Riassunto: Soffio

“Si te vede la morte, se gratta.”

(Un’espressione romana che indica uno che porta sfortuna o un malocchio.)

***

I. Certe notizie sopravvengono così inattese che si resta lì per lì sbalorditi, e dallo sbalordimento pare non si trovi più modo a uscire se non ricorrendo a una delle frasi più fruste o delle considerazioni più ovvie.

Inizia così Soffio (L. Pirandello), una novella che descrive, secondo noi, il ‘lato oscuro’ degli esseri umani … vale a dire il nostro fascino con, e predilezione per, il male.

All’inizio della storia il narratore (che è innominato ed anche è il protagonista) descrive la su’esperienza con l’imprevedibilità della vita—come, ad esempio, la notizia d’un evento scioccante ed inaspettato può travolgere e dominare la mente d’una persona.

Per illustrare questo, il protagonista ci racconta una storia … qualcosa che è successo di recente, una storia che ha iniziato come segue: Calvetti, l’assistente di Bernabò (Bernabò era l’amico del protagonista), è arrivato a casa di lui con la notizia che è appena mortoil vecchio padre di Massari. Quest’era una notizia scioccante, soprattutto da quando in precedenza del giorno il protagonista e Bernabò avevano preso colazione con il vecchio.

Per esempio, quando il giovane Calvetti, segretario del mio amico Bernabò, m’annunziò la morte improvvisa del padre del Massari, da cui poco prima Bernabò e io eravamo stati a colazione,

In risposta a Calvetti, il protagonista ha fatto un’osservazione casuale sulla fragilità dell’esistenza umana—uno scherzo forse, qualcosa d’allentare la tensione—e ha accompagnato l’osservazione con un gesto comune.

mi venne d’esclamare: – Ah la vita cos’è! Basta un soffio a portarsela via –; e congiunsi il pollice e l’indice d’una mano per soffiarci su, come a far volare una piuma che tenessi tra quelle due dita.

Quasi immediatamente però Calvetti ha subito un’afflizione vaga / indefinita … (es.) la su’espressione ha cambiato, lui si è piegato alla girovita (come se fosse difficile respirare) e lui si è messo involontariamente una mano sul petto. L’afflizione non era grave, perlomeno secondo il protagonista … forse un problema auto-limitato? forse un problema del fegato, dei reni o degl’intestini? Il protagonista continua dicendo che anche se l’afflizione si è presentata subito dopo il suo gesto comune, non gli è venuto mai in mente che ci sarebbe potuto esser una relazione di causa ed effetto.

Vidi, a quel soffio, il giovane Calvetti farsi brusco in volto, poi piegare il busto e portarsi una mano al petto, come quando s’avverte dentro, e non si sa dove, un malessere indefinito; ma non ne feci caso, parendomi assurdo ammettere che quel malessere potesse dipendere dalla stupida frase che avevo detta e dal ridicolo gesto con cui, non contento d’averla detta, avevo anche voluto accompagnarla; pensai a qualche fitta o puntura ch’egli avesse avvertito, forse al fegato o al rene o agl’intestini, momentanea a ogni modo e senz’alcuna gravità.

Solo che poche ore dopo, Bernabò è arrivato per informare il protagonista che Calvetti è morto all’improviso nel pomeriggio;

Senonché, prima di sera, mi piombò in casa costernatissimo Bernabò:

– Sai che m’è morto Calvetti?

– Morto?

– All’improvviso, nel pomeriggio.

… poi il protagonista si rese conto che molto probabilmente Calvetti è morto poco dopo la visita,

– Ma se nel pomeriggio era qua da me! Aspetta, che ora poteva essere? Saranno state le tre.

– E alle tre e mezzo è morto!

– Mezz’ora dopo?

– Mezz’ora dopo.

… e poi Bernabò, ovviamente sconvolto da ciò che è successo, si è chiesto, quasi inconsciamente, se potrebb’esserci stata qualsiasi relazione di causa ed effetto,

Lo guardai male, come se con quella conferma intendesse stabilire una relazione (ma quale?) tra la visita a me e la morte repentina del povero giovine.

… un’idea che il protagonista ha respinto categoricamente.

Ebbi come un impeto dentro, che mi forzò a respingere subito quella relazione, foss’anche fortuita, come un sospetto di rimorso che me ne potessi fare;

Poi, alla ricerca d’una spiegazione razionale della morte, il protagonista ha menzionato l’afflizione che Calvetti ha sofferto mentre gli uomini erano insieme,

e a trovare a quella morte una ragione estranea alla visita; e dissi al Bernabò dell’avvertimento improvviso del malessere che il giovine aveva avuto mentr’era ancora con me.

… a cui Bernabò ha commentato,

– Ah sì? Un malessere?

… e il commento, a sua volta, ha indotto il protagonista a ripetere la sua osservazione precedente sulla fragilità della natura umana … insieme al gesto comune.

– La vita cos’è! Basta un soffio a portarsela via.

Ecco, ripetevo meccanicamente la frase perché, sotto sotto, il pollice e l’indice della mia mano destra s’eran toccati da sé, e da sé ora la mano, senza parere, mi si levava fino all’altezza delle labbra.

(Supponiamo che il protagonista fosse vicino ad entrambi Calvetti e Bernabò quando ha soffiato su il pollice e l’indice … abbastanza vicino, cioè, in modo che ogni uomo avrebbe potuto inalare il suo respiro.)

Poi, il protagonista ci assicura che entrambi l’osservazione e il gesto comune erano spensierati, cioè, realizzati quasi senza un pensiero cosciente. Naturalmente, ci spiega, non aveva intenzione di dimostrar nulla in particolare.

Giuro che non fu tanto con la coscienza di darmi una riprova quanto piuttosto di fare a me stesso uno scherzo che solo così di nascosto, per non parer ridicolo, potevo fare: trovandomi quelle due dita davanti alla bocca, ci soffiai su, appena appena.

