Riassunto: Amacissimi

Spesso mentre leggo le novelle di Pirandello il pensiero viene in mente che sto leggendo un manoscritto di un’opera teatrale piuttosto che una novella. Di solito quando leggo una novella, ho chiuso fuori il mondo e immagino che il racconto si svolge proprio davanti ai miei occhi… immagino anche che l’autore sta parlando direttamente a me e che stiamo condividendo una conversazione privata! Di volta in volta però quando leggo Pirandello immagino che sto sedendo in un teatro con 100 altre persone che stanno guardando l’opera al tempo stesso.

{Paola: condividi tu questa sensazione?}

Ho notato che mi senta come se io stia guardando un’opera teatrale in particolare quando la storia è divertente e ironico! Amicissimi è scritto in questo stile.

Cominciamo con il titolo.

Amicissimi è la storia di Gigi Mear, un professionista e un membro della classe media. Un giorno d’inverno il Mear è più o meno abbordato per strada da un altro uomo che afferma di essere il suo migliore amico d’infanzia e non solo (ad esempio, erano compagni di classe presso l’Università di Padova).

Quella mattina intanto tirava la tramontana, gelida, tagliente, e Gigi Mear pestava i piedi guardando l’acqua aggricciata del fiume, che pareva sentisse un gran freddo anch’esso, poverino, lí, come in camicia, tra quelle dighe rigide, scialbe, della nuova arginatura.

Come Dio volle, dindín, dindín: ecco il tram. E Gigi Mear si disponeva a montarvi senza farlo fermare, quando, dal nuovo Ponte Cavour, si sentí chiamare a gran voce:

– Gigin! Gigin!

E vide un signore che gli correva incontro gestendo come un telegrafo ad asta. Il tram se la filò. In compenso, Gigi Mear ebbe la consolazione di trovarsi tra le braccia d’uno sconosciuto, suo intimo amico, a giudicarne dalla violenza con cui si sentiva baciato, là, là, sul fazzoletto di seta che gli copriva la bocca.

Come ho cominciato a leggere la novella, mi sono chiesto se l’amico fosse un truffatore che voleva ingannare il Mear a dargli dei soldi. Questo però non è mai accaduto.

Invece passiamo un’intera mattinata e un pranzo con i due uomini. Il Mear cerca con crescente disperazione di ricordare il nome del suo amico ma fallisce completamente. Poi il Mear tenta un metodo dopo l’altro per ingannare l’amico a dirgli il suo nome, ma fallisce ancora una volta.

– Vecchia mia, – le disse il Mear. – Eccomi di ritorno, e in compagnia. Apparecchierai per due, oggi, e disimpégnati! Con questo mio amico, che ha un nome curiosissimo, non si scherza, bada!

– Antropofago Capribarbicornípede! – esclamò l’altro con un versaccio, che lasciò la vecchietta perplessa, se sorriderne o farsi la croce.

Il Mear è troppo imbarazzato ad ammettere che non ricorda il nome dell’amico. (Non è forse vero che si tratti di una preoccupazione più caratteristico di un professionista che quello di un contadino?)

Poco dopo, a tavola, Gigi Mear, oppresso dalle espansioni d’affetto dell’amico, che lo caricava di male parole e per miracolo non lo picchiava, cominciò a domandargli notizie di Padova e di questo e di quello, sperando di fargli uscir di bocca il proprio nome, cosí per caso, o sperando almeno, nell’esasperazione crescente di punto in punto, che gli avvenisse di distrarsi dalla fissazione di venirne a capo, parlando d’altro.

L’amico ha di recente subito una disgrazia. Il lettore non capisce mai perché è venuto a Roma. Il lettore anche non perde mai del tutto il sospetto che l’amico voglia chiedere al Mear per un regalo di soldi.

Per me, la complessità della storia è basata sulla disgrazia dell’amico: all’inizio era quasi impossibile capire tutte le persone coinvolte in questo episodio, ed esattamente quello che è successo, soprattutto perché tutti sembrano essere legati l’uno all’altro!

Questo è quello che io credi è vero:

Valverde (cognate)                    moglie

(sorelle)

moglie                           amico

Alla fine il Mear non è mai in grado di accertare l’identità dell’amico.

“- Via, sii buono! – riprese, cangiando tono, il Mear. – Non avevo mai sperimentato prima d’ora… guarda, questa mia mancanza di memoria, e ti giuro che mi fa una penosissima impressione: tu, in questo momento, rappresenti un incubo per me. Dimmi come ti chiami, per carità!

– Vattelapesca.

– Te ne scongiuro! Vedi: la dimenticanza non m’ha impedito di farti sedere alla mia tavola; e, del resto, quand’anche non t’avessi mai conosciuto, quand’anche tu non fossi mai stato amico mio, lo sei diventato adesso e carissimo, credi! sento per te una simpatia fraterna, ti ammiro, ti vorrei sempre con me: dunque, dimmi come ti chiami!

– È inutile, sai, – concluse l’altro, – non mi seduci. Sii ragionevole: vuoi che mi privi adesso di questo inatteso godimento, di farti restare cioè con un palmo di naso, senza sapere a chi tu abbia dato da mangiare? No, via: pretendi troppo, e si vede proprio che non mi conosci piú. Se vuoi che non ti serbi rancore dell’indegna dimenticanza, lasciami andar via cosí.

– Vattene via subito, allora, te ne scongiuro! – esclamò Gigi Mear, esasperato. – Non ti posso piú vedere innanzi a me!

– Me ne vado, sí. Ma prima un bacetto, Gigione: me ne riparto domani…

– Non te lo do! – gridò il Mear, – se non mi dici…

– Basta, no, no, basta. E allora, addio, eh? – troncò l’altro.

E se n’andò ridendo e voltandosi per la scala a salutarlo con la mano, ancora una volta.”

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