastrico della piazza assolata, nel mattino domenicale, le scarpe nuove dell’amico mio! E la fidanzata, con l’anima tutta ridente nell’azzurro infantile degli occhietti irrequieti, nelle guance invermigliate, nei dentini lucenti, sotto l’ombrellino sgargiante di seta rossa, si faceva vento, vento, vento, quasi a smorzar le vampe della gioja e del pudore, la prima volta che si mostrava cosí per via, bambina, alla gente, con a fianco — dri dri dri — quel pezzo di promesso sposo, esageratamente nuovo, pettinato, profumato e soddisfatto.

Rimettendosi in capo il cappello (piano, che la pettinatura non si guastasse), si voltò anche lui, l’amico mio, a guardarmi. O che c’entrava? Mi vide fermo in mezzo alla piazza, e chinò il capo, con un sorriso impacciato. Risposi con un altro sorriso e un vivace gesto della mano che voleva dire: «Mi rallegro! mi rallegro!».

E, fatti pochi passi, mi voltai di nuovo. Non m’aveva fatto tanto piacere quella vispa figurina tutt’accesa della piccola fidanzata, quanto l’aria di lui, dell’amico mio, che non vedevo da circa tre anni. O non si voltò anche lui a guardarmi una seconda volta?

— Che sia geloso? — pensai, incamminandomi a capo chino. — N’avrebbe ragione in fin dei conti! È proprio carina, perbacco. Ma lui, lui!

La novella La disdetta di Pitagora(L. Pirandello) è un esilarante storia urbana ‘d’identità sbagliata’ e, allo stesso tempo, una storia straziante ‘d’identità perduta’.

(A proposito, la parola ‘disdetta’ è tradotta in inglese in vari modi, cioè, il suo significato è variamente definito come ‘cancellazione’, ‘terminazione’, e ‘sfortuna’. La parola è stata anche usata per indicare una ‘ritrattazione’ e ‘riprendere ciò che è stato detto’. Sospettiamo che per quanto riguarda questa novella, il Pirandello abbia usato ‘disdetta’ per significare ‘sfortuna’, ‘ritrattazione’ e ‘riprendere ciò che è stato detto’.)

Il narratore della storia, Pitagora, è coinvolgente, ironico, intelligente, divertente, attento e premuroso — un uomo bravo, un essere umano sincero… qualcuno che uno sarebbe felice d’avere come amico suo.

La storia si svolge a Roma. Una domenica mattina, per caso, Pitagora riconosce, da lontano, un uomo che crede, erroneamente, d’essere Tito Bindi, un amico suo. (Verso la fine della novella, apprendiamo che quest’uomo è in realtà Ermanno Lèvera, uno che assomiglia il Bindi.) Il Lèvera capita di camminare con la sua fidanzata — una giovanotta ri den te— e sua madre. In sequenza Pitagora e il Lèvera si riconoscono a vicenda… primo Pitagora, poi il Lèvera. Il riconoscimento è descritto come essere maldestro/ scomodo… ci rendiamo conto che qualcosa non va bene, anche se non capiamo quale potrebb’essere il problema. (Forse è perché Pitagora e il vero Tito Bindi non si siano visti per 3 anni?)

Nell’apertura della storia leggiamo che Pitagora si sente un mix di emozioni, dall’ammirazione per il suo amico a un po’ di gelosia a causa della sua apparente fortuna. Pitagora descrive il ‘Bindi / Lèvera’ come “esageratamente nuovo” e la fidanzata come “proprio carina, perbaco”.)

Poi Pitagora esprime qualche dubbio sul suo amico:

—Troppo alto?

—Completamente ringiovanito?

—Fuori dal personaggio? cioè, nel senso che adesso sembra che gli piacerebbe un rapporto intimo con una donna.

Alla fine, Pitagora spiega via tutti i suoi dubbi come “Prodigi dell’amore!”

