Riassunto: La patente

La patente (L. Pirandello) inizia con una descrizione eloquente del protagonista, il giudice D’Andrea.

Con quale inflessione di voce e quale atteggiamento d’occhi e di mani, curvandosi, come chi regge rassegnatamente su le spalle un peso insopportabile, il magro giudice D’Andrea soleva ripetere: “Ah, figlio caro!” a chiunque gli facesse qualche scherzosa osservazione per il suo strambo modo di vivere!

Non era ancor vecchio; poteva avere appena quarant’anni; ma cose stranissime e quasi inverosimili, mostruosi intrecci di razze, misteriosi travagli di secoli bisognava immaginare per giungere a una qualche approssimativa spiegazione di quel prodotto umano che si chiamava il giudice D’Andrea.

E pareva ch’egli, oltre che della sua povera, umile, comunissima storia familiare, avesse notizia certa di quei mostruosi intrecci di razze, donde al suo smunto sparuto viso di bianco eran potuti venire quei capelli crespi gremiti da negro; e fosse consapevole di quei misteriosi infiniti travagli di secoli, che su la vasta fronte protuberante gli avevano accumulato tutto quel groviglio di rughe e tolto quasi la vista ai piccoli occhi plumbei, e scontorto tutta la magra, misera personcina.

Cosí sbilenco, con una spalla piú alta dell’altra, andava per via di traverso, come i cani. Nessuno però, moralmente, sapeva rigar piú diritto di lui. Lo dicevano tutti.

È quasi impossibile non innamorarsi quest’uomo!

E poi questo:

Passava quasi tutte le notti alla finestra a spazzolarsi una mano a quei duri gremiti suoi capelli da negro, con gli occhi alle stelle, placide e chiare le une come polle di luce, guizzanti e pungenti le altre; e metteva le piú vive in rapporti ideali di figure geometriche, di triangoli e di quadrati, e, socchiudendo le palpebre dietro le lenti, pigliava tra i peli delle ciglia la luce d’una di quelle stelle, e tra l’occhio e la stella stabiliva il legame d’un sottilissimo filo luminoso, e vi avviava l’anima a passeggiare come un ragnetto smarrito.

Il giudice D’Andrea è molto intelligente ed impegnato; lui è rispettato nella comunità. Purtroppo ha una deformità fisica (non capiamo bene la gravità); sceglie di vivere una vita interna (dentro di sé)… cioè una vita della mente.

Il pensare cosí di notte non conferisce molto alla salute. L’arcana solennità che acquistano i pensieri produce quasi sempre, specie a certuni che hanno in sé una certezza su la quale non possono riposare, la certezza di non poter nulla sapere e nulla credere non sapendo, qualche seria costipazione. Costipazione d’anima, s’intende.

Poi il lettore intende che c’è propria la vita interna (riflessiva, lirica, curiosa) e c’è anche la vita esterna-professionale (banale, ordinaria). Per entrambi, tuttavia, il giudice D’Andrea è “spinto” (“driven”) quasi al punto di ossessione.

Come non dormiva lui, cosí sul suo tavolino nell’ufficio d’Istruzione non lasciava mai dormire nessun incartamento, anche a costo di ritardare di due o tre ore il desinare e di rinunziar la sera, prima di cena, alla solita passeggiata coi colleghi per il viale attorno alle mura del paese.

Il giudice D’Andrea ha in realtà i dubbi sulle sue ossessioni di vita.

Per poter essere meno frettolosamente puntuale, credeva d’ajutarsi meditando la notte. Ma, neanche a farlo apposta, la notte, spazzolando la mano a quei suoi capelli da negro e guardando le stelle, gli venivano tutti i pensieri contrarii a quelli che dovevano fare al caso per lui, data la sua qualità di giudice istruttore; cosí che, la mattina dopo, anziché aiutata, vedeva insidiata e ostacolata la sua puntualità da quei pensieri della notte e cresciuto enormemente lo stento di tenersi stretto a quell’odiosa sua qualità di giudice istruttore.

Poi il lettore viene a sapere che il D’Andrea ha un incartamento corrente che lo spinge a procrastinare. Come risultato lui è preso tra la sua natura (ossessionata, ultraefficiente) e qualche paura/apprensione che è la causa del ritardo.

Poi il lettore viene a sapere che il D’Andrea è preoccupato perché non vuole fare un errore. L’incartamento è la querela di Rosario Chiarchiaro: lui ha deciso di citare in giudizio due giovanotti che a quanto pare lo hanno deriso in pubblico. I giovanotti lo hanno accusato d’essere un iettatore.

Il giudice D’Andrea non capisce né la motivazione né la base giuridica per la querela.

Era veramente iniquo quel processo là: iniquo perché includeva una spietata ingiustizia contro alla quale un pover’uomo tentava disperatamente di ribellarsi senza alcuna probabilità di scampo. C’era in quel processo una vittima che non poteva prendersela con nessuno. Aveva voluto prendersela con due, lí in quel processo, coi primi due che gli erano capitati sotto mano, e – sissignori – la giustizia doveva dargli torto, torto, torto, senza remissione, ribadendo cosí, ferocemente, l’iniquità di cui quel pover’uomo era vittima.

