Riassunto: Due letti a due

Due letti a due (L. Pirandello), è un meravigliosa novella che, secondo noi, esamina il concetto di ‘simmetria’, nel campo del design e soprattutto per quanto riguarda i rapporti umani, e, in particolare, le relazioni tra uomini e donne…

***

Prima di dire qualcosa di più sulla storia, tuttavia, notiamo che ‘simmetria’ è definita come segue:

1: proporzioni equilibrate anche: bellezza della forma derivante da proporzioni equilibrate

2: la proprietà d’essere simmetrici in particolare: corrispondenza in dimensione, forma e posizione relativa delle parti sui lati opposti di una linea di divisione o piano mediano o di un centro o di un asse (confrontare simmetria bilaterale, simmetria radiale); come esempio, l’immagine sotto confronta un design simmetrico e asimmetrico:

symmetic-v-asymmetric

3: un movimento rigido d’una figura geometrica che determina una mappatura uno-a-uno su se stessa

4: la proprietà del rimanente invariante sotto certi cambiamenti (come l’orientamento nello spazio, del segno della carica elettrica, della parità, o della direzione del flusso del tempo) – usato di fenomeni fisici e di equazioni che li descrivono (Mirriam Webster)

È anche interessante apprendere che la parola simmetria ha, in diversi campi — cioè, la scienza, il design, la psicologia e la filosofia — molti sinonimi ed usi… (es.) può esser usato per indicare: equilibrio, coerenza, consonanza, armonia, orchestrazione, proporzione, sinfonia, unità, egualitarismo, uguaglianza.

***

Allora… all’inizio della novella ci vengono presentati Antonio Maria Gàttica-Mei e Chiara Zorzi, i due protagonisti, entrambi vedovi.Il Gàttica-Mei, un avvocato, ha perso la moglie, Margherita, tre anni fa; la Zorzi,d’altro canto, ha perso il marito, Gerolamo, vecchio amico del Gàttica-Mei, proprio di recente. Scopriamo che il Gàttica-Mei accompagna la Zorzi in un cimitero (a Roma) per rendere omaggio a suo marito.

Nella prima visita alla tomba del marito, la vedova Zorzi, in fittissime gramaglie, fu accompagnata dall’avvocato Gàttica-Mei, vecchio amico del defunto, vedovo anch’egli da tre anni.

Ci viene poi fornito un approfondimento sulla personalità del Gàttica-Mei: è ricco e anche esigente, puntiglioso, premuroso, formale, attento, serio, austero, solenne. Il nostro senso è che il Gàttica-Mei sia anche vanitoso, cioè, particolarmente interessato al suo aspetto: i suoi capelli sembra esser stati tinti e stilizzati in maniera stravagante, e indossa lui gli abiti eleganti.

Le lenti cerchiate d’oro, con un laccetto pur d’oro che, passando sopra l’orecchio, gli scendeva su la spalla e s’appuntava sotto il bavero della «redingote» irreprensibile; la gran bazza rasa con cura e lucente; i capelli forse troppo neri, ricciuti, divisi dalla scriminatura fino alla nuca e allargati poi a ventaglio dietro gli orecchi;

Al momento, il Gàttica-Mei sembra esser concentrato sul lutto della perdita del marito della Zorzi.

le spalle alte, la rigidità del collo, davano al contegno dell’avvocato Gàttica-Mei quella gravità austera e solenne, appropriata al luttuoso momento, e lo facevano apparire come impalato nel cordoglio.

La coppia prende il tram per San Lorenzo (vicino alla Stazione Termini), dove si trova il cimitero. All’arrivo il Gàttica-Mei scende prima dal tram e poi tenta d’assistere alla Zorzi. Ognuno di loro ha portato un mazzo grande di fiori.

Scese per primo dalla tranvia di San Lorenzo e, impostandosi quasi militarmente, alzò una mano per ajutare la vedova Zorzi a smontare.

Recavano entrambi, l’una per il marito, l’altro per la moglie, due grossi mazzi di fiori.

Da parte sua, la Zorzi indossa un lungo velo scuro che nasconde il suo viso ma le rende anche difficile per lei vedere… impariamo, ad esempio, che lei non può leggere né vedere dove sta andando; di conseguenza, lei ha difficoltà a scendere dal tram and non vede la mano di Gàttica-Mei, che le viene offerto come una cortesia;

Ma la Zorzi, oltre il mazzo, nello smontare, doveva reggere la veste e, impedita dal lungo crespo vedovile che le nascondeva il volto, non vedeva dove mettere i piedi, non vedeva la mano guantata di nero che l’avvocato le porgeva e di cui ella, del resto, non avrebbe potuto valersi.

…di conseguenza come scende, inciampa la Zorzi e poi si irrita, rimproverando duramente il Gàttica-Mei;

Per poco non gli traboccò addosso, giù tutta in un fascio.

– Stupido! Non vedevi? Con le mani impicciate… – fischiò allora tra i denti, furiosa, la Zorzi, sotto il lunghissimo velo.

…lui risponde dicendo che in effetti ha offerto la sua mano ma lei non è stata in grado di vederla!

– Se ti porgevo la mano… – si scusò egli, mortificato, senza guardarla. – non hai visto tu!

(Già a questo punto sembra che ci siano prove della parità nel rapporto dei protagonisti: questo, in nessun modo, è una situazione (comune) in cui l’uomo è prepotente ed abusivo, mentre la donna è sottomessa! Piuttosto, il Gàttica-Mei e la Zorzi sembrano esser uguali: conversano invece tra di loro… con ogni persona dando tanto quanto prendendo.)

A seguito di questo scambio, il Gàttica-Mei e la Zorzi si radunano e si dirigono in direzione del cimitero.

