Riassunto: Pallottoline!

Pallottoline! (L. Pirandello) è un’affascinante esaminazione d’un uomo, apparentemente tormentato, il protagonista, Jacopo Maraventano, mentre lui e la sua famiglia diventano progressivamente più isolati dal mondo che lo circonda immediatamente…. con questo intendiamo dire un mondo naturale.

A prima vista, la storia sembra esser inconsueta dato che il Maraventano sembra esser imperterrito /imperturbato dal mondo naturale che lo circonda… cioè, anche se lui è in cima a una montagna e circondato dalla natura — pensiamo che l’argomento possa essere fatto che il Maraventano è un eremita di sorta — i problemi che lo affliggono non sembrano diminuire / attenuare nel tempo; piuttosto, sembrano intensificarsi.

Perché inconsueta poi? Ebbene, secondo noi, nelle novelle di Pirandello che finora abbiamo letto l’esperienza della natura ha sempre avuto un effetto calmante, curativo, ristoratore… specialmente, ad esempio, in quei personaggi che si sono trasferiti in campagna dopo che non erano in grado d’affrontare le loro vite di città.

D’altra parte però questo potrebb’essere proprio il punto di Pirandello: mentre i personaggi precedenti erano in grado di guarire una volta si erano immersinella natura, il Maraventano si rifiutadi immergersi.

Se questo sia vero, l’idea o il focus centrale di Pallottoline! potrebb’esser i problemi che gli umani affrontino quando soffrono un isolamento che è completo o quasi completo.

Dato che Pallottoline! è ambientato all’inizio di autunno / inverno, ci è venuto in mente che potremmo interpretare la storia come un esempio di ‘cabin fever’: si tratta di un termine idiomatico per una reazione claustrofobica che si verifica quando una persona è bloccata in ambienti chiusi per un lungo periodo di tempo: ‘cabin fever’ descrive l’irritabilità estrema e l’irrequietezza che una persona possa provare in queste situazioni limitanti (Mirriam-Webster). A questo proposito, durante la lettura della novella ci siamo trovati a pensare al romanzo The Shining, di Stephen King, che è stato trasformato in un film fantastico (dello stesso nome), dal regista Stanley Kubrick.

***

Ventotto agosto. Benone! Pochi giorni ancora: meno che un mese. Benone!

E riponeva da parte il fogliolino del calendario insieme con gli altri precedenti, perché ottimo per…

– Ssss!

– Che c’è di male?

– Bada, vien gente,

– Zitta lì, zitta lì. Non ci sono; o, se mai: Il professore studia!di’ così, di’ così, mi raccomando.

All’inizio della storia, il protagonista Jacopo Maraventano conta i giorni fino alla fine della stagione turistica. La storia si svolge in cima al Monte Cave, al di fuori di Roma. Impariamo che appena sotto la vetta ci sono due laghi, il lago d’Albano e il lago di Nemi; ci è spiegato che tutt’e due, nel periodo estivo, rappresentano una popolare attrazione turistica. Inoltre sulla cima del Monte Cave si trova una stazione meteorologica, un osservatorio, che può essere gestita dal governo o da un’università a Roma. Il Maraventano è un meteorologo responsabile dell’operazione dell’osservatorio.

Il Maraventano conta i giorni perché detesta i turisti! Non è raro per uno (o un gruppo) di loro salga da uno dei laghi alla vetta per visitare l’osservatorio, che offre le visite guidate. Ci sembra chiaro che, in questo giorno almeno, il Maraventano vuole evitare qualsiasi contatto con i visitatori.

La scusa che gli consente d’evitare contatto, cioè che “il professore studia”, è in realtà abbastanza accurata. Infatti il Maraventano stava facendo una breve pausa dai suoi studi quando ha cominciato contare i giorni. Poi, dopo aver affrontato l’interruzione, il Maraventano ritorna alla sua lettura (a pagina 124 del suo libro) che pone una domanda: “L’universo… è finito o infinito?” Nella mente del Maraventano, questa sia una domanda comune che è stata posta molte volte prima e che si è dimostrata senza risposta.

Chiudeva subito l’uscio; poi, trac!accostava la persiana. Oh, e ora… Eccolo là: segnale a pagina 124.

L’universo è finito o infinito? Questione antica. È certo che a noi riesce assolutamente impossibile…

Ci viene spiegato che si trova Monte Cave a mille metri sul livello del mare, e che si trovano il due laghi a breve distanza dalla vetta. Qui, la nostra impressione del disprezzo del Maraventano per coloro che visitano l’osservatorio è rafforzata, (es.) chiede lui, “Perché vengono i visitatori?”, e risponde dicendo che vengono soprattutto per poter vedere i laghi dall’alto. In altre parole i visitatori hanno davvero poco (o nessun) interesse nel lavoro dell’osservatorio. Di conseguenza, per il Maraventano, i visitatori sono una perdita di tempo suo.

– Ufff! ufff! ufff! – tre volte di seguito, sempre allo stesso posto: lì, nel mezzo della fronte, ronzando. Ah, ma anche per le mosche, se Dio voleva, erano gli ultimi giorni di baldoria, come per gli «insetti umani» che, a piedi o su somarelli, s’inerpicavano fin lassù, a circa mille metri sul livello del mare. E per vedere che cosa infine? I laghi d’Albano e di Nemi: un paio d’occhiali insellato su quel gran naso con la punta all’insù, ch’è il Monte Cave.

Il significato della data del 28 agosto è che, sulla cima della montagna in particolare, sta finendo l’estate… l’autunno-l’inverno è proprio dietro l’angolo. Questa nozione è rinforzata, naturalmente, dal tempo: è arrivata la nebbia, che è, di solito, il primo segnale della venuta dell’autunno.