E poi, scopriamo che Bernabò, pericolosamente sovrappeso e fuori forma, ha quasi immediatamente subito un’afflizione non dissimile a quella di Calzetti. Inizialmente, il protagonista si è chiesto se l’afflizione di Bernabò fosse legata alla su’angoscia per la morte di Calzetti, forse in combinazione con la sua cattiva salute generale.

Bernabò era alterato in volto per la morte di quel suo giovane segretario a cui era molto affezionato; e tante volte, dopo aver corso o soltanto affrettato un po’ il passo, corpulento, sanguigno e quasi senza collo, m’era venuto avanti ansimando e s’era anche portata la mano al petto per calmare il cuore e riprender fiato; ora, vedendogli fare quello stesso gesto e udendogli dire che si sentiva soffocare e occupar la mente e la vista come da una strana tenebra, che cosa, in nome di Dio, dovevo credere?

Tuttavia, quasi immediatamente il protagonista si è precipitato ad aiutar il suo amico, ma Bernabò l’ha allontanato violentemente: stava avendo grave difficoltà a respirare!

Sull’istante, pur tutto smarrito e stravolto com’ero, mi gettai a soccorrere il povero amico piombato riverso e boccheggiante su una poltrona. Ma mi vidi respinto furiosamente; e allora finii per non comprendere proprio più nulla;

Stupito ed inorridito, il protagonista ha guardato come il suo amico collassa su un poltrone.

mi sentii come gelare in un’attonita apatia, e stetti a vedérlo sussultare su quella poltrona di velluto rosso, che mi parve tutta di sangue, sussultare non più come un uomo ma come una bestia ferita, e smaniare il respiro, e diventare sempre più pavonazzo, quasi nero.

Poi, il protagonista afferma che, in disperazione, Bernabò ha cercato d’alzarsi in piedi da solo, ma nel farlo i suoi pantaloni sono stati sollevati di traverso, il che rivelato un indumento intimo colorato (una giarrettiera).

Faceva leva con un piede sul tappeto, forse per rizzarsi da sé, ma si sfiniva in quello sforzo; come nell’incubo d’un sogno, vedevo il tappeto scivolargli sotto, arricciandosi. Sull’altra gamba, storta sul bracciuolo della poltrona, il calzone tirato gli aveva scoperto la giarrettiera di seta, d’un color verdolino a righine rosa.

(Bernabò stava morendo quindi sembrava ridicolo, non è vero, che il protagonista prestasse così tanta attenzione alla giarrettiera?)

Poi, mentre la scena si svolgeva, un senso di shock ed ansia ha portato il protagonista a fuggire brevemente dalla realtà.

Domando un po’ di considerazione per la mia carità: tutta la mia inquietudine era come schiantata e sparsa qua e là, tanto che poteva come niente dimenticarsi, a un volger d’occhi, o nel fastidio che avevo sempre avuto dei miei brutti quadri appesi alle pareti, o anche nella curiosità che mi tratteneva lo sguardo, ecco, sul colore e le righine di quella giarrettiera.

Dopo un po’, essersi ripreso dalle sue fantasticherie, il protagonista è entrato in azione: ha chiesto aiuto ed una vettura per trasportare il suo amico in un posto dove avrebbe ricevuto ulteriore assistenza.

Tutt’a un tratto però mi ripresi, inorridito d’essermi potuto in tal momento alienare fino a tanto, e urlai al mio cameriere che volasse a fermare davanti alla porta una vettura, e poi su ad ajutarmi a trasportare l’agonizzante a un ospedale o a casa.

Alla fine veniva presa la decisione di trasportare Bernabò a casa sua. Apprendiamo che Bernabò ha vissuto con sua sorella maggiore, una persona che il protagonista non ammirava.

Preferii a casa, perché più vicino. Non abitava solo; aveva con sé una sorella, maggiore di lui, non so se vedova o vecchia zitella, insoffribile per la puntigliosa meticolosità con cui lo governava.

Era sopraffattissima la sorella quando ha capito la serietà della condizione del fratello.

Allibita, la poverina, con le mani nei capelli: – Oh Dio, che è stato? com’è stato? –,

Poi, il protagonista racconta che lui stessa era affaticatissimo dalla lotta per spostare il suo amico obeso su per le scale che hanno portato a casa sua; la sorella, nel frattempo, era di scarso aiuto.

e non voleva levarcisi dai piedi, che rabbia! per sapere da me che era stato, com’era stato, proprio da me e proprio in quel momento che non ne potevo più, con tutte le scale che avevo fatte, salendo all’indietro, col peso enorme sulle braccia di quel corpo abbandonato. – Il letto! il letto! – Pareva non lo sapesse più nemmeno lei, dove fosse il letto, a cui mi sembrò non s’arrivasse mai.

Alla fine Bernabò, vicino alla morte, era portato nel suo letto … il protagonista aveva la presenza della mente di chiamare un medico.

Depostolo rantolante (ma rantolavo anch’io) mi buttai con le spalle, rifinito, a ridosso a una parete, e se non erano pronti a raccogliermi su una seggiola, cadevo giù tutto in un fascio sul pavimento. Col capo ciondolante, potei dire tuttavia al cameriere: – Un medico! un medico!

Il protagonista, adesso da solo con la sorella di Bernabò, ha anticipato che l’avrebbe colpito con le domande sulla condizione del fratello. Invece però la stanza improvvisamente è divenuta silenziosa, e in poco tempo il protagonista si rese conto che Bernabò non respirava più: era stato appena morto, ed entrambi il protagonista e la sorella erano costretti ad affrontarsi la morte scioccante di Bernabò.

ma mi ricaddero le braccia al pensiero che ora restavo solo con la sorella, che certo m’avrebbe aggredito con altre domande. Mi salvò il silenzio che d’improvviso si fece sul letto, cessato il rantolo. Parve, per un attimo, silenzio di tutto il mondo; e fu difatti, per sempre, di tutto il mondo, per il povero Bernabò rimasto lì sordo e inerte su quel letto. Subito si levarono le disperazioni della sorella. Ero annichilito. Come immaginare, non dico credere, che una tale enormità fosse possibile? Le mie idee non potevano più pigliar sesto. E in quello sconvolgimento mi pareva tanto curioso che quella poverina, suo fratello Giulio, come lo aveva sempre chiamato, ora ch’era lì morto, corpulenza immobile che non consentiva diminutivi, lo chiamasse proprio Giuliette! Giuliette!