– Zitto. Basta. Per dove?

– Ecco, di qua…

E ricomposti, diritti e duri, ciascuno col suo mazzo di fiori in mano, si diressero verso il Pincetto.

Ci è stato spiegato che, tre anni fa, il Gàttica-Mei ha costruito una gentilizia con due nicchie, una per sua moglie e l’altra per sé. Impariamo che la gentilizia è stata progettata con entrambi lo scopo e la precisione (es.) le due nicchie rappresentano le immagini speculari l’una dell’altra.

Là, tre anni addietro, il Gàttica-Mei aveva fatto costruire per la moglie e per sé una gentilizia a due nicchie, una accanto all’altra, chiuse da due belle lapidi un po’ rialzate da capo, con due colonnine che reggevano ciascuna una lampada; il tutto cinto da fiori e da una roccia di lava artificiale.

Poi apprendiamo che qualche tempo dopo la morte della moglie, il Gàttica-Mei ha visitato la sua tomba con gli Zorzi. Gerolamo Zorzi, suo amico, in particolare è rimasto molto colpito dal design,

Il povero Zorzi, amico suo e della defunta, l’aveva tanto ammirata, questa gentilizia, l’anno avanti, nella ricorrenza della festa dei morti!

– Uh, bella! Pare un letto a due! Bella! bella!

…e poco dopo lui ha costruito una seconda gentilizia, nelle vicinanze, basata sul progetto del Gàttica-Mei.

E quasi presago della prossima fine, aveva voluto farne costruire un’altra tal quale, subito subito, per sé e per la moglie, poco discosto.

Era ovvio, per lo Zorzi specialmente, che le nicchie dell’immagine speculare erano state progettate per replicare un letto matrimoniale, con il marito a destra e la moglie a sinistra.

Un letto a due, precisamente! E difatti il Gàttica-Mei, uomo in tutto preciso, aveva allogato la moglie defunta nella nicchietta a sinistra, perché egli poi, a suo tempo, giacendo, avesse potuto darle la destra, proprio come nel letto matrimoniale.

Adesso apprendiamo che il Gàttica-Mei ha anche composto un epitaffio (un’iscrizione) per la tomba di sua moglie, e che questo era anche molto ammirato dall’amico Zorzi.

Su la lapide aveva fatto incidere quest’epigrafe, anch’essa tanto lodata dallo Zorzi, buon’anima, per la semplicità commovente:

QUI

MARGHERlTA GÀTTICA-MEI

MOGLIE ESEMPLARE

MANCATA AI VIVI ADDÌ XV MAG MCMII (15 Maggio 1902)

ASPETTA IN PACE

LO SPOSO

Inoltre, il Gàttica-Mei ha composto una bozza di epitaffio per la propria tomba.

Per sé il Gàttica-Mei aveva poi preparato un’altra epigrafe, che un giorno avrebbe figurato bellamente su la lapide accanto, degno complemento della prima. Diceva infatti questa epigrafe, che l’avvocato Anton Maria Gàttica-Mei, non già, al solito, QUI GIACE oppure MORÌ ecc., ecc.; ma ADDÌ (puntini in fila) DELL’ANNO (puntini in fila) RAGGIUNSE LA SPOSA.

E quasi quasi, nel comporre l’epigrafe, avrebbe voluto saper la data precisa della sua morte per compier bene l’iscrizione e lasciare tutto in perfetto ordine.

I due epitaffi di Gàttica-Mei sono simmetrici: sono equilibrati, si riferiscono l’un l’altro… è come se stesse succedendo una ‘conversazione’ tra gli sposi. Alla fine vediamo che il Gàttica-Mei è orgogliosissimo delle sue composizioni.

Ma data – ecco – data quella concezione di tombe per coniugi senza prole, le epigrafi, necessariamente, per non rompere l’armonia dell’insieme, dovevano rispondersi così.

In precedenza era stato suggerito che lo Zorzi non era ricco come il Gàttica-Mei. Adesso apprendiamo che il Gàttica-Mei ha pagato per il funerale del suo amico,

Assuntosi, com’era suo dovere, il triste incarico di provvedere ai funerali, al trasporto, al seppellimento del suo povero amico Zorzi,

…ha anche composto l’epitaffio per la sua tomba,

 

il Gàttica-Mei aveva trovato per l’epigrafe di lui una variante, una variante che, perbacconaccio! a pensarci prima… Ma già, avviene sempre così: col tempo, con la riflessione, tutto si perfeziona… Quell’«aspetta in pace lo sposo» dell’epigrafe della moglie gli sembrava adesso troppo freddo, troppo semplice, troppo asciutto, in confronto con Gerolamo Zorzi che, nella nicchia a destra della sua gentilizia, giaceva:

IN ATTESA CHE LA FIDA COMPAGNA

VENGA A DORMIRGLI ACCANTO

…la composizione era una fonte di grande soddisfazione personale,

Come sonava meglio! Come riempiva bene l’orecchio!

…e, infatti, il Gàttica-Mei non può aspettare che la Zorzi legga quello che ha scritto: potrebbe anticipare le sue lodi senza difficoltà!

Non gli pareva l’ora d’arrivare a quella gentilizia per riceverne la lode, che in coscienza credeva di meritarsi, dalla vedova Zorzi.

Per sua grande sorpresa, tuttavia, la Zorzi sembra profondamente turbata, irritata dal testo dell’epitaffio di suo marito. Infatti, un tic fisico ha rivelato l’intensità del suo tumulto interiore, la sua grande costernazione.

Ma questa, dopo aver recitato in ginocchio una preghiera e aver deposto il mazzo di fiori a piè della lapide, rialzatosi il lungo velo e letta l’epigrafe, si voltò a guardarlo, pallida, accigliata, severa, ed ebbe un fremito nel mento, dove spiccava nero un grosso porro peloso, animato da un tic, che le si soleva destare nei momenti di più fiera irritazione.