Una nebbia infatti umida e densa che ricopre i laghi: qui, siamo trattati per una meravigliosa descrizione dei boschi che circondano i laghi e la vista dalla vetta del terreno al livello del mare, che comprende uno scorcio d’una sezione del Tevere.

Già cominciavano infatti a spesseggiare i giorni di nebbia: quella nebbia umida e densa che toglie lo spettacolo incantevole dei due laghi gemelli ora vaporosi ora morbidi come azzurri veli di seta: occhi, più che occhiali, tra le folte ciglia dei boschi di ippocastani; occhi della pianura laziale, in cui, come serpente lucido enorme, il Tevere, dall’oscuro grembo di Roma, visibile appena là in fondo, si svolge, ricomparendo qua e là nelle ampie volute, fino al mare visibile appena laggiù.

Dov’è il Maraventano? Resta ‘chiuso’ / in isolamento in una stanza all’interno dell’osservatorio. Veniamo a sapere che si trova l’osservatorio all’ultimo piano d’un ex convento. (C’è anche una piccola cappella nelle vicinanze, chiamata Rocca di Papa.) Qualche tempo fa, lo spazio rimanente dell’ex convento era convertito in un albergo. Il Maraventano scredita / denigra sia l’albergo e l’uomo che lo possiede.

Ma nel mentre Jacopo Maraventano si fregava lieto le mani, tappato là, in quel camerino dell’Osservatorio Metereologico, al piano superiore dell’antico convento, situato con l’attigua chiesetta su la cima del monte; alla nebbia invadente imprecava all’incontro l’oste velletrano, che aveva avuto la cattiva ispirazione di ridurre a miseri camerini d’albergo le povere cellette dei frati cacciati via da quel loro alpestre romitorio, e tavole e tavolini aveva disposti per gli avventori su la spianata dietro al convento, dalla parte di levante, sotto un enorme faggio secolare.

Successivamente apprendiamo che, negli ultimi anni almeno, il Maraventano e la sua famiglia hanno vissuto sulla vetta della montagna. Ironia della sorte, i visitatori arrivano in estate, per un breve soggiorno, durante il quale sperimentano la bellezza della vetta ei dintorni, mentre la famiglia del Maraventano, come vedremo, soffre moltissimo dopo che ivisitatori se ne sono andati… a causa dell’isolamento / desolazione e delle condizioni meteorologiche estreme dell’inverno: freddo, nebbia, vento, neve.

Quell’alta vetta di monte, di cui egli con la famigliuola pativa per tutto l’inverno i rigori crudissimi, la desolazione della neve, l’esiliante assedio della nebbia, la furia dei venti doveva con la bella stagione diventare per gli altri a un tratto luogo di delizia!

(Tutto quello che può fare la famiglia, a quanto pare, sia aspettare la primavera!)

Apprendiamo che il proprietario dell’albergo ha iniziato i suoi preparativi per chiuderlo per l’inverno e tornare nella sua città natale. Immaginiamo una conversazione che lui ha con il Maraventano in cui chiede, “Perché rimani qui tutto l’inverno?” e poi il Maraventano risponde, “Perché lo amo qui, idiota.”

– Asino! Ci ho piacere! Piacerone!

In tono canzonatorio / beffardo, il Maraventano lo invita il proprietario a rimanere.

– Ecco la nebbia, asino! Ben ti stia! Piacere, piacerone!

Poi apprendiamo di più della situazione della famiglia ed in particolare d’un conflitto: mentre il Maraventano sembra aver un grande piacere nella sua vita all’osservatorio in autunno/inverno, non è così per gli altri della sua famiglia.

La famiglia è composta da una moglie, Guendalina; una figlia, Didina, che ha circa vent’anni; ed un bambino, Franceschino, che ha quasi tre anni e mezzo. Ci veien spiegato che i membri della famiglia considerano la vita alla vetta della montagna un piacere durante primavera/estate, ma un incubo durante autunno/inverno, soprattutto dopo che sono partiti i visitatori.

Non la pensavano però come lui la moglie e la figlia Didina, già su i vent’anni, e neanche Franceschino, che pure era nato e cresciuto lassù. Per loro l’estate era una benedizione, e la sospiravano ardentemente in segreto tutto l’inverno. Potevano almeno sentire in quei mesi un po’ di vita attorno e veder gente e scambiare qualche parola; e Didina, chi sa! poteva anche dar nell’occhio a qualche giovanotto, tra i tanti che salivano a visitare l’Osservatorio,

Poi scopriamo che è stata presa qualche tempo fa la decisione del Maraventano di non avere più nulla a che fare con i visitatori dell’osservatorio. Come tale, Guendalina è stata costretta ad assumersi la responsabilità per i tour dell’osservatorio, che lo fanno in modo meccanico, vale a dire al meglio delle sue capacità, data la sua mancanza di formazione formale in meteorologia. Cosa c’è di più alla fine d’ogni tour Guendalina chiede ad ogni visitatore di firmare un registro e, se lo desidera, scrivere un breve commento.

ai quali la buona signora Guendalina, bruna, magra, ossuta, col volto bruciato dai rigori invernali, non mancava di ripetere, invece del marito, come poteva (cioè sempre con le stesse parole e gli stessi gesti), la spiegazione dei pochi strumenti per le osservazioni meteorologiche. Dopo la spiegazione presentava ai visitatori un registro, perché vi apponessero la firma e, accanto, qualche pensiero.

Adesso, un breve sguardo a Didina, qualche tempo fa, durante l’inverno, mentre rilegge uno dei registri e rivive il ricordo della montagna in estate e quello d’un corteggiatore.

Lasciava andar certi sospironi la povera Didina rileggendo in quel registro, nelle serate d’inverno lassù, quei pensieri in margine e talvolta qualche poesiola: quella, per esempio, indirizzata proprio a lei (All’edelweiss di Monte Cave). Ah, il giovane poeta che l’aveva scritta chi sa dov’era ormai, se pensava più a lei, se sarebbe ritornato la ventura estate!

