Riassunto: Il signore della nave

Giuro che non ho voluto offendere il signor Lavaccara né una volta né due, come in paese si va dicendo.

Comincia così Il signore della nave (L. Pirandello), una novella che, secondo noi, è preoccupata con il progresso degli esseri umani—cioè, il progresso nella scienza, nella medicina, nelle scienze umane e nella tecnologia… e, in particolare, alcune delle conseguenze di tale progresso, cioè, il lento ma apparentemente costante abbandono del passato e delle tradizioni nella nostra vita quotidiana.

All’inizio della storia, veniamo introdotti alla ‘voce’ del narratore, un personaggio affascinante, ma qualcuno, sfortunatamente, il cui nome non lo sapremo mai. La nostra impressione è che il narratore non sia disperatamente povero… (anche se in realtà impariamo quasi nulla dei dettagli della vita sua). Mentre la storia procede, arriveremo ad apprezzare ed ammirare l’intelleto del narratore… il suo rigore e la sua capacità di pensare logicamente.

Il narratore ci parla. Scopriamo che lui ha iniziato a discutere con il signor Lavaccara. O forse, sarebbe meglio dire che i due uomini siano impegnati in una conversazione difficile a causa d’un malinteso / fraintendimento. Ci sembra chiaro che il Lavaccara sia più ricco del narratore (in particolare perché il suo maniera sembra essere deferente).

Il punto focale della conversazione / malintesa è il maiale del Lavaccara. Veniamo a sapere che il signore si è appena vantato che il suo maiale è intelligente.

Il signor Lavaccara mi volle parlare d’un suo porco per convincermi ch’era una bestia intelligente.

Sebbene sembra esser attento a mantenere un tono deferente, il narratore (come arriveremo a capire) è enfaticamente / implacabilmente in disaccordo con il vanto / la spacconata del Lavaccara. All’inizio però la sua risposta sembra esser alquanto criptica.

Io allora gli domandai:

– Scusi, è magro?

Il Lavaccara sembra fraintendere ciò che il narratore intenda dire. Ci viene spiegato che assume che il narratore abbia deriso sia lui che il maiale.

Ed ecco che il signor Lavaccara mi guardò una prima volta come se con questa domanda non propriamente lui ma avessi voluto offendere quella sua bestia.

Poi, alla domanda se il maiale è magro il Lavaccara risponde direttamente: Ma no! Il maiale è ben sviluppato, grasso, pronto per la festa.

Mi rispose:

– Magro? Peserà più d’un quintale!

E poi, il narratore risponde, chiedendo se un tale maiale potrebbe infatti esser intelligente.

E io allora gli dissi:

– Scusi, e le pare che possa essere intelligente?

Il narratore ne vuole chiarirci che i suoi commenti siano limitati al maiale, che infatti i suoi commenti non abbiano niente a fare con il signor Lavaccara.

Del porco si parlava. Il signor Lavaccara, con tutta quella rosea prosperità di carne che gli tremola addosso, credette che io dopo il porco ora volessi offendere lui, come se in genere avessi detto che la grassezza esclude l’intelligenza.

(Il lettore trae un notevole piacere dal tono ironico del narratore. Pensiamo: ebbene… naturalmente!i commenti del narratore si riferiscano ad entrambi il Lavaccara e il maiale! Capiamo a questo punto che il Lavaccara è ricco e gradasso ed egocentrico e noioso. Pensiamo anche che lui abbia usato il maiale come un proxy per se stesso… cioè per la sua capacità di allevare un maiale che è un oggetto d’invidia da parte degli altri nel paese.)

Poi, il Lavaccara arriva al punto: chiede al narratore se si stia prendendo gioco di lui.

Ma del porco, ripeto, si parlava. Non doveva dunque farsi così brutto il signor Lavaccara né domandarmi:

– Ma allora io, secondo lei?

E, a questo punto, il narratore si precipita a districarsi dal malinteso / fraintendimento. Non ha voglia che il Lavaccara si arrabbi con lui.