Non so; m’era sembrato anche piú alto di statura. Prodigi dell’amore! E poi, tutto ringiovanito, negli occhi specialmente, nella persona così evidentemente carezzata da certe cure affettuose di cui non l’avrei mai stimato capace, conoscendolo nemico di quegli intrattenimenti intimi e curiosissimi che ogni giovinotto suole avere con la propria immagine per ore e ore davanti a uno specchio. Prodigi dell’amore!

Successivamente apprendiamo che, approssimativamente 3 anni fa,il Bindi ha abitato a Roma. In quel momento è stato descritto come qualcuno che era libero e spensierato, dedicato a una carriera come pittore. Durante questo periodo ha condiviso un appartamento con Quirino Renzi. Poi, il Bindi si è sposato la sorella del Renzi, e dopo il matrimonio il Bindi ha lasciato Roma per vivere a Forlì con sua moglie. (Impariamo anche che Quirino Renzi è il migliore amico di Pitagora e che, di recente, il Renzi ha anche lasciato Roma per vivere a Forlì.)

Dov’era stato in questi tre ultimi anni? Qua a Roma, prima, abitava in casa di Quirino Renzi, suo cognato, ch’era poi il vero amico mio. Infatti egli, per me, propriamente, si chiamava piú «il cognato di Renzi», che Bindi di casa sua. Era partito per Forlí due anni prima che Renzi lasciasse Roma, e non l’avevo piú riveduto. Ora, rièccolo a Roma e fidanzato.

Pitagora si chiede cosa sia successo alla moglie del Bindi. Perlopiù nota che il Bindi (cioè, Ermanno Lèvera) sembra esser molto più successo della persona che ha conosciuto prima.

— Ah, caro mio, — seguitai a pensare, — tu non fai piú, certamente, il pittore. Dri dri dri: le tue scarpe strillano troppo. Di’ che ti sei voltato ad altro mestiere, che ti deve fruttar bene. E io te ne lodo, non ostante che cotesto nuovo mestiere t’abbia persuaso a prender moglie.

Pitagora ed il Lèvera si incontrano, ancora una volta a distanza, 2 o 3 giorni dopo, con più o meno lo stesso risultato.

Lo rividi due o tre giorni dopo, quasi alla stess’ora, di nuovo insieme con la promessa sposa e la futura suocera. Altro scambio di saluti accompagnati da sorrisi. Inchinando lieve e pur con tanta grazia il capo, mi sorrise anche la sposina, questa volta.

Poi impariamo che Pitagora è il soprannome del narratore, un riferimento divertente al fatto che non gli piace mangiare i fagioli.

Da quel sorriso argomentai che Tito le aveva certo parlato a lungo di me, delle mie famose distrazioni di mente, ed anche detto che Quirino Renzi, suo cognato, mi chiama Pitagora perché non mangio fagiuoli; e spiegato anche perché, a mo’ d’ingiuria scherzosa, si può chiamar Pitagora chi non mangi fagiuoli, ecc. ecc. Cose che fanno tanto piacere.

[Allora… sappiamo che Pitagora era un filosofo greco che ha stabilito una scuola nel sud Italia che ha cercato di scoprire, attraverso lo studio dell’armonia musicale e della geometria, i principi matematici della realtà. Il teorema di Pitagora è attribuito a lui (era uno dei primi ad applicare l’ordine matematico alle osservazioni delle stelle). Pitagora ha anche stabilito una fratellanza ‘religiosa’, che ha seguito una vita dell’ascetismo severo. In particolare alcuni autori hanno menzionato una ‘dieta pitagorica’, cioè, l’astensione dal consumo di carne, fagioli e pesce.

Do_Not_Eat_Beans

“Non mangiare fagioli (favae)!”

Citazione: American Heritage® Dictionary of the English Language, Fifth Edition. 2016 by Houghton Mifflin Harcourt Publishing Company.]