Ci viene poi detto che Guendalina, di volta in volta, incoraggia il Maraventano ad impegnarsi ed interagire con i visitatori, che spesso lo chiedono. Quando ciò accade, tuttavia, Didina la ferma sua mamma a causa dell’aspetto di suo padre: il Maraventano sembra fare poco o nessuno sforzo per curarsi i capelli e la barba, e quindi sarebbe un imbarazzo se dovesse salutare i visitatori.

La signora Guendalina tentava, ma timida, d’indurre il marito rinchiuso a farsi vedere dai visitatori. Non foss’altro, per dovere d’ospitalità, diceva. Ma Didina, ogni qualvolta la madre si provava a muovere questo discorso, le dava sotto sotto gomitate: poi, a quattr’occhi, le faceva notare che, se il babbo non si persuadeva prima a farsi tagliare quell’aspra selva di capelli riccioluti e quel barbone mostruoso, arruffato che gli aveva invaso le guance fin sotto gli occhi, era meglio che non si lasciasse vedere.

Il nostro senso è che il Maraventano non solo agisca come d’un eremita (cioè, uno che vive in splendido isolamento), ma che ha anche l’aspetto d’un eremita!

Non sorprendentemente, quindi, gli sforzi di Guendalina per rendere suo marito si unisca a lei finiscono quasi sempre per fallire (es.) quando lei viene interrogata da un visitatore quanto al luogo in cui dove si trova suo marito, lei dirà, sottomessamente, che lui sta studiando e dunque non disponibile.

La madre ne conveniva, sospirando; e alla domanda dei visitatori:

– Il professore dov’è?

– Il professore studia, – rispondeva con gli occhi bassi, invariabilmente.

Il Maraventano studia ad un ritmo lentissimo. Scopriamo che la sua area d’interesse è l’astronomia e che ‘assapora’ ciò che legge: su ogni pagina si sofferma / si trattiene / si attarda… è come se fosse rapito dai suoi studi! Allo stesso tempo, il Maraventano è facilmente distratto, non solo dai visitatori e dalla sua famiglia, ma anche da un ‘dialogo interno’ nella sua mente, che può portarlo a sognare, ad immaginare e ad impegnarsi in voli di fantasia: sembra essere continuamente stupito dal potere dell’universo!

Studiava davvero il Maraventano, o almeno stava immerso tutto il giorno nella lettura di certi libracci che trattavano d’astronomia, unico suo pascolo. La lettura però andava a rilento, poiché egli si lasciava distrarre dalla fantasia, rapire da ogni frase per le infinite plaghe dello spazio, da cui non sapeva poi ridiscendere più, come la moglie avrebbe desiderato. Ma ridiscendere perché? Per mostrare lì alla gente che veniva a frastornarlo, a seccarlo, e da cui una così sterminata distanza lo allontanava, come agisse un pluviometro o un anemometro, per far vedere i sismografi o i barometri? Eh via! Un giorno gli sapeva un anno, che quella processione di seccatori terminasse.

Passa poco tempo e apprendiamo che mentre la maggior parte dei visitatori dell’osservatorio se ne è andata, rimane uno,

Per fortuna, dei pochi matti che avevano preso alloggio nel sedicente albergo, uno solo resisteva ancora alle incalzanti minacce del tempo.

…poi siamo trattati per una bella descrizione del cambio di stagione… vale a dire l’inizio del freddo, della nebbia e del vento, e le implicazioni di questi cambiamenti per la terra.

Già l’autunno si ridestava con certi sbuffi che scotevano là sulla cima la grave e stanca immobilità dei grandi alberi esausti; e quando quegli sbuffi non avevano alcun impeto contro le povere foglie moribonde, erano fitti ribocchi di nebbia, che si ergevano a onde, impigliandosi pigri tra i rami attediati, in basso stagnando sui laghi; o fumigavano qua e là dai boschi sottoposti, che pareva ardessero a lento, senza fiamma, senza crepito. Sembrava certi giorni che tutta l’aria si fosse raddensata in un fumo bianchiccio, umido, accecante: e allora la vetta del monte restava come esiliata dal mondo, e dalla spianata non si sarebbe potuto scorgere neanche a un passo il convento.

Ora, la nebbia è così densa che uno può a malapena vedere più di pochi metri avanti. Eppure, un visitatore rimane? Non fa buon senso! ed il Maraventano è determinato a scoprire la ragione.

E tuttavia quell’ultimo matto resisteva lì.

Jacopo Maraventano non tardò a intenderne la ragione.

Una notte, per caso, il Maraventano sente uno suono strano appena fuori dalla finestra; va fuori per indagarlo, ma può vedere quasi nulla; alla fine, tuttavia, discerne le voci di Didina ed un corteggiatore.

Una sera, dalla sua finestretta, per entro a quella nebbia fittissima, udì, o gli parve, certi bisbigli, che non potevano esser presi per gli acuti stridii che sogliono lanciare nell’aria i pipistrelli, o gli scojattoli su per i rami degli alberi.

Zitto zitto, quatto quatto, scese su la spianata. Né egli discerneva tra la nebbia gl’innamorati, né questi tra loro si discernevano.

Dall’alto sospirava una voce:

– Cadrà tanta neve… tanta neve…

– Dev’esser bello, – rispondeva dalla spianata l’altra voce.

– Bello sarebbe per me, se tu rimanessi qua; ma per te no, caro. Si muore di freddo, sai?

– Povero amore! Ma ora io debbo partire. Ti giuro però che tornerò tra poco.

– Non tornerai, ne sono certa. Io resterò per te, nel tuo cuore, il ricordo di un’estate in montagna…

Poi la conversazione dei giovanotti viene interrotta, improvvisamente, quando tossisce il Maraventano. Il corteggiatore cerca di fuggire, ma viene presto catturato.