M’affrettai a rispondergli:

– O che c’entra lei, caro signor Lavaccara? È forse un porco lei? Mi scusi. Quando lei mangia col bello appetito che Dio le conservi sempre, per chi mangia lei? mangia per sé, non ingrassa mica per gli altri. Il porco, invece, crede di mangiare per sé e ingrassa per gli altri.

Ma… d’altra parte, il narratore sembra rimanere intransigente: non sia disposto a cambiare la su’opinione: vediamo il narratore come tenta di far appello all’ego del Lavaccara—mentre, al tempo stesso, continua a far paragone tra lui e il maiale! …e continua ad insistere che il maiale è stupido (forse solo un po’ più stupido del signore!)

Successivamente, apprendiamo che il punto di vista del narratore è che un maiale viene allevato proprio per la macellazione—dunque la sua morte diventa sempre più vicino man mano che cresce e si sviluppa.

Mica rise. Niente. Mi restò lì piantato e duro davanti, più brutto di prima. E io allora, per smuoverlo, soggiunsi con premura:

– Poniamo, poniamo, caro signor Lavaccara, che lei con la sua bella intelligenza fosse un porco, mi scusi. Mangerebbe lei? Io no. Vedendomi portare da mangiare, io grugnirei, inorridito: «Nix! Ringrazio, signori. Mangiatemi magro!». Un porco che sia grasso vuol dire che questo ancora non l’ha capito; e se non ha capito questo, può mai essere intelligente? Perciò le ho domandato se il suo era magro. Lei m’ha risposto che pesa più d’un quintale; e allora mi scusi, caro signor Lavaccara, sarà un bel porco il suo, non dico, ma non è certo un porco intelligente.

(Quindi… se un maiale fosse davvero intelligente, mangerebbe solo quanto basta per rimanere magro e sotto-sviluppato e vivo! in questo modo eviterebbe la macellazione!)

Veniamo a sapere che il narratore non è riuscito di placare il Lavaccara; adesso infatti il narratore è in perdita per parole e idee. Per lui, non potevano essere più chiari o logici la sua spiegazione e il suo ragionamento. Il nostro senso è che il narratore consideri il suo punto di vista d’esser ovvio.

Spiegazione più chiara di questa mi sembra che non avrei potuto dare al signor Lavaccara. Ma non ha valso a nulla. Anzi è certo che ho fatto peggio; me ne sono accorto parlando. Più mi sforzavo di render chiara la spiegazione e più il signor Lavaccara si scuriva in viso, masticando:

– Già… già…

Il narratore sembra capire che il Lavaccara è arrabbiato / offeso perché crede che sia ancora stato mancato di rispetto.

Perché certo gli è parso che io, facendo ragionare quella sua bestia come un uomo, o meglio, pretendendo che quella sua bestia ragionasse come un uomo, non intendessi mica parlare della bestia, ma di lui.

Dopo il malinteso / fraintendimento, il Lavaccara racconta la storia del suo incontro con il narratore a tutti i suoi amici e colleghi. Tuttavia, il signore travisa il punto di vista del narratore.

E così. So difatti che il signor Lavaccara va portando in giro il mio discorso per farne risaltare la fatuità agli occhi di tutti, perché tutti gli dicano che non avrebbe senso quel mio discorso riferito a una bestia la quale anch’essa crede di mangiare per sé e non può sapere che gli altri la facciano ingrassare per conto loro; e se un porco è nato porco che può farci? per forza come un porco deve mangiare, e dire che non dovrebbe e dovrebbe rifiutare il pasto per farsi mangiar magro è una sciocchezza, perché un tal proposito a un porco non può mai venire in mente.

(A noi, il fatto che il Lavaccara sembra aver deriso il narratore non dovrebbe da prendere alla leggera. L’ambientazione della storia è un paese, probabilmente nell’Italia meridionale, dove i pettegolezzi beffardi d’un padrone potrebbero aver conseguenze negative durature.)