Poi, tuttavia, veniva emesso dall’addome del cadavere un suono fortissimo! (gorgoglio? brontolio?) e la sorella di Bernabò si è svenuto … forse suo fratello non era morto dopo tutto?

A un certo punto, scattai in piedi, esterrefatto. Il cadavere, come si fosse avuto a male di quelGiulietto! Giulietto! aveva risposto con un orribile brontolio dello stomaco. Toccò a me questa volta parar la sorella, che sarebbe cascata indietro a terra, svenuta dal terrore; mi svenne invece tra le braccia; e allora, tra lei svenuta e quel morto sul letto, senza più saper che fare né che pensare, mi sentii preso in un vortice di pazzia e cominciai a scrollare quella poverina, perché la finisse con quello svenimento ch’era proprio di più. Senonché, rinvenuta, non volle più credere che il fratello fosse morto. – Ha sentito? Non dev’esser morto! Non può essere morto!

Tuttavia, una volta arrivato il medico ed è stato in grado di valutare la situazione, ha confermato che Bernabò era morto. Ha anche spiegato che non era raro che i cadaveri emettessero suoni addominali subito dopo la morte.

– Bisognò venisse il medico ad accertarlo e ad assicurarla che quel brontolio non era stato nulla, un po’ di vento o non so che altro, che quasi tutti i morti sogliono fare. Allora lei, ch’era linda e ci teneva, fece un viso angustiato e si parò gli occhi con la mano, come se il medico le avesse detto che anche lei da morta lo avrebbe fatto.

Adesso il protagonista divaga, descrivendo l’aspetto fisico del medico,

Era quel medico uno di quei giovani calvi che portano quasi con dispettosa fierezza la loro precoce calvizie tra la violenza d’una selva di riccioli neri che, non si sa perché scomparsi dal sommo del capo, gremiscono poi tutt’intorno la testa. Con gli occhi di smalto armati da forti lenti da miope, alto, piuttosto grasso ma vigoroso, due cespuglietti di peli mozzati sotto il naso piccolo, le labbra tumide, accese e così ben segnate da parer dipinte,

… e poi ci racconta che il medico sembrava deridere l’ignoranza della sorella di Bernabò,

guardava con tal derisoria commiserazione l’ignoranza di quella povera sorella

… e che il medico sembrava dare l’impressione d’aver capito con arroganza la causa della morte di Bernabò.

e parlava della morte con così disinvolta familiarità, quasi che avendo da fare di continuo con essa nessuno dei suoi casi gli potesse esser dubbio od oscuro,

Il protagonista però sembrava non esser d’accordo con la valutazione del medico,

che alla fine un ghigno di scherno mi proruppe dalla gola irresistibilmente. Già mentre parlava, m’ero scorto per caso allo specchio dell’armadio e m’ero sorpreso con uno sguardo storto e freddo che subito m’era rientrato negli occhi strisciando come una serpe.

… e, quasi inconsciamente, ha iniziato a fare il gesto comune.

E il pollice e l’indice della mia destra si premevano, si premevano così fortemente l’un contro l’altro, ch’eran come insorditi dallo spasimo della reciproca pressione.

Poi, il protagonista ha confrontato il medico, dimostrando il gesto e spiegando il suo potere.

Appena egli a quel mio ghigno si voltò, gli mossi incontro, a petto, e, con la bocca atteggiata ancora di scherno nel pallore che m’aveva inteschiato il volto, gli sibilai: – Guardi –, e gli mostrai le dita, – così! Lei che la sa così lunga sulla vita e la morte: ci soffii su, e veda se le riesce di farmi morire!

Uomo di scienza medica, il dottore rimaneva sbalordito dal comportamento del protagonista, che sembrava basato o sulla superstizione o sulla follia; di conseguenza, il medico ha fatto un passo indietro per valutare attentamente la situazione.

Si tirò indietro per squadrarmi, se non aveva da far con un pazzo. Ma io gli andai a petto di nuovo: – Basta un soffio, creda! basta un soffio! –. Lasciai lui e afferrai per un polso la sorella. – Lo faccia lei! Ecco, così! – e le portai la mano alla bocca, – congiunga due dita e ci soffii su! – La poverina, con gli occhi sbarrati, atterrita, tremava tutta;

Il medico, disagiato ed occupato, si è congedato.

mentre il medico, senza più pensare che lì sul letto c’era un morto, sghignazzava, divertito. – Non lo faccio più io, su voi, perché già lì ce n’è uno, e due con Calvetti, per oggi! Ma bisogna che me ne scappi, me ne scappi subito, me ne scappi!

(Ammettiamo che siamo un po’ confusi: non capiamo esattamente quando o come il protagonista è giunto alla conclusione che potrebb’uccider una persona per mezzo del gesto comune.)

Poi, il protagonista ha lasciato la casa di Bernabò … era sera, e lui ha camminato per le strade affollate e caotiche della città, apparentemente in preda da una sorta di follia.

E me ne scappai, davvero come un pazzo.