La voce dalla spianata voleva protestare; ma Jacopo Maraventano tossì forte, e subito corse con le mani avanti, come un cieco, in direzione del convento, per tagliar la via al giovanotto che se la svignava radendo il muro. Venne proprio a cadergli tra le braccia.

(La reazione quasi istantanea del corteggiatore, così come il suo tentativo di fuggire, suggerisce che il Maraventano potrebb’aver catturato prima, in conversazione intima, questi due!)

Il Maraventano incoraggia il giovanotto a lasciare la montagna; tenta anche di castigare Didina che, tuttavia, è fuggita dalla scena, in lacrime, nel tentativo di rifugiarsi tra le braccia di sua mamma.

All’inciampone, indietreggiò, balbettando:

– Oh, scusi… Buo… buona sera, professore.

– Buona sera. Lei va a far le valige, non è vero?

– Sì… sissignore… Conto di partire domattina.

– Fa bene. Buon viaggio! Quassù non tira più buon’aria. E neanche il babbo si riesce più a scorgere…

– Come dice?

– Non dico a lei, dico a mia figlia. È vero, Didina, che con questa nebbia non scorgi più neanche il babbo tuo?

Ma Didina era già scappata in lagrime a rifugiarsi presso la mamma.

Adesso, finalmente, la famiglia è completamente sola. Il Maraventano è felice perché può immergersi nello studio dell’astronomia… può meravigliarsi, ad esempio, del movimento incessante delle stelle e della creazione quasi costante delle nuove stelle e della distruzione di quelle vecchie,

Con la partenza di quel giovanotto parve davvero che l’inverno si stabilisse finalmente lassù. L’oste chiuse l’albergo e, borbottando imprecazioni, se ne discese a Velletri.

Su la vetta ormai si udiva solo il vento parlare con gli alberi antichi. Jacopo Maraventano restava assoluto padrone della solitudine, libero in mezzo alla nebbia, signore dei venti, piccolo su quell’alta punta nevosa al cospetto del cielo che da ogni parte lo abbracciava e nel quale d’ora in poi poteva tornare a immergersi, a naufragare, non più infastidito o distratto. Assistendo, come gli pareva d’assistere con la fantasia, nel fondo dello spazio, alla prodigiosa attività, al lavoro incessante della materia eterna, alla preparazione e formazione di nuovi soli nel grembo delle nebulose, al germogliare dei mondi dall’etere infinito: che cosa diventava per lui questa molecola solare, chiamata Terra, addirittura invisibile fuori del sistema planetario, cioè di questo punto microscopico dello spazio cosmico?

…mentre lui anche passa tempo, egli sforzi considerevoli, per comprendere il posto del nostro sistema solare nell’universo, cioè l’importanza relativa del nostro sole, della terra e dei suoi abitanti umani. Ci viene spiegato che il Maraventano è venuto a venerarel’universo, la sua vastità e il suo potere… la scienza dell’astronomia ha catturato la sua immaginazione e gli ha permesso di sognare. Lui è arrivato a credere nella relativa insignificanza della Terra e degli esseri umani.

Che cosa diventavano questi polviscoli infinitesimali chiamati uomini; che cosa, le vicende della vita, i casi giornalieri, le afflizioni e le miserie particolari, le generali calamità?

Questa è una ricerca isolata, tuttavia, nel senso che Guendalina e Didina non condividono la passione per l’astronomia: infatti la loro preoccupazione principale è più personale e pratico, cioè, la sterilità delle loro vite sulla cima della montagna nell’inverno.

E di questo suo disprezzo, non che della Terra, ma di tutto il sistema solare, e della stima che si era ridotto a far delle cose umane, considerandole da tanta altezza, avrebbe voluto far partecipi moglie e figliuola, che si lamentavano di continuo ora per il freddo ora per la solitudine, traendo da ogni piccola infelicità argomento di lagni e sospiri.

Il Maraventano, che sembra ignorare le loro preoccupazioni, non può impedirsi di spiegare le sue idee sull’universo e su come queste abbiano costituito la base di ciò che lui ritiene esser vero.

E le sere d’inverno, lassù, mentre Didina e la madre, infreddolite, se ne stavano raccolte in cucina e lui, senza neppure saperlo, sventolava davanti al fornello per far bollire la pentola, parlava loro delle meraviglie del cielo, spiegava la sua filosofia.

Il Maraventano, ad esempio, crede che il sole sia il centro del nostro sistema solare e che il nostro sistema solare sia solo uno dei molti molti molti molti sistemi solari che compongono la Via Lattea, che, a sua volta, è solo una parte molto molto molto molto piccola dell’universo. Si meraviglia della vastità dell’universo e disprezza il significato del nostro sistema solare e degli esseri umani.

– Punto di partenza: ogni stella un mondo a sé. Un mondo, care mie, non crediate, più o meno simile al nostro; vale a dire: un sole accompagnato da pianeti e da satelliti che gli rotano intorno, come i pianeti e i satelliti del nostro sistema attorno al sole nostro, il quale, sapete che cos’è? Vi faccio ridere: nient’altro che una stella di media grandezza della Via Lattea. Ne volete un’idea? Trasportate nello spazio il nostro mondo – questo così detto sistema solare – a una distanza uguale… non dico molto – a poche migliaja di volte il suo diametro, cioè, alla distanza delle stelle più vicine. Orbene, il nostro gran sole sapete a che cosa sarebbe ridotto rispetto a noi? Alle proporzioni d’un puntino luminoso, alle proporzioni di una stella di quinta o sesta grandezza: non sarebbe più, insomma, che una stellina in mezzo alle altre stelle.