Il Lavaccara ei suoi amici sembrano aver una visione ‘standard’ del valore e dello scopo d’un miale da fattoria: viene allevato fino alla maturità e poi è venduto per la macellazione. Impariamo che il signore non può credere al suggerimento del narratore che un maiale, se fosse intelligente, rifiuterebbe il cibo! Crede invece che un maiale è un maiale: deve mangiare e quindi deve svilupparsi; non ci può esser altra alternativa.

Allora… impariamo che infatti, il narratore concorda pienamente con la visione del Lavaccara sul valore e l’utilità d’un maiale. Il suo unico disaccordo è con il vanto / la spacconata che il suo maiale fosse intelligente: secondo il narratore, un maiale nonpotrebbe mai essere intelligente… in altre parole, un maiale (o qualsiasi animale) è incapace di mostrare o di possedere l’intelligenza d’un essere umano.

Siamo perfettamente d’accordo. Ma se me l’ha cantato lui, santo Dio, il signor Lavaccara, lui in tutti i toni, che quella sua bestia la parola sola le mancava! Io gli ho voluto dimostrare appunto che non poteva averla e non l’aveva per sua fortuna questa famosa intelligenza umana; perché un uomo sì, può permetterselo il lusso di mangiare come un porco, sapendo che alla fine, ingrassando, non sarà scannato; ma un porco no, no e no. Perdio, mi sembra così chiaro!

Poi, il narratore, ancora una volta, protesta contro l’idea che intendeva offendere il Lavaccara… piuttosto, dice, stava cercando di proteggerlo dal suo ragionamento difettoso, vale a dire, dal fare un errore incurante!

Offendere? ma che offendere! io ho voluto anzi difendere contro se stesso il signor Lavaccara e conservargli intero il mio rispetto

E poi, il narratore si chiede se forse il Lavaccara abbia commesso un errore a causa della colpa che potrebbe aver sentito per aver venduto il maiale per la macellazione. Forse sì, forse no.

Ma se, infatti, questo non è il caso (vale a dire, se il signore non si senta alcun rimorso…. ma invece ha perso di vista la tradizione, di ciò che è stato conosciuto per essere vero su l’uomo e gli animali per secoli, beh, allora! …il narratore intende correggere il signore nonostante le conseguenze delle sue azioni.

e levargli fin l’ombra del rimorso d’aver venduto quella sua bestia perché fosse scannata alla festa del Signore della Nave. Se no, alle corte: m’arrabbio sul serio e dico al signor Lavaccara che, o il suo porco era un porco qualunque e non aveva questa famosa intelligenza umana che lui va dicendo, o il vero porco è lui, il signor Lavaccara; e ora lo offendo per davvero.

Il narratore spiega: il suo punto di vista è una semplice questione di logica: no signore, gli animali infatti non possiedono l’intelligenza umana! Invece, il narratore crede che, vantandosi l’intelligenza del suo maiale, il Lavaccara abbia diminuito / offeso / danneggiato la dignità di tutti gli esseri umani.

Questione di logica, signori. E poi qui è in ballo la dignità umana che mi preme salvare ad ogni costo, e non potrei salvarla se non a patto di convincere il signor Lavaccara e tutti quelli che gli danno ragione, che i porci grassi non possono essere intelligenti, perché se questi porci parlano tra sé come il signor Lavaccara pretende e va dicendo, non essi, ma la dignità umana appunto sarebbe scannata in questa festa del Signore della Nave.

(È più che logico, non è vero? Impariamo che il narratore si basa il suo ragionamento su una saggezza ricevuta che è vecchia di secoli. Il suo punto di vista, quindi, sembra essere, “La mia opinione sia così come sia, come sia sempre stata. Non ci sia alternativa.” A questo proposito, il narratore sembra accusare il Lavaccara di disattenzione, di perdita di prospettiva, cioè una perdita d’un apprezzamento per la tradizione, un rilassamento di entrambi lo standard e il rigore.)