(Come vedremo, il riferimento a Pitagora si adatta molto bene anchealla personalità del narratore, che è razionale e logica… molto simile a quella d’un matematico!)

Durante i successivi 3 mesi, Pitagora ed il Lèvera (sempre accompagnato dalla sua fidanzata e la futura suocera) si incontrano molte volte. I due amici si riconoscono sempre la presenza l’uno dell’altro… ma non sembrano mai effettivamente parlare tra loro.

M’accorsi che segnatamente alla suocera questa faccenda dei fagiuoli e di Pitagora aveva dovuto fare una buffissima impressione, perché, incontrandoli in seguito, non so piú quant’altre volte, sempre tutt’e tre insieme, quella vecchia marmotta sbruffava proprio a ridere, senza neppur curarsi di nascondere la risata, dopo aver risposto al mio saluto, e si voltava anche a guardarmi, ridendo ancora.

Rimangono molte domande!

—Cosa pensa il ‘Bindi / Lèvera’ della sua fidanzata e la loro vita insieme?

—Cos’è successo alla moglie del Bindi?

—Cos’è successo a Quirino Renzi?

Inoltre l’impressione di Pitagora della suocera sembra diventare più negativa nel tempo:

Avrei voluto ripigliar Tito qualche giorno da solo a solo per domandargli se la presente felicità non offrisse a lui, alla sposina e alla futura suocera alcun’altra cagione di riso, e in questo caso compiangerlo; ma non mi venne mai fatto. Desideravo inoltre da lui qualche notizia di Renzi e della moglie.

Poi, un giorno, Pitagora riceve un telegramma da Quirino Renzi, chiedendolo d’incontrare il Renzi, il mattino successivo, alla stazione ferroviaria di Roma.

Ma ecco, un bel giorno, arrivarmi da Forlí questo telegramma: «Brutti guaj, Pitagora. Sarò a Roma domattina. Tròvati stazione ore 8,20. — Renzi».

Ovviamente Pitagora non capisce bene. Si chiede, per esempio, “Perché il Renzi voglia che si incontri alla stazione quando suo cognato è anche qui a Roma?” Pitagora sospetta anche che il Renzi proverà a convincere il Bindi (cioè, il Lèvera) a rinunciare al fidanzamento e a tornare alla sua famiglia a Forlì!

O come! – pensai, – ci ha qui il cognato, e vuoi essere accolto da me alla stazione? Feci su quel «brutti guaj» un mondo di supposizioni, tra le quali la piú ragionevole mi sembrò questa: che Tito stésse per contrarre un pessimo matrimonio, e che Renzi venisse a Roma per tentare di mandarglielo a monte. Dopo circa tre mesi di saluti e di sorrisi, confesso che nutrivo già per quella bambola di sposina un’antipatia irresistibile e qualcosa di peggio per la madre.

Il giorno dopo Pitagora arriva alla stazione prima dell’arrivo del treno. Chi parte? Quirino Renzi e nientemeno che Tito Bindi! Il vero Tito Bindi! Pitagora è scioccato quando impara che ha sbagliato.

Il giorno appresso, alle otto, ero alla stazione. E ora giudicate voi, se io non sono davvero perseguitato da un destino buffone. Arriva il treno, ed ecco Renzi al finestrino d’una vettura: mi precipito… ma le gambe all’improvviso mi si piegano; mi cascano le braccia.

— Ho con me il povero Tito, — mi fa Renzi, additandomi pietosamente il cognato.

Tito Bindi, quello lí? Come! E chi avevo io dunque salutato per tre mesi, lungo le vie di Roma? Eccolo là, Tito… Ah Dio mio, in quale stato ridotto!

— Tito, Tito… ma come?… tu… — balbetto.

(L’errore di Pitagora, cioè l’errata identificazione del Lèvera, è per la prima volta chiaro per noi.)

Pitagora si incontra il povero Bindi che è sconvolto, emotivamente sopraffatto.