(Questo è davvero un punto di partenza significativo, dato che Guendalina e Didina sono religiose: sembrano credere, ad esempio, che la Terra sia il centro del nostro sistema solare, anzi, al centro dell’universo, e che gli umani siano una creazione di Dio di importanza critica! Questi punti di vista, a dir poco, sono diametralmente opposti a quelli del Maraventano.)

In questo momento, la famiglia inizia a litigare come Didina interrompe il Maraventano per dichiarare cosa crede lei,

– Scusa, – interloquiva Didina, che insieme con la madre, non sapendo che fare, gli prestava ascolto, d’inverno. – Hai detto rispetto a noi. Ma, trasportando il sole, la terra non dovrà pure, per conseguenza…

…il Maraventano sembra aver poca tolleranza per tali opinioni,

– No, asinella! – la interrompeva il padre. – La terra lasciala qua. È un’ipotesi, per farti capace.

…Didina risponde,

Didina alzava le spalle: non si capacitava.

– Che c’entra! Il sole è sempre il sole.

…e, purtroppo, il Maraventano può solo rimproverare / deridere sua figlia.

– E che cos’è? – le gridava allora il padre sdegnatissimo. – Ma lo sai che se Sirio sputa, il sole ti si spegne, come una candela di sego? Sappilo: – pah! si spegne.

(Il nostro senso adesso è che il Maraventano ha pocissimo rispetto per entrambi moglie e figlia.)

A questo punto della conversazione, Guendalina interrompe con una richiesta pratica d’aiuto con il fuoco nella loro forno (è quasi estinta), mentre la famiglia tenta di far bollire l’acqua e di stare al caldo.

– Jacopo, – diceva placidamente la signora Guendalina. – Se non ci metti altro carbone, ti si spegne pure il fuoco e l’acqua ti bolle per l’anno santo.

Il Maraventano, tuttavia, rifiuta di aiutare. Osserva che ci sono delle braci che rimangono nel fuoco e che, abbastanza presto, il vento sarà abbastanza forte da invadere il loro appartamento e riaccendere le fiamme!

Egli allora scoperchiava la pentola, guardava dentro, poi rispondeva alla moglie:

– No, comincia a muoversi. Faccio vento, lo vedi. Ma veniamo ai nostri grandi pianeti. Care mie, alla distanza che vi ho detto, s’involerebbero addirittura al nostro sguardo, tutti, meno, forse, Giove… forse! Ma non crediate che potreste scorgerlo a occhio nudo! Forse con qualche telescopio di prim’ordine; e non lo so di certo. Pallottoline, care mie, pallottoline! Quanto a noi, alla nostra Terra, non se ne sospetterebbe nemmeno l’esistenza. E volete far sparire anche il sole? Basta, col beneplacito di Didina, senz’altro, là! retrospingerlo alla distanza delle stelle di prima grandezza. C’è? Non c’è? Uhm! Sparito.

Poi infatti arriva un vento davvero forte, e la descrizione della condizione della famiglia — all’inizio dell’inverno non meno — sembra essere terrificante!

Il vento cacciava dentro la stanza, attraverso la gola del camino, un mugolìo continuo, opprimente. Nei brevi intervalli tra una fase e l’altra del Maraventano pareva che il silenzio sprofondasse pauroso nella tenebra. Si udivano allora gemere gli alberi tormentati della vetta, e se questi alberi tacevano per un istante e si udiva invece da più lontano il frascheggiare confuso dei boschi sottoposti, lassù pareva si stesse sospesi tra le nuvole, come in un pallone. Ma se poi dal fornello scoppiava una favilla, le due donne sentivano il conforto di quella stanza familiare, illuminata, intepidita dal fuoco; e la immobilità delle stoviglie appese alle pareti e della povera e scarsa suppellettile rassettava il loro animo conturbato dal vento e dal panico della notte in quella orrenda solitudine alpestre.

(È veramente difficile per il lettore immaginare, due mesi dopo, come sarà la loro vita!)

Per minimizzare l’importanza del nostro sistema solare, il Maraventano immagina il sole e i suoi pianeti come una serie di pallottoline o globi piccolissimi, che si perdono nella vastità dell’universo; e con se stesso, l’astronomo, nel controllo, cioè, qualcuno che si destreggia le pallottoline.

Il Maraventano, sopra le regioni del vento, sopra le nuvole più alte, era rimasto intanto con la ventola da cucina in mano nella remotissima plaga dello spazio, dove un momento innanzi aveva lanciato, come un giocoliere i suoi globetti di vetro, tutto il sistema planetario, e scrollava il capo, con le ciglia aggrottate, gli occhi socchiusi e gli angoli della bocca contratti sdegnosamente in giù.

Alla fine, ci rendiamo conto che il Maraventano sembra esser un uomo che ha trattenuto una quantità di rabbia e furore considerevole.

A un tratto esplodeva tra il barbone abbatuffolato, come se ripiombasse su la terra, lì, in cucina:

– Bah!

Il Maraventano, secondo noi maliziosamente, continua a parlare senza sosta… non è ninete di meno d’un torrente di fatti, che sono presentati in tal modo, e con tanto fervore e passione, che sembrano quasi un liguaggio privo di senso!