Successivamente, impariamo perché il maiale di Lavaccara è stato venduto. La macellazione farà parte d’una festa religiosa che celebra il Signore della Nave, una festa che si svolge ogni anno a settembre.

Il narratore ci informa che, infatti, non è sicuro di come la festa abbia effettivamente incluso il sacrificio animale come una parte della celebrazione.

Veramente non so che relazione ci sia tra il Signore della Nave e la scanna dei porci che si suole iniziare il giorno della sua festa. Penso che, siccome d’estate la carne di queste bestie è nociva, tanto che se ne proibisce la macellazione, e con l’autunno il tempo comincia a rinfrescare, si colga l’occasione della festa del Signore della Nave, che cade appunto in settembre, per festeggiare anche, come suol dirsi, le nozze di quell’animale. In campagna, perché il Signore della Nave si festeggia nell’antica chiesetta normanna di San Nicola, che sorge un buon tratto fuori del paese, a una svolta dello stradone, tra i campi.

Impariamo che la festa celebra la storia d’un naufragio, anni fa, che avrebbe potuto portare a una tragica perdita di vita, ma invece tutti i naufraghi sono stati salvati a causa d’un miracolo che coinvolto una visione del Gesù.

Ci dev’essere, se si chiama così questo Signore, qualche storia o leggenda ch’io non so. Ma eerto è un Cristo che, chi lo fece, più Cristo di così non lo poteva fare; ci si mise addosso con una tale ferocia di farlo Cristo, che nei duri stinchi inchiodati su la rozza croce nera, nelle costole che gli si possono contare tutte a una a una, tra i guidaleschi e le lividure, non un’oncia di carne gli lasciò che non apparisse atrocemente martoriata. Saranno stati i giudei su la carne viva di Cristo; ma qui fu lui, lo scultore. Quando però si dice, esser Cristo e amare l’umanità! Pur trattato così, fa miracoli senza fine questo Signore della Nave, come si può vedere dalle cento e cento offerte di cera e d’argento e dalle tabelle votive che riempiono tutta una parete della chiesetta; ogni tabella col suo mare blu in tempesta, che non potrebbe esser più blu di così, e il naufragio della barchetta col nome scritto bello grosso a poppa che ciascuno possa leggerlo bene, e insomma ogni cosa, tra nuvole squarciate, e questo Cristo che appare alle supplicazioni dei naufraghi e fa il miracolo.

(A noi, l’icona sia descritta come un’esagerazione, quasi comica, della sofferenza di Cristo.)

A questo punto il narratore cambia bruscamente il soggetto. Ritorna al malinteso / fraintendimento, che ha portato il Lacavarra a non invitare il narratore alla sua propria ‘festa privata’.

Basta. Io intanto con la discussione su l’intelligenza e la grassezza del porco e il deplorabilissimo malinteso a cui questa discussione ha dato luogo, ho perduto l’invito del signor Lavaccara alla festa.

Il narratore tenta di ‘brush aside’ l’affronto del Lavaccara. Ci informa del suo interesse d’esaminare il comportamento e le caratteristiche dei partecipanti alla festa.

Non me ne dolgo tanto per il piacere che mi è mancato, quanto per lo sforzo che ho dovuto fare, assistendo solo da curioso alla festa, per conservare il rispetto a tante brave persone e salvare, come ho detto, la dignità umana.

Poi, il narratore ci avverte che, sebbene possa esser difficile per noi da credere le sue osservazioni, ci sta dicendo la verità!

Dico la verità. Dati i sani criteri di cui mi sento ormai profondamente compenetrato, non credevo mi dovesse costar tanto. Ma alla fine, con l’ajuto di Dio, ci sono riuscito.

Per prima cosa, il narratore osserva attentamente i maiali, mentre arrivano alla festa. Il loro comportamento conferma ciò che ha sempre saputo: sono stupidi! Infatti così stupidi che sembrano fidarsi degli esseri umani, nonostante che questa è l’ultima cosa che dovrebbero fare!