Tito mi butta le braccia al collo e scoppia in un pianto dirotto. Guardo Renzi a bocca aperta. Ma come? Perché? Mi sento impazzire. Renzi allora m’accenna con una mano alla fronte e sospira, chiudendo gli occhi. — Chi? lui, io o Tito? — Chi è il pazzo?

Quirino Renzi chiede al Bindi d’aspettare con una valigia mentre lui e Pitagora recuperano un baule. Mentre sono soli, il Renzi spiega le disgrazie del Bindi: ha fallito nel suo tentativo di riuscire come un pittore; la sua moglie ha dato alla luce due figli, uno dei quali soffre di cecità; con ogni probabilità, il matrimonio di Tito Bindi anche fallirà. Di conseguenza il povero Bindi ha recentemente avuto un apparente esaurimento nervoso. Quirino Renzi l’ha portato a Roma per ricevere cure mediche e per sperimentare una pausa dalla sua vita travagliata a Forlì.

— Sú via, Tito, — esorta Renzi il cognato, — calmati! calmati! Aspetta un po’ qua, tieni d’occhio queste valige. Io vado con Pitagora a ritirare il baule.

E, andando, mi narra sommariamente la storia miseranda del povero cognato, che da circa due anni e mezzo aveva preso moglie a Forlí: gli eran nati due bambini, uno dei quali, dopo quattro mesi, era accecato; questa disgrazia, l’impotenza di provvedere adeguatamente con l’arte sua ai bisogni della famiglia, le continue liti con la suocera e con la moglie sciocca ed egoista, gli avevano sconcertato il cervello. Ora Renzi lo conduceva a Roma per farlo visitare dai medici e divagarlo un po’.

Poi Pitagora spiega la sua incredibile / fantastica errata identificazione del Lèvera. Quirino Renzi non riesce a trattenersi dal ridere.

Se non avessi visto con gli occhi miei Tito ridotto in quello stato, avrei senza dubbio creduto che Renzi, come tant’altre volte, volesse farsi beffe di me. Tra lo stordimento e la pena, gli confesso allora l’equivoco in cui ero caduto, come io cioè, fino al giorno avanti, avessi salutato Tito, promesso sposo, per le vie di Roma. Renzi, non ostante la costernazione per il cognato, non può tenersi di ridere.

— T’assicuro! — gli dico io. — Tal e quale! Proprio lui in persona! Da tre mesi ci salutiamo e ci sorridiamo: siamo divenuti amiconi! Ora sí, ora noto la differenza. Ma perché Tito, poverino, sfido! non si riconosce piú. Io saluto ogni giorno, invece, Tito qual era prima che partisse per Forlí, tre anni or sono. Ma proprio lui, sai? Tito, Tito che guarda, Tito che parla, Tito che sorride, Tito che cammina, Tito che mi riconosce e mi saluta… Proprio lui! proprio lui! Figurati che impressione m’ha fatto rivederlo cosí, ora, dopo averlo veduto jeri, verso le quattro, felice e raggiante con la sposina accanto.

Nel tentativo di calmare Tito Bindi, il Renzi ripete la storia dell’errata identificazione di Pitagora.

La mia disdetta vuole, che di tutto quello che io sento nessuno mai debba o voglia tener conto. Renzi, com’ho detto, rideva, e, poco dopo, per distrarre il malato, gli volle raccontare questa bella avventura.

A questo momento Pitagora parla direttamente a noi lettori.

Sentite ora che ne seguí.

Gradualmente, arriviamo a comprendere la grave rottura dalla realtà del povero Bindi. Nella carrozza, dalla stazione all’albergo, intravediamo la disperazione di lui… alla sua disperata ricerca di quello che è stato un momento più felice della vita sua, cioè, un tempo a Roma quando era “giovane, libero e felice”, cioè, quando il mondo era pieno di possibilità invece dei fallimenti, un tempo in cui era veramente possibile che avrebbe realizzato il suo sogno di diventare un pittore di successo.