E con la ventola faceva un largo gesto indeterminato. Poi riprendeva, con gli occhi immobili e invagati:

– Pensare… pensare che la stella Alfa della costellazione del Centauro, vale a dire la stella più vicina a questo nostro cece, alias il signor pianetino Terra, dista da noi trentatré miliardi e quattrocento milioni di chilometri! Pensare che la luce, la quale, se non lo sapete, cammina con la piccolissima velocità di circa duecento novantotto mila e cinquecento chilometri al minuto secondo (dico secondo), non può giungere a noi da quel mondo prossimo che dopo tre anni e cinque mesi – l’età cioè del nostro buon Franceschino che sta a sfruconarsi il naso col dito, e non mi piace… Pensare che la Capra dista da noi seicentosessantatré miliardi di chilometri, e che la sua luce, prima d’arrivare a noi, con quel po’ po’ di velocità che v’ho detto, ci mette settant’anni e qualche mese, e, se si tien conto dei calcoli di certi astronomi, la luce emessa da alcuni remoti ammassi ci mette cinque milioni d’anni, come mi fate ridere, asini! L’uomo, questo verme che c’è e non c’è, l’uomo che, quando crede di ragionare, è per me il più stupido fra tutte le trecento mila specie animali che popolano il globo terraqueo, l’uomo ha il coraggio di dire: «Io ho inventato la ferrovia!». E che cos’è la ferrovia? Non te la comparo con la velocità della luce, perché ti farei impazzire; ma in confronto allo stesso moto di questo cece Terra che cos’è? Ventinove chilometri, a buon conto, ogni minuto secondo; hai dunque inventato il lumacone, la tartaruga, la bestia che sei! E questo medesimo animale uomo pretende di dare un dio, il suo Dio a tutto l’Universo!

(Qui, ci fermiamo a chiederci se il Maraventano è pazzo! Ma presto la sua diatriba diventa un po’ più reale. Comprendiamo che la sua preoccupazione principale è con la vastità e il potere dell’universo in contrasto con l’ignoranza e l’arroganza degli umani.)

Guendalina riconosce che suo marito ha espresso qualcosa di blasfemo; lei lo implora di smettere.

Qui il Maraventano e la moglie si guastavano.

– Jacopo! – pregava la signora Guendalina. – Non bestemmiare. Fallo almeno per pietà di noi due povere donne esposte quassù…

Il Maraventano la ignora. A questo punto, afferma che gli umani sono non solo ignoranti ma hanno paura… e questo li ha portati a creare religione.

– Hai paura? – le gridava il marito. – Temi che Dio, perché io bestemmio, come tu dici, ti mandi un fulmine? C’è il parafulmine, sciocca. Vedi dond’è nato il vostro Dio? Da codesta paura. Ma sul serio potete credere, pretendere che un’idea o un sentimento nati in questo niente pieno di paura che si chiama uomo debba essere il Dio, debba essere quello che ha formato l’Universo infinito?

Questo è un passo troppo lungo… Guendalina e Didina si tappano le orecchie; non possono ascoltare più di questo! Il Maraventano — frustrato, arrabbiato, esasperato — lascia la stanza e si ritira nel suo ufficio.

Le due donne si turavano gli orecchi, chiudevano gli occhi; allora il Maraventano scaraventava per terra la ventola, e gridando con le braccia per aria:

– Asine! asine! – andava a chiudersi nella sua stanzetta e, per quella sera, addio cena.

Ancora una volta ci interrogiamo sullo stato mentale del Maraventano mentre apprendiamo, sfortunatamente, che queste diatribe ed esplosioni diventano una parte normale della vita familiare,

Simili scene avvenivano assai di frequente, poiché né Didina né la moglie volevano adattarsi alla filosofia di lui, specialmente quando avevano bisogno di qualche cosa.

…ancora una volta, ci viene svelata la rabbia del Maraventano.

– Diviene, – diceva loro il Maraventano – dal non sapere filare un ragionamento semplicissimo; dal non volere guardare in su un momentino. Oh Alfa del Centauro! oh Sirio, oh Capella! sapete perché piange Didina? Piange perché non ha una veste nuova d’inverno da farsi ammirare in chiesa, le domeniche, a Rocca di Papa. Roba da ridere!

– Roba da ridere; ma io mi muojo dal freddo, – rispondeva tra le lagrime Didina.

E il Maraventano:

– Senti freddo, perché non ragioni!

(In quale altro modo possiamo spiegare la sua crudeltà nei confronti di Didina e i suoi ripetuti tentativi di deriderla?)

Ed ora, veniamo a vedere un po’ l’arroganza del Maraventano mentre venera il lavoro d’un astronomo e prende in giro le preoccupazioni quotidiane degli esseri umani.

Non a parole soltanto dimostrava egli il disprezzo in cui teneva la terra e tutte le cose della vita. Soffriva di mal di denti, e talvolta la guancia per la furia del dolore gli si gonfiava sotto il barbone come un’anca di padre abate: ebbene, senz’altro, retrospingeva nello spazio il sistema planetario: spariva il sole, spariva la terra, tutto diventava niente, e con gli occhi chiusi, fermo nella considerazione di questo niente, a poco a poco addormentava il suo tormento.

– Un dente cariato, che duole nella bocca di un astronomo… Roba da ridere.

Infine, apprendiamo che il Maraventano, durante tutto l’anno, è responsabile per una serie dei resoconti che riassumono il lavoro dell’osservatorio. Non spedisce questi a Roma, anche se può; cammina invece dall’osservatorio a Roma, dove consegna i rapporti a mano! E resta sempre a Roma un giorno in più, in modo da poter vedere l’universo tramite un telescopio d’una delle università romana.

Per noi, il Maraventano venera l’universo un’ultima volta mentre deride l’importanza della Terra.

Sia d’estate, sia d’inverno, fosse nuvolo o sereno, si recava ai piedi, dalla cima del monte, fino a Roma. Avrebbe potuto spedire per posta da Rocca di Papa il bollettino meteorologico all’ufficio centrale; ma a Roma lo attendeva il maggior godimento della sua vita. Vi si tratteneva ogni volta una notte, e per grazia particolare dei Direttore del Collegio Romano la passava beatamente tutta intera al telescopio. La moglie, nel vederlo partire, tentava d’indurlo a servirsi della vettura da Rocca di Papa a Frascati o, almeno, della ferrovia da Frascati a Roma:

– Prenderai un’insolazione!