Il Gàttica-Mei chiede alla Zorzi cosa c’è che non va. Mentre si trova al cimitero, comunque, lei rifiuta di discutere la questione.

– Mi pare che… che vada bene… no? – osò domandare egli, perplesso, afflitto, intimidito.

– Poi, a casa, – rispose con due scatti secchi la Zorzi. – Non possiamo mica discutere qua, ora.

…poi, la Zorzi dà un’occhiata emotiva alla tomba di suo marito,

E riguardò la tomba, e scrollò lievemente il capo, a lungo, e infine si recò a gli occhi il fazzoletto listato di nero. Pianse veramente; si scosse tutta anzi per un impeto violento di singhiozzi a stento soffocati.

…che fa anche il Gàttica-Mei.

Allora anche il Gàttica-Mei cavò fuori con due dita da un polsino la pezzuola profumata, poi si tolse con l’altra mano le lenti, e s’asciugò pian pianino, a più riprese, prima un occhio e poi l’altro.

Mentre la coppia si prepara a partire, c’è una discussione feroce (un dibattitoacrimonioso). Non capiamo la natura precisa dell’argomento a questo punto della storia… siamo sicuri solo che la Zorzi è profondamente arrabbiata e che Il Gàttica-Mei è sbalordito.

– No! Tu no! – gli gridò, convulsa, rabbiosamente, la vedova, riavendosi a un tratto dal pianto. – Tu, no!

E si soffiò il naso, rabbiosamente.

– Per… perché? – barbugliò il Gàttica-Mei.

– Poi; a casa, – scattò di nuovo la Zorzi.

E poi… il Gàttica-Mei si rende conto che l’epitaffio dello Zorzi potrebb’essere la fonte più probabile del problema. Si chiede, in particolare, se la Zorzi si sia opposta alla frase ‘fida compagna’? Domanda, “Ma, perché dovrebb’essere?” Dopotutto, ‘fida compagna’ è una frase comunemente intesa essere accattivante, cioè, un complimento. Il Gàttica-Mei, per quanto accurato e preciso, ammette che non gli è mai venuto in mente che ‘fida compagna’ si sarebbe dimostrato offensivo.

Quegli allora si strinse nelle spalle, si provò ad aggiungere:

– Mi pareva… non so…

Guardando ancora una volta l’epigrafe, fermò gli occhi su quel «fida compagna» che… sì, certamente… ma, santo Dio! frase ovvia, consacrata ormai dall’uso… Si diceva «fida compagna», come «vaso capace», «parca mensa»… Non ci aveva proprio fatto caso, ecco.

Ancora una volta il Gàttica-Mei cerca di spiegare… di correggere la situazione… di dimostrare di non ha voluto scrivere nulla di male,

Balbettò:

– Forse… capisco… ma…

…e in cambio la Zorzi insiste sul fatto che questo non è il momento di parlare, cioè, che qualsiasi discussione del genere deve aspettare fino a quando la coppia è tornata a casa. Lei, tuttavia, esprime / rivela il suo dispiacere per il design del Gàttica-Mei, riferendosi alle gentilizie, in modo dispregiativo, come il suo ‘capolavoro’ e poi, nello stesso respiro, come disegni inutili e ridondanti.

– Ho detto, a casa, – ripeté per la terza volta la Zorzi. – Ma, del resto, poiché ci teneva tanto… anche lui, povero Momo, ci teneva, a questo capolavoro qua… faccio notare: due colonnine, due lampade… perché? Una bastava.

Il Gàttica-Mei è ovviamente colto di sorpresa dalle critiche.

– Una? come? eh! – fece il Gàttica-Mei, stupito aprendo le mani, con un sorriso vano.

Ciò che segue è una acrimoniosa discussione sui particolari del design delle gentilizie.

– La simmetria, è vero? – domandò agra la Zorzi. – Ma, senza figli, senz’altri parenti: finché uno è in piedi, può venire ad accendere all’altro la candela. Chi la accenderà a me, quella, poi? E, di là, a te?

(Ora è evidente che la Zorzi comprende la logica dei disegni del Gàttica-Mei. Immaginiamo che lui abbia trascorso un bel tempo a descrivere il suo lavoro a lei.)

Dato il suo orgoglio, il Gàttica-Mei cerca di deviare, come meglio può, queste critiche, ma la Zorzi è inflessibile.

– Già… – riconobbe, un po’ scosso e smarrito, il Gàttica-Mei, portandosi istintivamente le mani alla nuca per rialzarsi dietro gli orecchi le due ali di capelli, con un gesto che gli era solito, ogni qual volta perdeva ma per poco la padronanza di sé (veramente, con la Zorzi, gli avveniva piuttosto di frequente). – Però, ecco, – si riprese: – Faccio notare anch’io: allora… e non sia mai, veh: allora tutt’e due le lampade, qua e là, resteranno spente e…

La simmetria era salva. Ma la vedova Zorzi non volle darsi per vinta.

– E con ciò? Una, intanto, quella, resterà sempre lì, nuova, intatta, non accesa mai, inutile. Dunque, se ne poteva fare a meno, e una bastava.

Qui, vediamo che il Gàttica-Mei ha un suo tic, che si manifesta ogni volta che sperimenta un tumulto interiore.

– Lo stesso è da me, – disse il Gàttica-Mei. – E, – aggiunse più a bassa voce e abbassando anche gli occhi, – dovremmo morire tutt’e due insieme, Chiara…

– Tu verresti ad accendermi qua la candela, o io a te di là, è vero? – domandò con più acredine la Zorzi. – Grazie, caro, grazie! Ma questa è la discussione che faremo a casa.