Quel poveretto rimase in prima stranamente stupito del mio abbaglio; ci lavorò sú un pezzo con la fantasia, durante il tragitto dalla stazione all’albergo, e, alla fine, afferrandomi per un braccio, con tanto d’occhi sbarrati, confitti nei miei, mi gridò:

— Pitagora, hai ragione!

Mi spaventai; mi provai a sorridergli:

— Che vuoi dire, caro Tito?

— Dico che hai ragione! — ripeté egli senza lasciarmi, con un brio di luce terribile negli occhi sempre piú sbarrati. — Non ti sei ingannato! Quello che tu saluti sono io. Proprio io, Pitagora; che non ho mai lasciato Roma! mai! mai! Chi dice il contrario, è mio nemico! Qua, qua, tu hai ragione, io sto qua, sempre, a Roma, giovane, libero, felice, come tu ogni giorno mi vedi e mi saluti. Caro mio Pitagora, ah, respiro! respiro! Che peso m’hai levato dal petto! Grazie, caro, grazie, grazie… Sono felice! felice!

E, rivolgendosi al cognato:

— Abbiamo fatto un brutto sogno, Quirino mio! Dammi, dammi un bacio! Sento il gallo cantare di nuovo nel mio vecchio studio di Roma! Pitagora qui presente te lo dice. È vero, Pitagora? è vero? ogni giorno tu m’incontri qua a Roma… E che faccio io a Roma? Dillo a Quirino. Faccio il pittore! Il pittore! E vendo, no? Se mi vedi che rido, vuol dire che vendo! Ah… Va benone… Viva la gioventù! Scapolo, libero, felice…

Poi Pitagora chiede al Bindi della sua fidanzata,

— E la sposina? — mi lasciai scappare disgraziatamente, senza avvertire che Renzi, per prudenza, poco fa, nel raccontargli l’equivoco, aveva tralasciato questo pericoloso particolare.

(Nota che questa domanda è in riferimento alla fidanzata del Lévera!)

…una domanda ovviamente sconsiderata (il povero Bindi stava disperatamente sfuggendo alla tragedia e al disastro imminente del suo matrimonio, e sarebbe impossibile per lui considerare la possibilità d’un secondo),

Il volto di Tito s’abbujò a un tratto. Mi riafferrò questa volta per tutt’e due le braccia:

— Che hai detto? Come! Prendo moglie?

E guardò sbigottito il cognato.

…subito Pitagora sembra capire l’errore e tenta di recuperare,

— Ma che! — gli faccio io, subito, per rimediare, a un cenno di Renzi. — Ma che, caro Tito! So bene che tu scherzi con quella marmottina!

…ma il Bindi sembra esser incapace di umorismo.

— Scherzo? Ah, scherzo, dici? — incalzò Tito, infuriandosi, stravolgendo gli occhi, agitando le pugna. — Dove sono? dove sto? dove mi vedi? Bastonami come un cane, se mi vedi scherzare con una donna! Non si scherza con le donne… Si comincia sempre cosí, Pitagora mio! E poi… e poi…

Scoppiò di nuovo in pianto, coprendosi il volto con le mani. Invano io e Renzi cercammo di quietarlo, di consolarlo.

— No, no! — ci rispondeva. — Se prendo moglie anche qui a Roma, sono rovinato! rovinato! Vedi come mi sono ridotto a Forlí, caro Pitagora? Salvami, salvami, per carità! A ogni costo bisogna impedirmelo! subito! Anche lí ho cominciato scherzando.

E tremava tutto, come per brividi di febbre.

Poi Quirino Renzi tenta di cambiare l’argomento,

— Ma se noi siamo qui per pochi giorni soltanto! — gli disse Renzi. — Il tempo di contrattare con due o tre signori per l’acquisto dei tuoi quadri, come s’era rimasti. Ce ne torneremo subito a Forlí.