– Il sole, mia cara, ti serva: non è neanche buono da regolare gli orologi! – le rispondeva il Maraventano.

E il suo orologio, infatti, sul cui quadrante aveva scritto con inchiostro rosso: Solis mendaces arguit horas, non era regolato col tempo solare.

La distanza? Ma su la terra per lui non ci erano distanze. Congiungeva ad anello l’indice e il pollice d’una mano e diceva alla moglie sghignazzando:

– Ma se la Terra è tanta…

***

Alla fine, Jacopo Maraventano è un protagonista che vorremmo amare — dopotutto, è eccentrico ed ossessionato, forse matto, e dunque interessante. Ma tratteniamo il nostro ‘amore’ perché lui è anche inflessibile ed un bullo, una persona cattivo… e dunque noioso.

La sua personalità in realtà ci impedisce di voler saperne di più sulle sue idee, il che è davvero sfortunato. Il concetto e la scienza dell’universo scientifico sono qualcosa che ha affascinato l’umanità fin dall’antichità (es.) del tempo di Plato: vedi l’articolo qui sotto riportato dal New York Times:

 

Opinion

 

What Did Plato Think the Earth Looked Like?

For millenniums, humans have tried to imagine the world in space. Fifty years ago, we finally saw it.

[Fifty years ago, astronauts aboard the Apollo 8 mission beamed back the first color photograph of the earth, as it “rose” over the moon. Flat-earthism notwithstanding, humans had long imagined what the earth looked like from space.This project, assembled by students at the Macaulay Honors College of the City University of New York, explores that history.]

ByTed Widmer

Dec. 24, 2018

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A spherical earth of air, land and water dominates this illustration, taken from a Latin poem, the “Vox Clamantis,” or “The Voice of One Crying Out.” It was written by the English writer John Gower in support of the Great Rising, a peasant rebellion of 1381. In this image, the author shoots his arrows at the earth, but adds that it will not harm the righteous.

“Hey, don’t take that, it’s not scheduled,” Frank Borman said, joking to his fellow Apollo 8 astronauts, Bill Anders and James Lovell, on Dec. 24, 1968. They were orbiting the moon, farther from Earth than any humans had ever been. On the fourth pass, they were confronted by an extraordinary sight that jolted them out of their regimented procedures. There, seen through a small window, was Earth itself, rising out of the void.

For a split second, the astronauts were dazzled by the luminescent blue sphere, whorled by a white cloud cover. Then, as they were trained to do, they went back to work. As it turned out, Mr. Anders was the one who snapped a color photo, just after his fellow astronauts, Frank Borman and James Lovell, called his attention to the greatest photo op in history.

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The first color image of the earth, taken by the Apollo 8 astronauts in 1968.

 

That this life-giving place was the same thing as Creation was a message the astronauts reinforced on the same day, with their reading from the Book of Genesis. At the end of a bitterly divisive year, it was a rare chance, unscheduled, for all of the inhabitants of the planet to remember that they were united by factors beyond their control. Evangelicals, scientists, Americans, Russians, Chinese, Vietnamese: All people on Earth marveled that it was possible. The mission was a miracle, and so was the planet that hovered there, above the tiny spacecraft.

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The 13th-century Ebstorf map was rediscovered in a convent in Ebstorf, Germany, around 1830. Its creator, probably associated with the Ebstorf monastery, superimposed the body of Christ and depicted atypically realistic islands and rivers. He also populated the map’s margins with monsters. The original was destroyed by Allied bombing during World War II.

The study of Earth had been far from the minds of NASA’s architects at the beginning of the space program; the whole point was to escape it. But as the astronauts kept sailing deeper into the night, they could not help looking backward at the shrinking planet.In this film, Frank Borman compares it to the size of his thumbnail.

A great deal of earth science has come from that discovery; perhaps self-discovery is a better phrase. NASA’s spacecraft and their cameras have helped to locate ancient monuments and crop circles covered by forest canopies; oil leaks in the oceans; the disappearing Aral Sea; crazy weather, shrinking glaciers and other signs of a planet that has changed a great deal since 1968.

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Psalter World Map, c.1265. Considered one of the great medieval world maps, it is believed to be a copy of the map that adorned King Henry III’s bed chamber. Jesus Christ appears above the earth, and various astronomical features create the impression of a planet suspended in space. As with most medieval European maps, Asia is shown at the top, Africa to the bottom right and Europe at the bottom left.

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This innovative map, from 1530, shows the earth in the shape of a human heart. Combining features of both a map and a globe, its artist, Peter Apian, reveals the recent discoveries across the Atlantic. Surrounded by figures representing the winds, this earth also appears to be suspended in space.

Largely for that reason, many of the budgets for earth science, including NASA’s, are in danger of being slashed by government officials who are uncomfortable withthe science that the cameras reveal. The astronauts were braver; they accepted all of the information, terrifying or miraculous as it might be, that confronted them. Their courage continues to light a way forward.

Sadly, NASA is one of the agencies affected by the government shutdown. About 95 percent of its employeeswill not be able to workuntil its funding is restored. High-priority missions will continue, including a close encounter with a distant object called Ultima Thule, scheduled for 33 minutes past midnight on New Year’s Eve. But the longer the impasse continues, the worse it will be for a program that depends on normal politics for its remarkable science.

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The “Shanhai Yudi Quantu,” or “Complete Terrestrial Map,” was printed from woodblocks and published in the “Sancai Tuhui,” a Chinese reference book, in 1609. China is centrally located.

For millenniums, humans had wondered what it might be like to look back at themselves from a great distance. As this gallery shows, it was a universal human aspiration, uniting people from all parts of the world. To a surprising degree, many knew, or at least intuited, that Earth was a sphere, and not flat at all. Plato likened it to a leather ball made from a “patchwork of colors.” Around the time Christ was born, the Roman poet Ovid described the planet as “poised in the enveloping air, balanced by its own weight.” In other words, exactly as the astronauts saw it.