Appena sulla via, la pazzia si scatenò. S’era già fatto sera, e la via era affollatissima. Sobbalzavano dall’ombra tutte le case ai lumi che s’accendevano, e tutta la gente correva per ripararsi la faccia dai guizzi di luce di tanti colori che l’assaltavano d’ogni parte, fanali, riverberi di vetrine, insegne luminose, in un subbuglio assillato da oscuri sospetti. Benché no: ecco là, al contrario, una faccia di donna che s’allargava di contentezza al riflesso d’una luce rossa; e là quella d’un bimbo che rideva, tenuto alto sulle braccia da un vecchio, davanti allo specchio d’uno sporto di bottega che ruscellava d’un getto continuo di gocce smeraldine.

Dopo un po’, tuttavia, il protagonista ha deciso di fare il gesto comune … e mentre la decisione veniva presa, sembrava discutere con il dottore. Anzi, adesso intendeva fare un gesto il più intenso e più forte possibile … in altre parole, una sorta di esperimento ‘sbilanciato’ (qualcosa di folle e di ridicolo): il protagonista sembrava voler giustificarsi il suo punto di vista da uccidendo indiscriminatamente quante più persone possibile.

Fendevo la calca e con le due dita davanti alla bocca soffiavo, soffiavo su tutte quelle facce sfuggenti, senza scelta e senza voltarmi indietro ad accertarmi se davvero quei miei soffi producevano l’effetto già due volte sperimentato.

(Sembra adesso, non è vero, che il protagonista abbia creduto d’esser responsabile per la morte di Calvetti e di Bernabò?)

Inoltre, il protagonista sembrava esser consapevole del fatto che non sarebbe stato tenuto a respondere per nessuno di questi morti … dopotutto, chi crederebbe che il suo gesto comune era così potente?

Se lo producevano, chi avrebbe potuto attribuirlo a me? Non ero padrone di tenere quelle due dita davanti alla bocca e di soffiarci su per un mio innocente piacere? Chi poteva credere sul serio che un potere così inaudito e terribile mi fosse venuto in quelle due dita e nel soffio che emettevo appena su esse? Era ridicolo ammetterlo e poteva passare soltanto come uno scherzo puerile. Io scherzavo, ecco.

(In altre parole, le sue azioni erano premeditate.)

Poi, il protagonista ha soffiato sulle due dita fino a quando la sua bocca era asciutta, e senza nemmeno uno sguardo all’indietro per veder cos’avrebbe potuto fare. Poi, è ritornato a casa.

E mi s’era già insugherita in bocca la lingua a furia di soffiare, e non avevo quasi più fiato tra le labbra appuntite, arrivato in fondo alla via. Se ciò che avevo sperimentato due volte era vero, eh perdio, dovevo avere ucciso, così scherzando scherzando, più d’un migliajo di persone. Non era possibile che il giorno dopo non si venisse a sapere, con terrore di tutta la città, di quella mortalità improvvisa e misteriosa.

La mattina dopo (mamma mia!) i giornali hanno riportato che la sera prima sono state morte novecentosedici persone. Tutte le morti sono state attribuite ad un’epidemia—presumibilmente una malattia infettiva (diffusa dalle goccioline d’aria respirate) che ha portato ad un disturbo vago / indefinito con caratteristici sintomi e patologia (cioè, reperti d’autopsia) che hanno provocato primo l’insufficienza respiratoria e poi la morte.

Si venne difatti a sapere. Tutti i giornali, la mattina dopo, ne furono pieni. La città si svegliò sotto l’incubo tremendo d’una epidemia senza scampo scoppiata fulmineamente. Novecento sedici morti in una sola notte. Nel cimitero non si sapeva come riparare a seppellirli; non si sapeva come riparare a portarli via tutti dalle case. Sintomi comuni accertati dai medici in tutti i colpiti, dapprima l’avvertimento d’un malessere indefinito, poi la soffocazione. Dall’autopsia dei cadaveri, nessun indizio del male che aveva cagionato la morte quasi istantanea.

Mentre ha letto le notizie, il protagonista veviva superato da uno sconcertante / incomprehensible mix d’emozioni … sembrava sia ubriaco che confuso.

Restai, leggendo quei giornali, in preda a uno sgomento ch’era come lo sconcerto d’una orribile ubriachezza, confusione d’aspetti indistinti che s’avventavano, si sbattevano aggirati nel volume d’una nuvola che m’avvolgeva vorticosa;

Di sicuro, era ansioso; si è riconosciuto infatti che era in preda da qualcosa formidabile ed oscura,

e un’ansia inesplicabile, un fremito pungente che urtava, urgeva contro qualcosa dentro che mi restava nero e immobile

… anzi, un conflitto sembrava infuriarsi dentro di lui … una battaglia, cioè, tra la sua coscienza e quel’altra forza, oscura ed immobile, che la sua coscienza sembrava trovare ripugnante.

e a cui la mia coscienza, attratta ma tutta irta e in procinto di sbandarsi da ogni parte, si rifiutava d’accostarsi, toccava e subito se ne distaccava.

Il protagonista è rimasto in uno stato di confusione,

Non so propriamente che cosa volessi esprimere,

… ma alla fine ha concluso che il suo fascino per il potere del gesto comune era semplicemente un momento di debolezza … cioè, qualcosa di giovanile ed immaturo, qualcosa di ridicolo e di pazzo. Dopotutto, non hanno riportato i giornali l’evidenza dimostrando che queste morti sono state causate da qualcos’altra, cioè, un’epidemia, una malattia infettiva?

strizzandomi con una mano convulsa la fronte e ripetendo: ‘E un’impressione! è un’impressione!’. Fatto si è che la parola, pur così vuota, m’ajutò a squarciare d’un lampo quella nuvola, e mi sentii per un momento sollevato, liberato. ‘Dev’esser tutta pazzia’, pensai, ‘che m’è entrata nel capo per essermi trovato jeri a far quel gesto ridicolo e puerile prima che la calamità si dichiarasse di quest’epidemia piombata così di colpo sulla città.

Poi, il protagonista spiega che in tempi di crisi terrificante, e specialmente quando la minaccia rimane sconosciuta, comunemente le persone hanno cercato le cure basate sulla disperazione, cioè, sulla fantasia e sulla superstizione.