…ma anche fallisce questo tentativo di consolare il Bindi. La rottura di lui dalla realtà sembra essere quasi completa.

— E non gioverà a nulla! — rispose Tito, con un gesto disperato delle braccia. — Ce ne torneremo a Forlí, e Pitagora seguiterà pur sempre a vedermi qua a Roma! come vuoi che sia altrimenti? Vivo qua sempre a Roma, Quirino mio, anche standomene lí. Sempre a Roma, sempre a Roma, negli anni miei belli, scapolo, libero, felice, come appunto m’ha visto Pitagora jeri stesso, non è vero? Eppure jeri noi eravamo a Forlí: vedi che non dico bugie?

Commosso, esasperato, Quirino Renzi scosse rabbiosamente la testa e strizzò gli occhi per frenar le lagrime. Finora la pazzia del cognato non gli s’era palesata in cosí disperate proporzioni.

Il povero Bindi sembra non voler altro che reclamare la sua identità. Insiste per andare nel suo vecchio studio.

— Via, via, — riprese Tito, rivolgendosi a me: — andiamo, conducimi subito dove tu mi suoli vedere. Andiamo al mio studio, in via Sardegna! A quest’ora ci sarò, voglio sperare che a quest’ora non sarò dalla sposina!

Pitagora tenta di dissuaderlo. I due uomini litigano.

— Ma come! se sei qui con noi, Tito mio! — esclamai io sorridendo, con la speranza di richiamalo in sé. — Dici sul serio? Non sai che io ho la specialità degli equivoci? Ho scambiato per te un signore che ti somiglia.

— Sono io! Infame! Traditore! — mi gridò allora il povero pazzo; con gli occhi lampeggianti e con un gesto di minaccia. — Vedi questo pover’uomo? Io l’ho ingannato. Ho sposato senza dirgliene nulla. Ora tu vorresti forse ingannare anche me? Di’ la verità, sei d’accordo con lui? gli tieni mano? Vuoi farmi sposare di nascosto? Conducimi in via Sardegna… Già, so la via; ci vado da me!

Poi Pitagora informa il Bindi che non ha più il possesso del vecchio studio. Non c’è motivo, quindi, d’andare lì.

Per non farlo andar solo, fummo costretti ad accompagnarlo. Via facendo, gli dissi:

— Scusa, ma non ricordi che non ci stai piú in via Sardegna?

S’arrestò, perplesso, a questa mia osservazione; mi guardò un tratto, accigliato; poi disse:

— E dove sto? Questo tu puoi saperlo meglio di me.

— Io? Oh bella! Come vuoi che lo sappia, se non lo sai neanche tu?

Pitagora si chiede se il povero Bindi sia capace di qualsiasi forma di ragionamento logico.

La risposta mi parve convincentissima, e tale da tenerlo fermo e inchiodato lí. Non sapevo che i cosí detti pazzi posseggono anch’essi quella complicatissima macchinetta cavapensieri che si chiama logica, in perfetta funzione, forse piú della nostra, in quanto, come la nostra, non si arresta mai, neppur di fronte alle piú inammissibili deduzioni.

Eventualmente gli uomini iniziano a camminare. È chiaro che, a un certo livello, il povero Bindi capisce d’aver subito una grave rottura con la realtà. La sua vita è a brandelli, cioè, un disastro quasi completo. Sembra aver una disperata voglia per ristabilire la sua identità, ma non ha idea di come farlo.

— Io? Se non so neppure che stia per prender moglie! Che vuoi che sappia io da Forlí ciò che faccio qua, solo, a Roma, libero come un tempo? Lo saprai tu che mi vedi tutti i giorni! Andiamo, andiamo: conducimi; mi affido a te.