E con un gesto della mano, quasi allontanandolo, lo mandò a deporre il mazzo di fiori su la tomba della moglie.

(Ancora una volta, abbiamo il senso che i due protagonisti condividano il loro rapporto come uguali: quando discutono, come abbiamo detto prima, c’è una conversazione, c’è un ‘avanti e indietro’… in altre parole il rapporto è caratterizzato da simmetria o parità.)

Con quel gesto, la Zorzi mette l’argomento ‘in attesa’. Poi la Zorzi dà un ultimo addio emotivo a suo marito.

Ella, col capo inclinato su l’indice della mano destra teso all’angolo della bocca, rimase a mirare in silenzio la lapide del marito, mentre una rosa mezzo sfogliata accanto alla colonnina, tentennando appena sul gambo a un soffio di vento, pareva crollasse il capo amaramente per conto del buon Momolo Zorzi lì sottoterra.

A questo punto della storia si rivela ancora di più sulla natura delle preoccupazioni della Zorzi: non ha un problema di per sé o con la frase ‘fida compagna’ o come la frase potrebb’esser interpretata dagli altri o ‘dallo Zorzi’.

Ma non s’era mica impuntata per la menzogna di quella frase convenzionale, la vedova Zorzi, come il Gàttica-Mei aveva ingenuamente supposto.

Sapeva, sapeva bene, ella, che nei cimiteri le epigrafi non sono fatte per l’onore dei morti, che se lo mangiano i vermi; ma solamente per la vanità dei vivi.

Non già, dunque, per l’inutile offesa al marito morto s’era ella indignata, ma per l’offesa che quell’epigrafe conteneva per lei viva.

Il problema con la frase è semplice: è una bugia! …una bugia importante, una cosa che le disturba profondamente la Zorzi. Inoltre… sembra esser offesa la Zorzi dal modo apparentemente disinvolto / indifferente / noncurante in cui il Gàttica-Mei ha propagato la bugia. Cosa c’è di più sembra anche esser offesa dalle supposizioni del Gàttica-Mei, dal modo in cui sembra dettare a lei senza chiedere la sua approvazione. Finalmente lei sembra esser offesa dalla simmetria del suo design, che potrebbe renderla schiava.

Che intenzioni aveva il signor Gàttica-Mei? Con chi credeva d’aver da fare? S’era immaginato, dettando quell’epigrafe, che, lei viva e lui vivo, dovessero restar vincolati, schiavi dello stupido ordine, della stupida simmetria di quei due letti a due, là, fatti per la morte? che la menzogna, la quale… sì, poteva avere un certo valor decorativo per la morte, dovesse ancora sussistere e imporsi da quelle due lapidi alla vita? Ma per chi la prendeva, dunque, il signor avvocato Gàttica-Mei? Supponeva che ella, per quell’«aspetta in pace lo sposo» della gentilizia di lui e per quell’«in attesa che la fida compagna, ecc.» della gentilizia del marito, dovesse graziosamente prestarsi a rimanere ancora la sua comoda amante, per andarsene poi da «fida compagna» a giacere, anzi «a dormire» accanto allo sposo, e lui accanto alla «moglie esemplare»?

La Zorzi respinge tutto ciò con la massima forza possibile.

Eh, no! eh, no, caro signor avvocato!

Scopriamo che la Zorzi si considera esser una donna onesta, una donna integra. Gli ultimi anni della sua vita, tuttavia, sono stati un incubo: dopo la morte della moglie del Gàttica-Mei, i due protagonisti si sono innamorati, ma hanno scelto di nascondere la loro relazione dallo Zorzi. L’inganno era contrario alle credenze della Zorzi, e, di conseguenza, lei aveva sofferto molto. Ora, dato che il marito è finalmente morto, ha deciso che l’agonia deve cessare.

Le menzogne inutili stavano bene lì, incise sui morti. Qua, nella vita, no. Qua le utili si era costretti a usare, o a subir le necessarie. E lei, donna onesta, ne aveva (Dio sa con che pena!) subita una per tre anni, vivendo il marito. Ora basta! Perché avrebbe dovuto subirla ancora, questa menzogna, finita la necessità con la morte dello Zorzi? per il vincolo di quelle tombe stupide? vincolo, ch’egli, ponendo subito le mani avanti, con la nuova epigrafe, s’era affrettato a ribadire?

Eh, no! eh, no, caro signor avvocato! Menzogna inutile, ormai, quella «fida compagna».

Donna onesta, lei, per necessità aveva potuto ingannare il marito, da vivo; avrebbe voluto il signor avvocato che seguitasse a ingannarlo anche da morto, ora, senza un perché, o per il solo fatto ridicolo, che esistevano là quelle due tombe gemelle? Eh via! Da vivo, va bene, ella non aveva potuto farne a meno; ma da morto, no, non voleva più ingannare il marito. La sua onestà, la sua dignità, il suo decoro non glielo consentivano. Libero il signor avvocato già da tre anni: libera anche lei, adesso; o ciascuno per sé, onestamente; o uniti, onestamente, innanzi alla legge e innanzi all’altare.

Queste intuizioni ci sono rivelate nel contesto d’una lunga discussione emotiva ed amara. Da parte sua, il Gàttica-Mei confessa l’ignoranza e l’innocenza; suggerisce di non aver fatto supposizioni quando abbia progettato le gentilizie o quando abbia composto gli epitaffi.

La discussione fu lunga e aspra.