Sogliono spesso nascere da siffatte coincidenze le più sciocche superstizioni e le fissazioni più incredibili. 

(Probabilmente è giusto spiegare che la più recente epidemia simile a quella descritta nella novella è stata causata dall’HIV-AIDS, e prima ancora, c’era la pandemia d’influenza del 1918-1919. Coerentemente con ciò che il protagonista ha spiegato sulla superstizione, notiamo che nella pandemia influenzale, durante la quale sono morti circa ventuno milioni di persone, o circa l’1% dell’umanità, le donne in Italia credevano di poter tenere al sicuro i loro figli da massaggiando lo zolfo sui toraci, mentre le persone del Nord America hanno riempito le tasche con l’aglio … gli altri rimedi segnalati hanno incluso i panini di peperoncino, tè vari, inalazione di cloroformio, gli amuleti di canfora e la rimozione di tonsille o denti. https://www.historyofvaccines.org/content/blog/spanish-influenza-pandemic-then-now)

Tutto ciò nonostante, il protagonista ha rimasto affascinato (sedotto) dal potere potenziale del suo gesto comune. Sembrava incapace di controllarsi! Sembrava chiedersi, ‘Tutti i ragionamenti e le prove nonostante, cosa se fosse vero?’ cosa, in altre parole, se lui fosse capace d’uccider le altre persone a volontà?

Del resto, per liberarmene non ho che da aspettar qualche giorno senza più ripetere lo scherzo di questo gesto. Se è epidemia, come certo dev’essere, questa spaventosa mortalità deve seguitare e non cessar così di colpo com’è cominciata.’

Per verificare quest’ipotesi, ha deciso di sospendere il gesto comune per un periodo di tempo, al fine di vedere se ci sarebbe stata una relazione di causa ed effetto … cioè, di verificare se ci sarebbe una corrispondente riduzione del numero di morti riportate dai giornali.

Incredibilmente (ma dopotutto, quest’è Pirandello!), ciò che è poi successo sembrava supportare l’ipotesi: non sono state segnalate nuove morti durante il periodo in cui il gesto è stato sospeso!

Bene; aspettai tre giorni, cinque giorni, una settimana, due settimane: nessun nuovo caso fu segnalato dai giornali: l’epidemia era di colpo cessata.

A questo punto della storia il protagonista era ovviamente ossessionato / fissato / sedotto sull’idea che avrebbe potuto aver il potere di decidere chi sarebbe vissuto e chi sarebbe morto. Inoltre, ha capito che il prossimo passo sarebbe d’impegnare di nuovo il gesto comune. (La domanda, ovviamente, sarebbe: ‘Adesso le persone moriranno se dovessi ripetere il gesto?’) 

Prima di iniziare l’esperimento, tuttavia, il protagonista ha brevemente considerato l’idea che avrebbe dovuto uccidere qualcuno per dimostrare la sua ipotesi generale. Vediamo ancora una volta la premeditazione del protagonista: ha pensato che, se avesse ucciso qualcuno, non sarebbe stato ritenuto responsabile delle sue azioni dato che qualsiasi morte causata dal suo gesto sarebbe stata incolpata dell’epidemia. 

Eh, ma pazzo no, domando scusa; nell’ossessione di un simile dubbio, ch’io potessi esser pazzo, non potevo restare; pazzo, d’una pazzia che, a dichiararla, avrebbe fatto scoppiar chiunque dalle risa, no, via. Da una tale ossessione bisognava pur che mi levassi al più presto. E come? Rimettendomi a soffiar sulle dita? Si trattava di vite umane. Bisognava che fossi anche convinto che il mio atto era per se stesso innocente, da bambino, e che se gli altri ne morivano, non era colpa mia. Avrei sempre potuto credere a una ripresa dell’epidemia, dopo quella pausa di quindici giorni, poiché fino all’ultimo dovevo ritenere incredibile che la morte potesse dipendere da me. Ma intanto la tentazione diabolica d’acquistare una simile certezza, ben più terribile del dubbio che potessi esser pazzo, la certezza di sapermi dotato d’un così inaudito potere: come resistere a una tale tentazione?

(No no no! Vediamo che la tentazione era troppo grande.)

Dato la decisione di procedere, il protagonista ha poi deciso che tutte le morti dovrebbero esser giustificate.

II. Dovevo concedermi di fare ancora una prova, ma timida e cautelosa; una prova quanto più fosse possibile ‘giusta’. La morte si sa, non è giusta. Quella che dipendeva da me (se dipendeva da me) doveva esser giusta.

Primo esempio. Una famiglia che il protagonista ha conosciuto: lui ha deciso che la madre era una brava persona, il padre era una cattiva persona e il loro bambino era un angelo … un innocente con un disturbo convulsivo grave e non trattabile (la malattia di Pot) che inevitabilmente causerebbe la sua morte. Il protagonista ha quindi proceduto a ‘soffiare via’ il bambino (naturalmente, un omicidio di misericordia) e il padre (chi era inutile) … permettendo così alla madre di ricominciare vita sua.