Quando, la mattina, tra la polvere dello stradone ho veduto i branchi e branchetti di tutti quei porcelloni cretacei avviarsi ballonzolanti e grufolanti al luogo della festa, ho voluto guardarli apposta a uno a uno attentamente.

Bestie intelligenti, quelle? Ma via! Con quel grugno lì? con quelle orecchie? con quel buffo cosino arricciolato dietro? E grugnirebbero così, se fossero intelligenti? Ma se è la voce della stessa ingordigia, quel loro grugnito! Ma se frugolavano finanche nella polvere dello stradone! fino all’ultimo, senza il minimo sospetto che tra poco sarebbero stati scannati. Si fidavano dell’uomo? Ma grazie tante di questa fiducia! Come se l’uomo, da che mondo è mondo e ha pratica coi porci, non avesse sempre dimostrato al porco di appetirne la carne; e ch’esso perciò non deve affatto fidarsi di lui! Perdio, se l’uomo arriva finanche ad assaggiargli addosso, da vivo, le orecchie e il codino! Meglio di così? Che se poi vogliamo chiamar fiducia la stupidità, siamo logici in nome di Dio, e non diciamo che i porci sono bestie intelligenti.

Poi, il narratore sottolinea che non non c’è altra spiegazione perché un essere umano si prenderebbe cura d’un maiale (com’è consuetudine) a meno che fosse perché il maiale aveva un valore: cioè, al maturità, il miale poteva essere venduto… e poi, dopo la macellazione, venduto di nuovo come cibo per il consumo.

Ma scusate, e se non se lo dovesse mangiare, che obbligo avrebbe l’uomo d’allevare il porco con tanta cura, fargli da servo, lui carne battezzata, condurselo al pascolo, perché? che servizio gli rende in compenso del cibo che n’ha?

Anzi, il narratore sostiene che, tutto sommato, la vita d’un maiale sia piuttosto buona… che la macellazione d’un maiale, alla fine d’una bella vita—cioè una vita piena di cibo e riparo—sia un discreto ‘trade-off’.

Nessuno vorrà negare che il porco, finché campa, campa bene. Considerando la vita che ha fatto, se poi è scannato se ne deve contentare, perché certo per sé, come porco, non se la meritava.

Dopo osservando i maiali, il narratore osserva gli umani esseri come loro arrivano.

E passiamo agli uomini, signori miei! Ho voluto osservarli apposta anch’essi a uno a uno, mentre s’avviavano al luogo della festa.

Che altro aspetto, signori miei!

Sembra esser facile per il narratore trovare evidenza dell’intelligenza umana (es.) nel modo in cui loro evitano di respirare la polvere sollevato dai branchi dei maiali oppure nelle loro cortesie comuni,

Il dono divino dell’intelligenza traspariva anche dai minimi atti: dal fastidio con cui voltavano la faccia per non prendersi il polverone sollevato dai branchi di quelle bestie, e dal rispetto, con cui poi si salutavano l’un l’altro.

…e nella loro scelta del buon senso d’indossare gli abiti.

Ma l’aver pensato di coprir di panni l’oscena nudità del corpo, già questo solo, considerate a quale altezza colloca l’uomo sopra uno schifosissimo porco. Potrà mangiare fino a schiattarne e anche imbrodolarsi tutto, un uomo; ma poi ha questo, che si lava e si veste. E quand’anche li immaginassimo nudi per lo stradone, uomini e donne; cosa impossibile, ma ammettiamola pure; non dico che sarebbe un bel vedere, le vecchie, i panciuti, i non puliti; tuttavia, che differenza, pensate, anche a guardar soltanto alla luce dell’occhio umano, specchio dell’anima, e al dono del sorriso e della parola.