L’avvocato Gàttica-Mei confessò in prima candidamente che nulla, proprio nulla di quanto ella aveva sospettato con maligno animo gli era passato per il capo nel dettar quell’epigrafe. Se per poco ella fosse entrata nello spirito di quella sua concezione di tombe per coniugi senza prole, avrebbe compreso che quelle epigrafi là venivano da sé, naturalmente, come conseguenze inevitabili. Ridicola quella concezione? Oh, questo poi no; questo poi no…

(Ciònonostante, sospettiamo che questa ingenuità non possa essere vera, vale a dire, è completamente incoerente con ciò che conosciamo della personalità del Gàttica-Mei, cioè, la sua premurosità, l’attenzione ai dettagli, la sua precisione.)

Quindi apprendiamo dell’esistenza d’una seconda bugia incorporata nel design delle gentilizie. La Zorzi ci rivela che il matrimonio del Gàttica-Mei era turbato e seriamente disfunzionale per molti anni; non era più innamorato di sua moglie al momento della sua morte, ed il nostro senso è che la sua morte fosse,a tutti gli effetti, un sollievo. Tuttavia, il Gàttica-Mei ha scelto d’ignorare tutto questo… i suoi disegni sembrano esser stati scelti per perpetuare la bugia d’un matrimonio amorevole — per creare, nell’opinione della Zorzi, una ‘caricatura’ del matrimonio.

– Ridicola, ridicola, ridicola, – raffermò tre volte con focosa stizza la vedova Zorzi. – Ma pensa, lì, quella tua moglie esemplare che ti aspetta in pace… Non mi far dire ciò che non vorrei! So bene io, e tu meglio di me, quel che passasti con lei…

– E che c’entra questo?

– Lasciami dire! Quando mai ti comprese, povera Margherita! Se ti afflisse sempre! E non venivi forse a sfogarti qua, con Momo e con me?

– Sì… ma…

– Lasciami dire! E perché t’amai io? io che, a mia volta, non mi sentivo compresa dal povero Momo? Ah, Dio, nulla più dell’ingiustizia fa ribellare… Ma tu volesti rimaner fedele fino all’ultimo a Margherita, e dettasti quella bell’epigrafe. T’ammirai allora; sì; ti ammirai tanto più, quanto più stimavo tua moglie indegna della tua fedeltà. Poi… sì, è inutile, è inutile parlarne… non seppi dirti di no. Ma non avrei dovuto farlo, io! come non lo facesti tu, finché visse tua moglie. Avrei dovuto aspettare anch’io che Momo morisse. Così, io sola sono venuta meno a’ miei doveri! Anche tu, sì… ma verso l’amico: sposo, fosti fedele! E questo, vedi, ora che tua moglie e mio marito se ne sono andati, e tu sei restato, solo, qua, di fronte a me, questo mi pesa più di tutto. E perciò parlo! Sono una donna onesta, io, come tua moglie; onesta come te, come mio marito! E voglio essere tua moglie, capisci? o niente! Ah, sei fanatico tu della bella concezione? Ma immagina me, ora, stesa lì accanto a mio marito, «fida compagna»… È buffo! atrocemente buffo! Chi sa, e anche chi non sa niente, vedendo lì quelle due gentilizie, – «Oh,» dirà, «ma guardate, ma ammirate qua, che pace tra questi coniugi!» – Sfido, morti! Caricatura, caricatura, caricatura.

Questo sfogo dev’esser stato sentito di cuore, come dimostrato dal tic della Zorzi!

E il porro peloso, animato dal tic, rimase a fremerle per più di cinque minuti sul mento, irritatissimo.

Ci fermiamo a questo punto per ammirare la profondità, la sincerità e la premurosità delle preoccupazioni della Zorzi. Ammette liberamente lei che ama il Gàttica-Mei e che vuole sposarlo. Ma rimpiange profondamente il modo in cui loro hanno ingannato suo marito, e non è d’accordo con il modo in cui il Gàttica-Mei ha scelto di caratterizzare il proprio matrimonio (così come il suo matrimonio). Dopo diversi anni di rimpianti e costernazioni, la Zorzi vuol essere libera dal passato. Vuole vivere in maniera onesta e schietta… vuole in particolare esprimere apertamente il suo amore per il Gàttica-Mei. Poi possiamo capire che il disegno simmetrico delle gentilizie le doveva aver preoccupato e minacciato. Alla fine, forse, l’abbia portata a chiedere: “Chi è dopotutto quest’uomo di cui sono innamorato?” Comprendiamo che il design delle gentilizie implicava che potessero essere propagati la bugia del suo matrimonio e il suo inganno… dopo la sua morte, cioè per sempre!

Il Gàttica-Mei, per quanto si prende veramente cura per la Zorzi, sembra solo in grado di veder il ‘lato pratico’ di vita sua.

Il Gàttica-Mei restò proprio ferito fino all’anima da questa lunga intemerata; ma più della derisione. Serio e posato, non poteva ammettere neppure, che si scherzasse con lui o d’una cosa sua; come non aveva potuto ammettere, viva la moglie, il tradimento.

La pretesa della Zorzi di farsi sposare gli guastava tutto. Lasciamo andare quelle due tombe che aspettavano là; ma il nuovo ordinamento della sua vita da vedovo, a cui già da tre anni s’era acconciato così bene! Perché un nuovo rivolgimento, adesso, nella sua vita? Senza ragione, via, proprio senza ragione. Avrebbe capito gli scrupoli, il dolore, il rimorso di lei, finché era vivo il povero Zorzi; ma ora perché? Se ci fosse stato il divorzio, un matrimonio prima, sì, per riparare all’inganno che si faceva a un uomo, a quel furto d’onore, a quei sotterfugi, ch’eran pur tanto saporiti però; ma ora perché? ora che non si ingannava più nessuno, e – liberi entrambi, vedovi, d’una certa età – non dovevano più dar conto a nessuno, se seguitavano quella loro tranquilla relazione? Il decoro? Ma anzi adesso non c’era più nulla di male… Voleva ella riparare così il male passato? Il povero Momolo non c’era più! Di fronte a se stessa? E perché? Qual male da riparare di fronte a se stessa o a lui? È male l’amore? E poi… oh Dio, sì, perché non pensarci? voleva anche perdere l’assegnamento, circa centosessanta lire al mese di pensione lasciatale dal marito? Un vero peccato!