E, andando, di tratto in tratto, si voltava a guardarmi, con una muta supplichevole interrogazione negli occhi, che mi passava il cuore; perché con quegli occhi mi diceva che andava in cerca di se stesso per le vie di Roma, in cerca di quell’altro sé, libero e felice, del buon tempo andato;

(Lui vuole aiuto. Questo è straziante!)

Allora Pitagora esprime una preoccupazione nascosta, vale a dire la possibilità che si incontreranno casualmente il Bindi ed il Lévera.

e mi domandava se io lo scorgessi in qualche parte, poiché egli lo cercava con gli occhi miei, che fino a jeri lo avevano veduto. Un’inquietudine angosciosa s’era impadronita di me. Se per disgrazia – pensavo – ci avvenisse d’imbatterci in quell’altro! Lo riconoscerebbe senza dubbio: la somiglianza è cosí evidente e perfetta! E poi, con quelle scarpe che strillano a ogni passo, quell’animale fa voltare tutta la gente! – E mi pareva di sentire da un momento all’altro, dietro di me, il dri dri dri di quelle scarpe maledette.

Pitagora parla ancora una volta direttamente a noi lettori.

Poteva non darsi il caso? Ma neanche a dirlo!

Quirino Renzi entra in un negozio mentre rimangono fuori Pitagora ed il Bindi… lui è sopraffatto dalle emozioni ancora una volta, piuttosto sconvolto, ei suoi problemi sono evidenti a tutti quelli che passano,

Renzi era entrato in un negozio a comperar non so che cosa: io e Tito lo aspettavamo sulla via. Era già quasi sera. Guardavo impaziente il negozio da cui Renzi doveva uscire, e ogni minuto d’attesa, lí fermi, mi sapeva un’ora, quando a un tratto mi sento tirare per la giacca e vedo Tito con la bocca aperta a un sorriso muto di beatitudine, povero figliuolo! e con due grosse lagrime che gli gocciolavano dagli occhi chiari, ilari, parlanti.

…compreso il Lévera!

Lo aveva scorto; me lo additava lí, a due passi da noi, solo, fermo su lo stesso marciapiede.

C’è shock. C’è timore. Ironicamente non tanto per la somiglianza, ma per il bizzarro comportamento del Bindi. Pitagora tenta di rassicurare il Lévera.

Mettetevi un po’, una sola volta almeno, ne’ panni miei, senza ridere! Quel signore, nel vedersi guardato e additato a quel modo, si turbò; ma poi, accorgendosi di me, mi salutò al solito — tanto garbato, poverino! Io mi provai a fargli un cenno di nascosto, mentre con l’altra mano cercavo di trascinarmi via Tito. Non ci fu verso!

Per fortuna, colui aveva compreso il mio cenno e sorrideva; aveva però compreso soltanto che il mio compagno era pazzo; non s’era affatto riconosciuto nelle fattezze di Tito; mentre questi sí, subito, in quelle di lui. Sfido! Erano le sue di tre anni fa… Era lui stesso, che finalmente s’incontrava, qual era stato non piú di tre anni fa. E gli s’era accostato e lo contemplava estatico e lo accarezzava nelle braccia e nel petto, pian piano, sussurrandogli:

— Come sei bello… come sei bello… Questo è il nostro caro Pitagora, vedi?

Il Lévera segnala a Pitagora che capisce. Tito Bindi nota la comunicazione silenziosa, che funziona come una sorta del ‘grilletto’… poi il povero Bindi si lancia in una tirata: avverte il Lévera che non dovrebbe, in nessun caso, sposarsi,

Quel signore mi guardava e sorrideva, imbarazzato e timoroso. Io, per tranquillarlo, gli sorrisi, addolorato. Non l’avessi mai fatto! Tito notò quel nostro sorriso, e sospettando, subito qualche intesa fra noi due, si rivolse, minaccioso, a colui:

— Non prender moglie, imbecille: mi rovini! Vuoi ridurti come me? Straccione e disperato? Lascia quella ragazza! Non ci scherzare, stupido! mascalzone! Senza esperienza…

…ed il Lévera è preso alla sprovvista, offeso da questa bizzarra e inopportuna esplosione,

— Ma insomma! — gridò quel poveretto, rivolto a me, vedendo la gente accorrere curiosa, stupita, tutt’intorno a noi.