Il narratore osserva astutamente che per alcuni di coloro che partecipano, la festa possa esser un’esperienza ‘agrodolce’, quando aad esempio è morta una persona cara che ha partecipato alla festa l’anno scorso. Per alcuni altri, la festa possa servire semplicemente come una fuga, per quanto momentanea, da quella che è una vita durissima.

E i pensieri che ciascuno, pur andando alla festa, aveva in mente; forse non del padre o della madre, ma di qualche amico o della nipote o dello zio, che lo scorso anno partecipavano anche loro allegri alla festa campestre, bevevano anche loro quella bell’aria aperta, e adesso, rinserrati nel bujo sottoterra, poverini… Sospiri, rimpianti, e anche qualche rimorso. Ma sì! Non erano tutti lieti quei visi; la promessa del godimento d’una giornata grassa non spianava su la fronte di tanti magri le rughe delle cure opprimenti e i segni delle fatiche e delle sofferenze. E parecchi compassionevolmente portavano a quella festa d’un giorno la loro miseria di tutto l’anno, per provare se trovasse più il verso, là tra tanti sanguigni ben pasciuti, d’aprire i denti gialli a uno squallido sorriso.

Poi, il narratore osserva che i maiali non abbiano idea di cosa possono pensare e sentire gli umani. Al tempo stesso, riconosce lui che gli uomini possano comportarsi male, cioè in un modo non diverso dagli animali. Tuttavia, ci sarà sempre una differenza: siano ancora uomini comportando male, non animali!

E poi pensavo a tutte le arti, a tutti i mestieri a cui quegli uomini attendevano con tanto studio, con tanti travagli e tanti rischi, che i porci certamente non conoscono. Perché un porco è porco e basta; ma un uomo, no, signori, potrà anche esser porco, non dico, ma porco e medico, per esempio, porco e avvocato, porco e professore di belle lettere e filosofia, e notajo e cancelliere e orologiajo e fabbro… Tutti i lavori, le afflizioni, le cure dell’umanità vedevo con soddisfazione rappresentati in quella folla che procedeva per lo stradone.

A questo punto, , per caso, il narratore incontra il Lavaccara che finge di non accorgersi lui.

A un certo punto, il signor Lavaccara, reggendo per mano, uno di qua, uno di là, i due figliuoli più piccoli, m’è passato davanti, con la moglie dietro, rosea e prosperosa come lui, tra le due figliuole maggiori. Tutt’e sei han fatto finta di non vedermi; ma le due figliuole, tirando via di lungo, si sono tutte invermigliate e uno dei piccini, dopo pochi passi, s’è voltato tre volte a sbirciarmi. La terza volta, così per ridere, io ho cacciato fuori la lingua e l’ho salutato di nascosto con la mano; s’è fatto serio serio, con un viso lungo lungo distratto e s’è subito messo a guardare altrove.

(Presumibilmente, il Lavaccara è un ‘porco-padrone’!)

Il narrator tenta di elaborare l’insulto. Immagina anche la famiglia del Lavaccara che dapprima si abbuffi del carne e poi ne subisca le conseguenze.

Mangerà il porco anche lui, povero piccino; forse ne mangerà troppo; ma speriamo che non gli faccia male. Quand’anche però gli dovesse far male, la previdenza umana c’è pure per qualche cosa. Andate a cercarla nei porci, la previdenza; trovatemi un porco farmacista che prepari con l’alchermes l’olio di ricino per i porcellini che si siano guastati lo stomaco per intemperanza!

Ho seguito da lontano, per un buon tratto, la cara famigliuola del signor Lavaccara che si avviava sicuramente incontro a un solennissimo guasto di stomaco; ma ecco che mi son potuto consolare pensando che domani troverà da un farmacista la purghetta che li guarirà.

La festa è caotica,

Quante baracche improvvisate con grandi lenzuola palpitanti, nello spiazzo davanti la chiesa di San Nicola, attraversato dallo stradone!

Taverne all’aperto; tavole, tavole e panche; caratelli e barili di vino; fornelli portatili; banchi e ceppi di macellai.