Apprendiamo che il Gàttica-Mei fa tutto il possibile per convincere la Zorzi di questi aspetti pratici, ma lei rimane immutata, ferma nel suo desiderio d’esser autentica, cioè, sincera con se stessa. Lei si rifiuta di sposarlo sotto falsi pretesti.

In tutti i modi l’avvocato Gàttica-Mei cercò di dimostrarle ch’era proprio una picca, una stoltezza, un’intestatura deplorevole, una pazzia!

Ma la vedova Zorzi fu irremovibile.

– O moglie, o niente.

Invano, sperando che col tempo quella fissazione le passasse, egli le disse ch’era inutile e anche crudele mostrarsi con lui adesso così dura, poiché la legge prescriveva che prima di nove mesi non si poteva contrarre un nuovo matrimonio; e che, se mai, ne avrebbero riparlato allora.

No, no, e no: – o moglie, o niente.

A questo punto si raggiunge un’impasse, senza un’ovvia via avanti. I due protagonisti scelgono di mettere in pausa la loro relazione,

E tenne duro per otto mesi la vedova Zorzi. Egli, stanco di pregarla ogni giorno, storcendosi le mani, pover’uomo, alla fine si licenziò. Passò una settimana, ne passarono due, tre; passò un mese e più, senza che si facesse rivedere.

…finché un giorno, qualche mese dopo, come l’ansia della Zorzi cresce, lei viene informata che il Gàttica-Mei è gravemente malato, con quella che sembra essere una polmonite.

E ormai da quattro giorni ella, in grande orgasmo, metteva in deliberazione se cercare di farsi incontrare per istrada, come per caso, o se scrivergli, o se andare senz’altro ad affrontarlo in casa, quando il domestico di lui venne ad annunziarle, che il suo padrone era gravemente ammalato, di polmonite, e che la scongiurava d’una visita.

Si precipita a casa sua e, indifferente alle apparenze, rimane con lui giorno e notte finché, sette giorni dopo, il peggio della malattia sembra passare. La Zorzi professa ancora una volta il suo amore per il Gàttica-Mei e il suo desiderio di sposarlo.

Ella accorse, straziata dal rimorso per la sua durezza, causa forse di qualche disordine nella vita di lui e, per conseguenza, di quella malattia; accorse funestata dai più neri presentimenti. E difatti lo trovò sprofondato nel letto, rantolante, strozzato, quasi con la morte in bocca: irriconoscibile. Dimenticò ogni riguardo sociale, e gli si pose accanto, notte e giorno, a lottare con la morte, senza un momento di requie.

Al settimo giorno, quand’egli fu dichiarato dai medici fuor di pericolo, la Zorzi, stremata di forze, dopo tante notti perdute, pianse, pianse di gioja, chinando il capo su la sponda del letto; ed egli allora, per primo, carezzandole amorosamente i capelli, le disse che subito, appena rimesso, la avrebbe fatta sua moglie.

Il recupero del Gàttica-Mei è lento e costante; eventualmente la coppia inizia a pianificare la cerimonia nuziale.

Ma, lasciato il letto, dové prima di tutto imparar di nuovo a camminare, il Gàttica-Mei. Non si reggeva più in piedi. Lui, un tempo così solidamente e rigidamente impostato, ora curvo, tremicchiante, pareva proprio l’ombra di se stesso. E i polmoni… eh, i polmoni… Che tosse! A ogni nuovo accesso, ansimante, soffocato, si picchiava il petto con le mani e diceva a lei, che lo guardava oppressa:

– Andato… andato…

Migliorò un poco durante l’estate. Volle uscir di casa, esporsi un po’ all’aria, prima in carrozza, poi a piedi, sorretto da lei e col bastone. Finalmente, riacquistate alquanto le forze, volle ch’ella s’affrettasse a preparar l’occorrente per le nozze.

– Guarirò, vedrai… Mi sento meglio, molto meglio.

Devono decidere dove vivranno e quali oggetti di arredamento useranno. Alla fine, la decisione è presa a favore di un ‘nuovo inizio’… decidono che venderanno tutti i loro beni e acquisteranno una nuova casa in cui vivere con i nuovi arredi.

Era rimasta intatta a lui, qua, la casa maritale: solo dalla camera aveva tolto il letto a due, o meglio, aveva staccato e fatto portar via quello de’ due lettini gemelli d’ottone, su cui aveva dormito la moglie. Ma anch’ella, la Zorzi, aveva di là la sua casa maritale in pieno assetto.

Ora, sposando, quale delle due case avrebbero ritenuta? Ella non avrebbe voluto contrariar l’infermo, che conosceva metodico e schiavo delle abitudini; ma proprio non se la sentiva di viver lì, nella casa di lui, da moglie: tutto lì parlava di Margherita; ed ella non poteva aprire un cassetto senza provare uno strano ritegno, una costernazione indefinibile, quasi che tutti gli oggetti custodissero gelosi i ricordi di quella, ond’erano animati. Ma anch’egli, certo si sarebbe sentito estraneo fra gli oggetti della casa di lei. Prendere un’altra casa, una casa nuova, con nuova mobilia, e vendere la vecchia delle due case? Questo sarebbe stato il meglio… E a questo, senza dubbio, ella avrebbe indotto l’amico, se egli fosse stato sano, quello di prima… Adesso bisognava rassegnarsi e contentarlo, mutando il meno possibile. Il letto a due, intanto, quello sì, doveva esser nuovo. Poi, dismessa la casa del primo marito, ella avrebbe fatto trasportar qui i suoi mobili più cari; si sarebbe fatta una scelta tra quelli in migliore stato delle due case, e il superfluo scartato sarebbe stato venduto.