Conoscevo una cara bambina che, mentre giocava con le sue bambole, uscendo da un sogno per entrare in un altro, tutti diversi l’uno dall’altro, questo che la portava a un villaggio sul monte e quello che la portava a una spiaggia di mare, e poi dal mare a un paese lontano lontano, dov’era altra gente che parlava una lingua tutt’altra dalla sua, alla fine da tutti quei sogni s’era svegliata ancora bambina a vent’anni, ma proprio bambina bambina, con uno accanto che, appena uscito dall’ultimo di quei sogni, s’era subito trasformato nella realtà in un omaccio straniero, in uno stangone alto due metri, stupido, infingardo e vizioso; e tra le braccia, invece della bambola, s’era trovato un povero esserino, che non si poteva dire un mostriciattolo perché aveva pure un visino d’angelo malato, quando la continua convulsione, a cui tutto il corpicciuolo era in preda, non gli deformava anche quello, orribilmente. ‘Morbo di…», non so, il nome d’un medico straniero, inglese o americano, Pot mi pare, seppur si scrive così (cara gloria, dare a un morbo il proprio nome!), ‘morbo di Pot’ in una delle sue forme più gravi e senza rimedio. Quel bimbo non avrebbe mai parlato, mai camminato, né mai si sarebbe servito di quelle sue manine scarnite e scontorte dalla violenza degli spasimi atroci. Avrebbe potuto tirare così ancora per anni. Ne aveva tre? Forse fino ai dieci. Eppure, non pareva vero, tra le braccia di qualcuno che avesse imparato a reggerlo bene come quello stangone del padre, appena poteva, in qualche momento di tregua, il povero bimbo sorrideva d’un sorriso così beato in quel suo visino d’angelo, che subito, cessato l’orrore per quei contorcimenti, la più tenera compassione faceva sgorgare le lagrime dagli occhi di quanti stavano a guardarlo. Pareva impossibile che solo i medici non capissero che cosa chiedeva il bimbo con quel sorriso. Ma forse lo capivano, perché avevano già dichiarato che certamente era uno dei casi davanti a cui non ci sarebbe stato da esitare, se la legge lo avesse permesso e ci fosse stato il consenso dei parenti. La legge è legge, perché crudele può essere, come spesso è, ma pietosa no, se non a costo di finire d’esser legge.

Io dunque mi presentai a quella madre.

La stanza dov’ella m’accolse era invasa dall’ombra e si vedevano come lontane le due finestre velate sul livido barlume dell’ultimo crepuscolo. Seduta sulla poltrona a pie del lettino, la madre reggeva tra le braccia il bimbo convulso. Io mi chinai su lui, senza dir nulla, con le dita davanti alla bocca. Il bimbo, al mio soffio, sorrise e spirò. Come la madre, abituata alla continua tensione spasmodica e guizzante di quel corpicciuolo, se lo sentì quasi sciolto d’improvviso tra le braccia e molle, rattenne un grido, alzò il capo a guardarmi, guardò il bimbo:

–Oh Dio, che gli hai fatto?

–Niente, hai visto, appena un soffio…

–Ma è morto !

–Ora è beato.

Glielo levai dalle braccia e lo deposi così tutto sciolto e molle sul lettino, col suo sorriso d’angelo ancora sulla boccuccia pallida.

– Tuo marito dov’è? Di là? Ti libero anche di lui. Non ha più ragione d’op primerti. Ma poi tu resta sempre a sognare, bambina. Vedi che si guadagna a uscire dai sogni?

Non ci fu bisogno che andassi in cerca del marito. Si presentò, come un gigante sbalordito, sulla soglia. Ma nell’esaltazione che mi dava la terribile certezza ormai acquisita, io mi sentivo già smisuratamente cresciuto, molto più alto di lui. «La vita che cos’è! Guarda, basta un soffio, così, a portarsela via!» E, soffiatogli sul viso, uscii da quella casa, ingigantito nella sera.

Allora … il primo esperimento completato con successo, il protagonista era ormai convinto d’esser un vero ‘angelo della morte’, uno che aveva davvero il potere di decidere chi sarebbe vissuto e chi sarebbe morto … uno che era letteralmente capace di soffiare via le persone!

Ero io, ero io; la morte ero io; la avevo lì, nelle due dita e nel fiato; potevo far morire tutti. Per esser giusto verso quelli che avevo fatto morire prima, non dovevo ora far morire tutti? Non ci voleva nulla, purché mi fosse bastato il fiato. Non l’avrei fatto per odio di nessuno; non conoscevo nessuno. Come la morte. Un soffio, e via. Quanta umanità, prima di questa che ora mi passava ombra davanti, era stata soffiata via? Ma potevo mai tutta l’umanità? disabitare tutte le case? tutte le strade di tutte le città? e le campagne e i monti e i mari? disabitare tutta la terra? Non era possibile. E allora no, non dovevo più nessuno, più nessuno. Dovevo forse mozzarmi quelle due dita. Ma chi sa se non sarebbe bastato il solo fiato. Dovevo provare? No, no: basta! Mi sentivo raccapricciare, al solo pensiero, da capo a piedi. Forse bastava il soffio soltanto. Come impedirmelo? Come vincere la tentazione? Una mano sulla bocca? Potevo condannarmi a star sempre con una mano sulla bocca?

Poi, una sera, mentre ha passato davanti a un ospedale, il protagonista veniva riconosciuto dal medico che ha dichiarato la morte del Bernabò. Il medico l’ha deriso, e alla fine il protagonista ha sfidato il medico a sperimentare il gesto comune.

Così farneticando, m’avvenne di passare davanti al portone dell’ospedale, spalancato. Nell’androne, erano alcuni infermieri, lì di guardia per il pronto soccorso, che conversavano con due questurini e col vecchio portinajo; e sulla soglia, intento a guardar nella strada, stava col lungo camice di servizio e le mani sui fianchi quel giovane medico accorso al letto di morte del povero Bernabò. Come mi vide passare, forse per i gesti che facevo in quel mio farneticare, mi riconobbe e si mise a ridere. Non l’avesse mai fatto! Mi fermai; gli gridai:

– Non mi cimenti in questo momento col suo sciocco sorriso! Sono io, sono io; l’ho qua, – e gli mostrai di nuovo le dita congiunte, – forse nel soffio soltanto! Ne vuol fare la prova davanti a questi signori?

Lo scambio tra i due uomini ha attirato l’interesse d’alcuni colleghi del medico (un gruppo di cinque uomini), ai quali il medico ha poi spiegato le convinzioni del protagonista. A questo punto, il protagonista ha recitato qualche prova che ha creduto sostenerebbe il suo punto di vista … cioè, quando ha rifiutato il gesto, il numero di morti riportato dai giornali è sceso a zero … cioè, una relazione di causa ed effetto.