…ma Tito Bindi continua la sua sfuriata.

Io ebbi appena il tempo di dire: — Lo compatisca… — Tito mi fu sopra:

— Taci, traditore!

E mi diede uno spintone; poi si rivolse di nuovo a colui, con tono dimesso, persuasivo:

— No, calmati, per carità! Ascoltami… Sei focoso, lo so… Ma io debbo impedirti di trarmi alla rovina una seconda volta…

A questo punto si è radunata una folla. Arriva Quirino Renzi, e trascina via il Bindi.

A questo punto Renzi accorse, cacciandosi tra la ressa, chiamando forte:

— Tito! Tito! Che è accaduto?

— Che? — gli rispose il povero Bindi. — Guardalo: eccolo là! Vuole riprender moglie! Diglielo tu che gli nascerà un bambino cieco… diglielo che…

Renzi a viva forza se lo trascinò via.

Pitagora rimane indietro e tenta di spiegare la situazione al Lévera, che è incredulo, stupefatto.

Poco dopo, io dovetti spiegare ogni cosa a quel signore. M’aspettavo che ne dovesse sorridere; ma non fu cosí. Mi domandò, costernato:

— Ma mi somiglia dunque tanto veramente?

— Ah, ora no! — gli risposi. — Ma se lo avesse veduto prima, tre anni fa, scapolo, qua a Roma… Lei in persona!

— Speriamo allora che fra tre anni, — disse, — io non debba ridurmi come lui…

Un’ultima volta Pitagora parla direttamente a noi lettori.

Dopo tutto questo, avevo sí o no il diritto di credere che tutto fosse finito?

Ebbene, nossignori.

Ci dice d’aver ricevuto una lettera dal Lévera, informandolo che ha deciso di interrompere il fidanzamento e di recarsi invece in America.

Ho ricevuto l’altro jeri – dopo circa due mesi dall’incontro che ho narrato – una cartolina firmata Ermanno Lèvera.

Dice cosí:

Caro Signore,

annunzi a quel tale Bindi che è stato obbedito. Non ho potuto piú dimenticarlo. M’è rimasto davanti come lo spettro del mio destino imminente. Ho sconcluso il matrimonio e parto domani per l’America.

Suo ERMANNO LÈVERA.

Pitagora riconosce il suo ruolo in questa decisione.

Ecco: se io non lo avessi salutato, povero giovine, scambiandolo per quell’altro, a quest’ora, chi sa! egli potrebbe essere un marito felice… chi sa! Tutto può darsi a questo mondo, anche certi miracoli.

Così tante domande! Ad esempio, “Chi è esattamente pazzo?”

Ma penso che se l’incontro con quell’altro poté su lui tanto, da produrre un tale effetto, anch’egli dovette credere d’incontrar nel Bindi se stesso, quale sarebbe stato fra tre anni. E fino a prova contraria non posso in coscienza asserire che questo signor Lèvera sia anche lui pazzo.

Alla fine, Pitagora dice che se mai incontrerebbe la fidanzata e la suocera, le manderà a Forlì!

M’aspetto intanto che uno di questi giorni mi càpiti la visita della sposina abbandonata e della mancata suocera. Le spedisco tutt’e due a Forlí, parola d’onore. Chi sa che non si riconosceranno anche loro nella moglie e nella suocera del povero Tito Bindi. Ormai pare anche a me, che siano tutti, realmente, una cosa sola, con soltanto quel bambino cieco in piú, che qua, se Dio vuole, non nascerà, se è vero che questo signor Lèvera è partito jeri per l’America.

 

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