 

Si sposano… e poco dopo (sigh! con nostro sgomento!) declina il benessere della Gàttica-Mei. Ci sembra chiaro che morirà presto lui.

Così fecero: e sposarono.

Come se la cerimonia nuziale fosse di buon augurio, per circa tre mesi, fino a metà dell’autunno, egli stette quasi bene: colorito, forse un po’ troppo, e senza tosse. Ma ricadde coi primi freddi; e allora comprese che era finita per lui.

Prima che muoia però il Gàttica-Mei si preoccupa delle gentilizie: dove sarà seppellito?

Lungo tutto l’inverno, che passò miseramente tra il letto e la poltrona, assaporando la morte che gli stava sopra, fu tormentato fino all’ultimo da un pensiero, che gli si presentava come un problema insolubile: il pensiero di quelle due tombe gemelle, nel Pincetto, lassù al Verano.

Dove lo avrebbe fatto seppellire, ora, sua moglie?

…per il Gàttica-Mei, il problema pratico del disegno simmetrico dev’esser risolto,

E s’impossessò di lui, tra il lento cociore della febbre e le smanie angosciose del male, una stizza sorda e profonda, che di punto in punto si esasperava vieppiù, contro di lei, che aveva voluto a ogni costo quel matrimonio inutile, stolto e sciagurato.

…anche se sembra riconoscere e comprendere le preoccupazioni della Zorzi,

Sapeva che stolta per la moglie era stata invece l’idea di costruire quelle due tombe a quel modo; ma egli non voleva riconoscerlo. Del resto, discussione oziosa, questa, adesso, che non avrebbe avuto altro effetto che acuirgli la stizza.

…il desiderio della Zorzi è quello d’essere sepolto accanto a lui!

La questione era un’altra. Marito di lei, ora, poteva egli andare a giacer lassù accanto alla prima moglie? e domani lei, divenuta moglie d’un altro, accanto al primo marito?

…poi, per quanto le vorrebbe evitare questa conversazione la Zorzi — suo marito sta morendo! — il Gàttica-Mei semplicemente non lascerà andare,

Si tenne finché poté, e all’ultimo glielo volle domandare.

– Ma che vai pensando adesso! – gli gridò ella, senza lasciarlo finire.

– Bisogna invece pensarci a tempo, – brontolò egli, cupo, lanciandole di traverso sguardi odiosi. – Io voglio saperlo, ecco! voglio saperlo!

– Ma sei pazzo? – tornò a gridargli lei. – Tu guarirai, guarirai… Attendi a guarire!

Egli, convulso, si provò a levarsi dal seggiolone:

– Io non arrivo a finire il mese! Come farai? come farai?

– Ma si vedrà poi, Antonio, per carità! per carità! – proruppe ella, e si mise a piangere.

…e anche se soffre lei, lui è spinto a prendere una decisione.

Il Gàttica-Mei, vedendola piangere, si stette zitto per un pezzo; poi riprese a borbottare, guardandosi le unghie livide:

– Poi… sì… lo vedrà lei, poi… Tante spese… tante cure… Tutto per aria… tutto scombinato… Perché poi?… Poteva ogni cosa restar disposta come era… tanto bene…

A questo punto apprendiamo che la Zorzi, qualche tempo fa, ha trovato l’epitaffio del Gàttica-Mei, che sembra rappresentare un altro tradimento. Ci rendiamo conto che, anche se il Gàttica-Mei ama la Zorzi, il suo intento è sempre stato di propagare la bugia del suo matrimonio inutile. Ancora una volta, secondo noi a suo merito, la Zorzi si rifiuta d’accettare i desideri del marito.

Alludeva all’epigrafe conservata là nel cassetto della scrivania, all’epigrafe che quattr’anni addietro egli aveva preparata per sé, quella con l’ADDÌ (puntini in fila) DELL’ANNO (puntini in fila) RAGGIUNSE LA SPOSA.

Nella furia delle disposizioni da dare per i funerali, la trovò difatti, pochi giorni dopo, rimestando in quel cassetto, la moglie due volte vedova.

La lesse, la rilesse, poi la buttò via, sdegnata, pestando un piede.

Cosa fare?

Poi, all’improvviso, la Zorzi, che ha a questo punto il controllo completo della situazione, prende una decisione. Il Gàttica-Mei sarà sepolto con lei, nella gentilizia dei Zorzi.

Là, accanto alla prima moglie? Ah, no, no davvero, no, no e no! Egli era stato adesso suo marito, e lei non poteva affatto tollerare che andasse a giacere a fianco di quell’altra.

Ma dove, allora?

Dove? Lì, nella sepoltura dello Zorzi. Tutti e due insieme, i mariti: l’uno e l’altro per lei sola.

Ora, con questa decisione in mano, per grande ironia della sorte, gli epitaffi così come i disegni delle gentilizie hanno perfettamente senso!

Così «la fida compagna», di cui il buon Momolo Zorzi stava «in attesa» che venisse «a dormirgli accanto», fu l’avvocato Gàttica-Mei. E ancora nella nicchia dell’altro letto a due, Margherita, la moglie esemplare:

ASPETTA IN PACE

LO SPOSO

Ci verrà lei, ci verrà lei, la doppia vedova, qui, invece, il più tardi possibile.