Sorpresi e incuriositi, gl’infermieri, i due questurini e il vecchio portinajo s’erano appressati. Col sorriso rassegato sulle labbra che parevano dipinte e senza levarsi le mani dai fianchi, quello sciagurato non si contentò di pensarlo, questa volta, osò dirmi, scrollando le spalle: – Ma lei è pazzo! –. – Sono pazzo? – incalzai. – L’epidemia è cessata da quindici giorni. Vuol vedere che la riattizzo e la faccio di vampare in un momento, spaventosamente? – Soffiandosi sulle dita?

I sei uomini hanno riso con derisione, e il protagonista ha sperimentato un dubbio,

– Le risa fragorose che seguirono a questa domanda del medico mi fecero vacillare. Avvertii che non avrei dovuto lasciarmi prendere dalla irritazione per l’avvilimento del ridicolo che quel mio gesto, appena fatto palese, inevitabilmente m’attirava. Nessuno, fuor che io, poteva credere sul serio ai suoi terribili effetti. Ma l’irritazione tuttavia mi vinse, come il bruciore d’un bottone di fuoco sulla carne viva, sentendo quel ridicolo quasi un marchio di scherno che la morte avesse voluto imprimermi concedendomi quell’incredibile potere.

… e poi, il medico ha confutato, senza mezzi termini, la prova del protagonista, informandolo che anche se i giornali avessero preso la decisione di non segnalare ogni giorno il numero di morti nuovi, tali morti hanno continuato esser portato all’ospedale senza sosta, tre o quattro morti al giorno, durante il periodo in cui il gesto è stato trattenuto!

Ma l’irritazione tuttavia mi vinse, come il bruciore d’un bottone di fuoco sulla carne viva, sentendo quel ridicolo quasi un marchio di scherno che la morte avesse voluto imprimermi concedendomi quell’incredibile potere. S’aggiunse a questo, come una sferzata, la domanda del giovane medico: – Chi le ha detto che l’epidemia è cessata? –. Restai. Non era cessata? Mi sentii avvampare di vergogna le guance. – I giornali – dissi – non han più segnalato alcun caso. – I giornali, – ribatté quello, – ma non noi, qua all’ospedale. – Ancora casi? – Tre o quattro al giorno. – E lei è sicuro che siano dello stesso male? – Ma sì, caro signore, sicurissimo. Così si riuscisse a veder chiaro nel male! Risparmi, risparmi il suo fiato.

Dopo aver ascoltato questo scambio, i colleghi del medico si sono uniti a lui nel deridere il protagonista che, in risposta, ha sfidato tutti e sei gli uomini a sperimentare direttamente il suo gesto. Incredibilmente, ciascuno degli uomini, uno per uno, sembrava esser soffiato via, apparentemente con gli stessi sintomi di Calvetti e di Bernabò.

– Gli altri tornarono a ridere. – Sta bene, – dissi allora. – Se è così, io sono un pazzo e lei non avrà paura a offrirmene una prova. S’assume la responsabilità anche per questi altri cinque signori? – Il giovane medico, di fronte alla mia sfida, restò un momento perplesso; ma poi il sorriso gli ritornò sulle labbra: si volse a quei cinque: – Avete inteso? il signore presume che gli basta soffiarsi appena sulle dita per farci morire tutti quanti. Ci state? Io ci sto –. Quelli esclamarono a coro, sghignazzando: – Ma sì, soffii, soffii, ci stiamo anche noi, eccoci qua! –. E mi si misero tutt’e sei in fila davanti, coi volti protesi. Pareva una scena di teatro, in quell’androne d’ospedale, sotto la lanterna rossa del pronto soccorso. Erano certi d’aver da fare con un pazzo. Ormai non potevo più tirarmi indietro. – È l’epidemia, caso mai, non sono io, eh? – E per esser più sicuro, congiunsi come al solito le due dita davanti alla bocca. Al soffio, tutt’e sei, uno dopo l’altro, s’alterarono in viso; tutt’e sei si piegarono sul busto; tutt’e sei si portarono una mano al petto, guardandosi l’un l’altro negli occhi infoscati. Poi uno dei questurini mi saltò addosso, attanagliandomi il polso; ma subito si sentì soffocare, mancar le gambe, mi cadde ai piedi come a implorarmi ajuto. Gli altri, chi vagellava, chi annaspava con le braccia, chi era restato con gli occhi sbarrati e la bocca aperta. Istintivamente, col braccio libero feci per parare il giovane medico che s’abbatteva su me; ma anche lui, come già Bernabò, mi respinse furiosamente, e traboccò a terra con un gran tonfo. Una frotta di gente, che a mano a mano diventava folla, s’era intanto raccolta davanti al portone. 

A questo punto, il potere apparente del protagonista è stato riconosciuto dagli altri,

I curiosi, di fuori, spingevano, mentre gli sgomenti rinculavano dalla soglia e pigiavano in mezzo gli ansiosi che volevano vedere che cosa stesse accadendo in quell’androne. Lo domandavano a me, come a uno che lo dovesse sapere, forse perché il mio volto non esprimeva né la curiosità, né l’ansia, né lo sgomento che erano in loro. Che aspetto avessi, non potrei dirlo; mi sentivo in quel momento come uno sperduto, d’improvviso assaltato da una muta di cani. Non vedevo altro scampo che nel mio gesto puerile. Dovevo aver negli occhi un’espressione di paura e insieme di pietà per quei sei caduti e per tutti coloro che mi stavano intorno; fors’anche sorridevo dicendo a questo e a quello nel farmi largo: – Basta un soffio… così… così… –;

… anche se il medico, mentre stava morendo, credeva ancora che l’epidemia fosse responsabile di tutte le recenti morti in città … e che il gesto comune non fosse altro che una convinzione errata, una superstizione, un pio desiderio.

mentre da terra il giovane medico, testardo sino alla fine, gridava contorcendosi: – L’epidemia! L’epidemia! 