…gli fuochi sono accesi,

Un velo di fumo grasso misto alla polvere annebbiava lo spettacolo tumultuoso della festa; ma pareva che non tanto quella grassa fumicaja, quanto lo stordimento cagionato dalla confusione e dal baccano impedisse di vedere chiaramente.

…e i maiali vengono macellati: o le loro gole sono tagliate o vengono sparati, e poi vengono spellate e macellate. Tutto questo capita allo scoperto… cioè, è disponibile per tutti da vedere.

Non erano però grida giulive, di festa, ma grida strappate dalla violenza d’un ferocissimo dolore. Oh sensibilità umana! I venditori ambulanti, gridando la loro merce; i tavernai, invitando alle loro mense apparecchiate; i macellai, ai loro banchi di vendita, intonavano il bando, senza forse saperlo, su le strida terribili dei porci che là stesso, in mezzo alla folla, erano macellati, sparati, scorticati, squartati. E le campane della gentile chiesina ajutavano le voci umane, rintronando all’impazzata, senza posa, a coprire pietosamente quelle strida.

Il narratore anticipa le domande dal lettore, “Perché macellare i maiali allo scoperto? Perché non eseguire la macellazione in un luogo riservato / privato?

Voi dite: ma perché almeno non si macellavano lontano dalla folla tutti quei porci? E io vi rispondo: ma perché la festa allora avrebbe perduto uno dei suoi caratteri tradizionali, forse il suo primitivo carattere sacro, d’immolazione.

La risposta è che il ‘sacrificio animale’ fa parte della tradizione della festa, anzi, è un’usanza / una tradizione che risale ai greci.

Voi non pensate al sentimento religioso, signori.

(Il narratore ci rimprovera per aver posto la domanda in primo luogo. A quanto pare, abbiamo perso parte della nostra prospettiva… sembra che abbiamo perso qualcosa a causa dei nostri stessi progressi!)

Per la maggior parte dei partecipanti alla festa la macellazione dei maiali è difficile da guardare, perché (come noi) non sembrano esser in grado di collocare la pratica del sacrificio animale in un contesto storico.

Ho visto tanti impallidire, turarsi con le mani gli orecchi, torcere il viso per non vedere l’accoratojo brandito cacciarsi nella gola del porco convulso tenuto violentemente da otto braccia sanguinose smanicate; e per dir la verità, ho torto il viso anch’io, ma lamentando dentro di me amaramente che l’uomo a mano a mano, col progredire della civiltà, si fa sempre più debole, perde sempre più, pur cercando d’acquistarlo meglio, il sentimento religioso.

Questo non vuol dire, tuttavia, che i partecipanti non siano in grado di trattare e mangiare la carne di maiale dopo la macellazione.

Seguita, sì, a mangiarsi il porco; volentieri assiste alla manifattura delle salsicce, alla lavatura della corata, al taglio netto del fegato lucido compatto tremolante; ma torce poi il viso all’atto dell’immolazione. E certo è ormai cancellato il ricordo dell’antica Maja, madre del dio Mercurio, da cui il porco ripete il suo secondo nome.

Ancora una volta, il narratore vede il Lavaccara… questa volta il signore porta la testa e il fegato (interi) del suo maiale, che gli sono stati dati come parte della trattativa per vendere il maiale.

Ho rivisto sul tardi il signor Lavaccara, sudato e stravolto, senza giacca, recando tra le mani un gran piatto bislungo, avviarsi, seguito dai due piccini, al banco del macellajo al quale aveva venduta quella sua bestia intelligente. Andava a riceverne – patto della vendita – la testa e tutto il fegato.