Intanto, lì, le lampade delle colonnine sono accese tutt’e due; e qui, tutt’e due spente.

In questo, almeno, la simmetria era salva e il Gàttica-Mei poteva esserne contento.

***

Essere libero! Per essere imparziale e giusto! L’egualitarismo! Ugualianza!

Queste sono preoccupazioni che sono state con gli esseri umani dall’inizio della storia e loro rimangono oggi.

Secondo noi, l’America è diversa d’Italia, vuol dire che ha una serie di problemi unici perché siamo un paese degli immigrati, cioè, la storia dell’America è una storia degli immigrati. Quindi la domanda per noi Americani è sempre stata, “Possiamo riconoscere il valore che gli immigranti apportano alla nostra società?” e “Se è così, possiamo offrire loro un’opportunità per avere successo?”

Quello che segue è un estratto di un recente profilo d’una filosofo dell’Università in Michigan, Elizabeth Anderson, che ha trascorso la sua intera carriera a studiare ‘l’uguaglianza’. Forse sarete tutti d’accordo che le idee contenute qui (nell’ultimo paragrafo in particolare) sono interessanti da considerare?

From: The Philosopher Redefining Equality. https://www.newyorker.com/magazine/2019/01/07/the-philosopher-redefining-equality

“As Anderson toured apartments, though, she noticed other forces in play. Greater Detroit was effectively segregated by race. Oak Park had middle-class white sections and middle-class black sections. In Southfield, a real-estate agent told her not to worry, because locals were “holding the line against blacks at 10 Mile Road.” Until then, Anderson had notthought seriously about race; she assumed that reasonable people treated it as undefining. Now she felt herself being swept, as a middle-class white woman, into a particular zone. To the extent that it constrained her options, it felt like an impingement on freedom. To the extent that it entrenched racial hierarchy, it seemed anti-egalitarian as well.

As a rule, it’s easy to complain about inequality, hard to settle on the type of equality we want. Do we want things to be equal where we start in life or where we land? When inequalities arise, what are the knobs that we adjust to get things back on track? Individually, people are unequal in countless ways, and together they join groups that resist blending. How do you build up a society that allows for such variety without, as in the greater-Detroit real-estate market, turning difference into a constraint? How do you move from a basic model of egalitarian variety, in which everybody gets a crack at being a star at something, to figuring out how to respond to a complex one, where people, with different allotments of talent and virtue, get unequal starts, and often meet with different constraints along the way?

In 1999, Anderson published an article in the journal Ethics, titled “What Is the Point of Equality?,” laying out the argument for which she is best known. “If much recent academic work defending equality had been secretly penned by conservatives,” she began, opening a grenade in the home trenches, “could the results be any more embarrassing for egalitarians?”

The problem, she proposed, was that contemporary egalitarian thinkers had grown fixated on distribution: moving resources from lucky-seeming people to unlucky-seeming people, as if trying to spread the luck around. This was a weird and nebulous endeavor. Is an heir who puts his assets into a house in a flood zone and loses it unlucky—or lucky and dumb? Or consider a woman who marries rich, has children, and stays at home to rear them (crucial work for which she gets no wages). If she leaves the marriage to escape domestic abuse and subsequently struggles to support her kids, is that bad luck or an accretion of bad choices? Egalitarians should agree about clear cases of blameless misfortune: the quadriplegic child, the cognitively impaired adult, the teen-ager born into poverty with junkie parents. But Anderson balked there, too. By categorizing people as lucky or unlucky, she argued, these egalitarians set up a moralizing hierarchy. In the article, she imagined some citizens getting a state check and a bureaucratic letter:

To the disabled: Your defective native endowments or current disabilities, alas, make your life less worth living than the lives of normal people…. To the stupid and untalented: Unfortunately, other people don’t value what little you have to offer in the system of production…. Because of the misfortune that you were born so poorly endowed with talents, we productive ones will make it up to you: we’ll let you share in the bounty of what we have produced with our vastly superior and highly valued abilities…. To the ugly and socially awkward: Maybe you won’t be such a loser in love once potential dates see how rich you are.

By letting the lucky class go on reaping the market’s chancy rewards while asking others to concede inferior status in order to receive a drip-drip-drip of redistributive aid, these egalitarians were actually entrenching people’s status as superior or subordinate. Generations of bleeding-heart theorists had been doing the wolf’s work in shepherds’ dress.

In Anderson’s view, the way forward was to shift from distributive equality to what she called relational, or democratic, equality: meeting as equals, regardless of where you were coming from or going to. This was, at heart, an exercise of freedom. The trouble was that many people, picking up on libertarian misconceptions, thought of freedom only in the frame of their own actions. If one person’s supposed freedom results in someone else’s subjugation, that is not actually a free society in action. It’s hierarchy in disguise.

To be truly free, in Anderson’s assessment, members of a society had to be able to function as human beings (requiring food, shelter, medical care), to participate in production (education, fair-value pay, entrepreneurial opportunity), to execute their role as citizens (freedom to speak and to vote), and to move through civil society (parks, restaurants, workplaces, markets, and all the rest). Egalitarians should focus policy attention on areas where that order had broken down. Being homeless was an unfree condition by all counts; thus, it was incumbent on a free society to remedy that problem. A quadriplegic adult was blocked from civil society if buildings weren’t required to have ramps. Anderson’s democratic model shifted the remit of egalitarianism from the idea of equalizing wealth to the idea that people should be equally free, regardless of their differences. A society in which everyone had the same material benefits could still be unequal, in this crucial sense; democratic equality, being predicated on equal respect, wasn’t something you could simply tax into existence. “People, not nature, are responsible for turning the natural diversity of human beings into oppressive hierarchies,” Anderson wrote.”

 

Leave a comment