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Hinged outer panels of “The Garden of Earthly Delights” by Hieronymus Bosch, 1490-1510, showing the state of the globe at the end of the third day of creation, when the separation between light and darkness, heaven and earth, water and land has already taken place (Genesis 1:1-13). Bosch depicts the earth’s surface as a disk, but integrates it into a sphere, the lower part being filled with water.

Flat-earthismhas not entirely disappeared, despite the achievement of science, and sophisticated forms of denial still occlude the atmosphere. But as these images show, the planet was round all along, equally home to all of its inhabitants, unique and irreplaceable.”

***

Inoltre, per quanto riguarda la scienza contro la religione, molte delle idee espresse dal Maraventano sono state espresse prima (es.) da eminenti scienziati come Einstein, come descritto nell’articolo seguente dal New Yorker:

 

“Reading Into Albert Einstein’s God Letter

By Louis Menand

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Einstein had what might be called a night-sky theology, a sense of the awesomeness of the universe that even atheists and materialists feel.

 

Albert Einstein’s so-called God letter first surfaced in 2008, when it fetched four hundred and four thousand dollars in a sale at a British auction house. The letter came back into the news earlier this month, when its owner or owners auctioned it off again, this time at Christie’s in New York, and someone paid $2.9 million for it, a pretty good return on investment, and apparently a record in the Einstein-letters market. The former top seller was a copy of a letter to Franklin Roosevelt from 1939, warning that Germany might be developing a nuclear bomb. That one was sold at Christie’s for $2.1 million, in 2002. If you have any extra Einstein letters lying around, this might be a good time to go to auction.

Although it bears his signature, Einstein didn’t actually write the bomb letter. It was written by the physicist Leo Szilard, based on a letter that Einstein had dictated. But, if auction price is at all relative to historical significance, that letter should be way more valuable than the God letter. The God letter was cleverly marketed, though. “Not only does the letter contain the words of a great genius who was perhaps feeling the end fast approaching,” Christie’s said on its Web site, “It addresses the philosophical and religious questions that mankind has wrestled with since the dawn of time: Is there a God? Do I have free will?” The press releasecalled it “one of the definitive statements in the Religion vs Science debate.” Journalistic interest was stirred up by the question of whether the letter might contradict other comments that Einstein is recorded having made about God.

This all made the letter sound a lot more thoughtful than it is. Einstein did have views about God, but he was a physicist, not a moral philosopher, and, along with a tendency to make gnomic utterances—“God does not play dice with the universe” is his best-known aperçu on the topic—he seems to have held a standard belief for a scientist of his generation. He regarded organized religion as a superstition, but he believed that, by means of scientific inquiry, a person might gain an insight into the exquisite rationality of the world’s structure, and he called this experience “cosmic religion.”

It was a misleading choice of words. “Cosmic religion” has nothing to do with morality or free will or sin and redemption. It’s just a recognition of the way things ultimately are, which is what Einstein meant by “God.” The reason that God does not play dice in Einstein’s universe is that physical laws are inexorable. And it is precisely by getting that they are inexorable that we experience this religious feeling. There are no supernatural entities out there for Einstein, and there is no uncaused cause. The only mystery is why there is something when there could be nothing.

In the God letter, the subject is not the cosmic religion of the scientist. It is the organized religion of the believer, a completely different subject. Einstein wrote the letter, in 1954, to an émigré German writer named Eric Gutkind, whose book “Choose Life: The Biblical Call to Revolt” he had read at the urging of a mutual friend and had disliked so much that he felt compelled to share his opinion of it with the author. A year later, Einstein died. Gutkind died in 1965; it was his heirs who put the letter up for auction, in 2008.

The letter to Gutkind is conspicuously short on metaphysics. It’s essentially a complaint about traditional Judaism. Einstein says that he is happy being a Jew, but that he sees nothing special about Jewishness. The word God, he says, is “nothing more than the expression and product of human weakness,” and the Hebrew Bible is a collection of “honorable, but still purely primitive legends.”

In some news accounts, Einstein is quoted as calling the Biblical stories “nevertheless pretty childish,” but that is not what his lettersays. That phrase was inserted by a translator, apparently at the time of the first auction. Nor does Einstein call Judaism “the incarnation of the most childish superstitions,” also a translation error. The word that he uses is “primitiven”—that is, “primitive,” meaning pre-scientific. He is saying that, before humans developed science, they had to account for the universe in some way, so they invented supernatural stories. (Such is the nature of our own super-scientific age, however, that if you perform a search for “Einstein childish God,” you will get thousands of hits. Einstein will be eternally associated with a characterization he never made.)

Einstein had what might be called a night-sky theology, a sense of the awesomeness of the universe that even atheists and materialists feel when they gaze up at the Milky Way. Is it too awesome for human minds to know? A scientist from a generation before Einstein, William James, thought that maybe we can’t—maybe our brains are too small. There might indeed be something like God out there; we just can’t pick it up with the radar we’ve got. In James’s lovely metaphor, “We may be in the universe as dogs and cats are in our libraries, seeing the books and hearing the conversation, but having no inkling of the meaning of it all.”

The best thing in Einstein’s letter to Gutkind is not the grouchy dismissal of traditional theology. It’s the closing paragraph, where Einstein puts all that aside. “Now that I have expressed our differences in intellectual convictions completely openly,” he writes, “it is still clear to me that we are very close to each other in the essentials, that is, in our evaluations of human behavior.” He thinks that if he and Gutkind met and talked about “concrete things,” they would get along fine. He is saying that it doesn’t matter what our religious or our philosophical commitments are. The only thing that matters is how we treat one another. I don’t think it took a genius to figure this out, but it’s nice that one did.”

 

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