Anche questa volta, ma con più ragione, il signor Lavaccara ha finto di non vedermi. Uno dei due piccini piangeva; ma voglio credere che non piangesse per la prossima vista della pallida testa insanguinata della cara grossa bestia carezzata per circa due anni nel cortile della casa. La contemplerà il padre quella testa dalle larghe orecchie abbattute, dagli occhi gravemente socchiusi tra i peli, per lodarne forse, con rimpianto ancora una volta, l’intelligenza, e per questa maledetta ostinazione si guasterà il piacere di mangiarsela.

Il tempo passa, e finalmente il Lavaccara lo invita il narratore a unirsi a lui.

Ah mi avesse invitato a tavola con lui! Mi sarei risparmiato certamente il grande affanno di vedere, io solo a digiuno, io solo con gli occhi non offuscati dai vapori del vino, tutta quella umanità, degna di tanta considerazione e di tanto rispetto, ridursi a poco a poco in uno stato miserando, senza più neppure un’ombra di coscienza, senza la più lontana memoria delle innumerevoli benemerenze che in tanti secoli ha saputo acquistarsi sopra le altre bestie della terra con le sue fatiche e con le sue virtù.

Il tempo passa. È scoppiato il pandemonio: la maggioranza dei partecipanti sono ubriachi e hanno mangiato in eccesso.

Scamiciati gli uomini, discinte le donne; teste ciondolanti, facce paonazze, occhi imbambolati, danze folli tra tavole capovolte, panche rovesciate, canti sguajati, falò, spari di mortaretti, urli di bimbi, risa sgangherate. Un pandemonio sotto le rosse nubi dense e gravi del tramonto, sopravvenute quasi con spavento.

Il tempo passa. Il sole tramonta. La massa dei partecipanti ubriachi si riunisce — comicamente, tragicamente, ironicamente — in una processione dietro l’icona del Cristo sofferente.

Sotto queste nubi divenute a mano a mano più cupe e fumolente, ho veduto poco dopo, al richiamo delle campane sante, raccogliersi alla meglio tra spinte e urtoni tutta quella folla ubriaca, e imbrancarsi in processione dietro a quel terribile Cristo flagellato su la croce nera, tratto fuori dalla chiesa, sorretto da un chierico pallido e seguito da alcuni preti digiuni, col camice e la stola.

Il narratore ci informa che due dei maiali sono stati salvati dalla macellazione. Il narratore immagina che i maiali osservino la processione. Immagina anche una conversazione in cui un maiale si rivolga all’altro e commenti: “E dicono che siamo maiali!”

Due porcelloni, per loro somma ventura scampati al macello, sdrajati a pie d’un fico, vedendo passare quella processione, m’è parso si guardassero tra loro come per dirsi:

«Ecco, fratello, vedi? e poi dicono che i porci siamo noi».

E adesso vediamo, chiaramente, la delusione del narratore nel suo simile… uno che ha perso il controllo; uno che ha dimenticato la tradizione, la storia; uno che ha allentato i suoi standard di comportamento accettabile; uno in pericolo di perdere la sua dignità.

Mi sentii fino all’anima ferire da quello sguardo, e fissai anch’io la folla ubriaca che mi passava davanti. Ma no, no ecco – oh consolazione! – vidi che piangeva, piangeva tutta quella folla ubriaca, singhiozzava, si dava pugni sul petto, si strappava i capelli scarmigliati, cempennando, barellando dietro a quel Cristo flagellato. S’era mangiato il porco, sì, s’era ubriacata, è vero, ma ora piangeva disperatamente dietro a quel suo Cristo, l’umanità.

– Morire scannate è niente, o stupidissime bestie! – io allora esclamai, trionfante. – Voi, o porci, la passate grassa e in pace la vostra vita, finché vi dura. Guardate a questa degli uomini adesso! Si sono imbestiati, si sono ubriacati, ed eccoli qua che piangono ora inconsolabilmente, dietro a questo loro Cristo sanguinante su la croce nera! eccoli qua che piangono il porco che si sono mangiato! E volete una tragedia più tragedia di questa?

***

“L’uomo è diverso dall’animale solo perché non sa esserne uno preciso.” (F. Pessoa)

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