Mentre ha lasciato la scena all’ospedale, il protagonista ha avuto per caso l’opportunità di esaminarsi allo specchio, e non si è riconosciuto più.

Fu una fuga generale; e io mi vidi ancora per poco in mezzo a tutta quella gente che correva spaventata e all’impazzata, andare, io solo, a passo, ma come un ubriaco che parlasse tra sé, dolce e appenato; finché mi trovai, non so come, innanzi a uno specchio di bottega, sempre con quelle due dita davanti alla bocca e nell’atto di soffiare – … così… così… –, forse per dare una prova dell’innocenza di quell’atto, mostrando che, ecco, lo facevo anche su di me, nel solo modo che mi fosse possibile. M’intravidi per un attimo appena in quello specchio, con occhi che io stesso non sapevo più come guardarmeli, così cavati dentro com’erano nella faccia da morto; poi, come se il vuoto m’avesse inghiottito, o colto una vertigine, non mi vidi più; toccai lo specchio, era lì, davanti a me, lo vedevo e io non c’ero; mi toccai, la testa, il busto, le braccia; mi sentivo sotto le mani il corpo, ma non me lo vedevo più e neanche le mani con cui me lo toccavo; eppure non ero cieco; vedevo tutto, la strada, la gente, le case, lo specchio; ecco, lo ritoccavo, m’appressavo a cercarmi in esso; non c’ero, non c’era nemmeno la mano che pur sentiva sotto le dita il freddo della lastra; un impeto mi prese, frenetico, di cacciarmi in quello specchio in cerca della mia immagine soffiata via, sparita

(Non lo sappiamo per certo, ma il suo aspetto alterato potrebb’esser dovuto alle scelte morali ed etiche che ha fatto durante la ricerca della sua ipotesi generale o, in alternativa, al fatto che fosse malato.)

E poi, il protagonista ha incontrato un uomo che sembrava riconoscerlo, e l’uomo ha fatto un passo indietro nel terrore. (Allora … abbia riconsciuto l’uomo ‘l’angelo della morte’ o in alternativa il volto di qualcuno che stava soffrendo le conseguenze dell’epidemia?) Per ragioni che non sono del tutto chiare, il protagonista ha scelto di ‘soffiare via’ quest’uomo. Tuttavia, c’erano altri nelle vicinanze che hanno assistito a ciò che il protagonista aveva fatto; adesso lo consideravano il protagonista un ‘vettore di morte’.

e mentre stavo così contro la lastra, uno, uscendo dalla bottega, m’investì e subito lo vidi balzare indietro inorridito e con la bocca aperta a un grido da pazzo che non gli usciva dalla gola: s’era imbattuto in qualcuno che doveva esser lì, e non c’era, non c’era nessuno; insorse in me allora prepotente il bisogno d’affermare che c’ero; parlai come nell’aria; gli soffiai sul volto: – L’epidemia! – e con una manata in petto lo abbattei. Intanto la via, messa in subbuglio da coloro che prima erano fuggiti e che ora, con visi da spiritati, tornavano indietro, certo concitando tutti in cerca di me, s’empiva di gente che da ogni parte rampollava, strabocchevole, come un fumo denso di facce cangianti che mi soffocava, vaporando quasi nel delirio d’un sogno spaventoso; 

Alla fine della storia il protagonista si rese conto che il potere del suo gesto comune era solo un’illusione.

ma pur pigiato tra quella calca, potevo andare, aprirmi un solco col soffio sulle mie dita invisibili. – L’epidemia! L’epidemia! – Non ero più io; ora finalmente lo capivo; ero l’epidemia, 

(Ed adesso, ci rendiamo conto che quelle morti che sono avvenute contemporaneamente al gesto non erano altro che una coincidenza … in altre parole, perché una percentuale molto grande della popolazione era infetta, era pura possibilità che uno o più di loro fossero nell’area in cui il gesto è stato fatto.)

Inseguito e perseguitato dagli altri, il protagonista ha tentato di fuggire la città. Non siamo sicuri, ma pensiamo che durante il tentativo di fuggire il protagonista fosse morto a causa dell’epidemia. Per ragioni che non ci sono ancora chiare, il protagonista sembrava arrivare in un paradiso, umiliato e angosciato dalla bellezza che lo circondava.

e tutte larve, ecco, tutte larve le vite umane che un soffio portava via. Quanto durò quell’incubo? Tutta la notte e parte del giorno appresso stentai a uscire da quella calca, e liberato alla fine anche dallo stretto delle case della città orrenda, mi sentii nell’aria della campagna aria anch’io. Tutto era dorato dal sole; non avevo corpo, non avevo ombra; il verde era così fresco e nuovo che pareva spuntato or ora dal mio estremo bisogno d’un refrigerio, ed era così mio, che mi sentivo toccare in ogni filo d’erba mosso dall’urto d’un insetto che veniva a posarsi; mi provavo a volare col volo quasi di carta, distaccato, di due farfalle bianche in amore; e come se veramente ora fosse uno scherzo, ecco, un soffio e via, e le ali distaccate di quelle farfalle cadevano lievi nell’aria come pezzi di carta; più là, su un sedile guardato da oleandri, sedeva una giovinetta vestita d’un abito di velo celeste, con un gran cappello di paglia guarnito di roselline; batteva le ciglia; pensava, sorridendo d’un sorriso che me la rendeva lontana come un’immagine della mia giovinezza; forse non era altro veramente che un’immagine rimasta lì della vita, sola ormai sulla terra. Un soffio e via! Intenerito fino all’angoscia da tanta dolcezza, rimanevo lì invisibile, con le mani afferrate e trattenendo il respiro, a mirarla da lontano; e il mio sguardo era l’aria stessa che la carezzava senza che lei se ne sentisse toccare.

Leave a comment