Perché, in verità, era un caso insolito e speciosissimo quello d’un jettatore che si querelava per diffamazione contro i primi due che gli erano caduti sotto gli occhi nell’atto di far gli scongiuri di rito al suo passaggio.

Pertanto il giudice D’Andrea procrastinare perché non capisce un modo equo e giusto di procedere.

A questo punto della novella è affascinante imparare il potente del concetto/della presenza di un iettatore per i cittadini del paese… anche e soprattutto per i ben istruiti.

A passeggio, tentava di parlarne coi colleghi; ma questi, appena egli faceva il nome del Chiàrchiaro, cioè di colui che aveva intentato il processo, si alteravano in viso e si ficcavano subito una mano in tasca a stringervi una chiave, o sotto sotto allungavano l’indice e il mignolo a far le corna, o s’afferravano sul panciotto i gobbetti d’argento, i chiodi, i corni di corallo pendenti dalla catena dell’orologio. Qualcuno, piú francamente, prorompeva:

– Per la Madonna Santissima, ti vuoi star zitto?

I giuduci hanno paura!

Poi il D’Andrea spiega chiaramente sulla sua confusione. Difatti è ben conoscuito che il Chiarchiaro è un iettatore; anzi da qualche anno il Chiarchiaro ha liberamente ammesso che sì, lui è un iettatore.

Diffamazione? Ma che diffamazione, povero disgraziato, se già da qualche anno era diffusissima in tutto il paese la sua fama di jettatore? se innumerevoli testimonii potevano venire in tribunale a giurare che egli in tante e tante occasioni aveva dato segno di conoscere quella sua fama, ribellandosi con proteste violente? Come condannare, in coscienza, quei due giovanotti quali diffamatori per aver fatto al passaggio di lui il gesto che da tempo solevano fare apertamente tutti gli altri, e primi fra tutti – eccoli là – gli stessi giudici?

Il D’Andrea decide di convincere il Chiarchiaro che non esiste alcuna base giuridica per la querela (che di sicuro la perderà) e che non avrebbe dovuto procedere con il processo.

Ne consegue una lunga conversazione tra i due uomini. L’impulso per la querela si rivela a poco a poco.

In primo luogo, il Chiarchiaro fornisce qualche comprensione nei suoi poteri.

E gli s’accostò e fece per posargli una mano su la spalla. Subito il Chiàrchiaro sfagliò come un mulo, fremendo:

– Signor giudice, non mi tocchi! Se ne guardi bene! O lei, com’è vero Dio, diventa cieco! Il D’Andrea stette a guardarlo freddamente, poi disse:

– Quando sarete comodo… Vi ho mandato a chiamare per il vostro bene. Là c’è una sedia, sedete.

Sembra chiaro che il D’Andrea non creda che il Chiarchiaro è un iettatore (cioè lui non crede nel concetto di iettatore).

Poi il Chiarchiaro rivela che egli ha fornito qualche prova irrefutible della sua fama di iettatore: difatti il Chiarchiaro ha fornito le prove all’avvocato della controparte che assicurà che lui perderà la querela. (In precedenza il lettore ha capito che quest’avvocato ha promesso i cittadini che avrebbe vinto il processo. Con questa rivelazione capiamo perché lui era così sicuro di sé.

Quest’atto del Chiarchiaro sembra così strano! Ma poi lui spiega che vuole perdere la querela: dopo la perdita otterrà il riconoscimento ufficiale del suo potere.

– Che me ne faccio? – rimbeccò pronto il Chiàrchiaro. – Lei, padrone mio, per esercitare codesta professione di giudice, anche cosí male come la esercita, mi dica un po’, non ha dovuto prender la laurea?

– La laurea, sí.

– Ebbene, voglio anch’io la mia patente, signor giudice! La patente di jettatore. Col bollo. Con tanto di bollo legale! Jettatore patentato dal regio tribunale.

Poi il Chiarchiaro spiega che è stato licenziato dal suo lavoro a causa della sua fama di iettatore.

– E poi? Me lo metto come titolo nei biglietti da visita. Signor giudice, mi hanno assassinato. Lavoravo. Mi hanno fatto cacciar via dal banco dov’ero scritturale, con la scusa che, essendoci io, nessuno piú veniva a far debiti e pegni; mi hanno buttato in mezzo a una strada, con la moglie paralitica da tre anni e due ragazze nubili, di cui nessuno vorrà piú sapere, perché sono figlie mie; viviamo del soccorso che ci manda da Napoli un mio figliuolo, il quale ha famiglia anche lui, quattro bambini, e non può fare a lungo questo sacrifizio per noi. Signor giudice, non mi resta altro che di mettermi a fare la professione del jettatore! Mi sono parato cosí, con questi occhiali, con quest’abito; mi sono lasciato crescere la barba; e ora aspetto la patente per entrare in campo! Lei mi domanda come? Me lo domanda perché, le ripeto, lei è un mio nemico!

– Io?

– Sissignore. Perché mostra di non credere alla mia potenza! Ma per fortuna ci credono gli altri, sa? Tutti, tutti ci credono! E ci son tante case da giuoco in questo paese! Basterà che io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per farmi andar via! Mi metterò a ronzare attorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti, tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell’ignoranza? io dico la tassa della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d’aver ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città!

Infine, il giudice D’Andrea capisce! Può vedere una via avanti; quindi il suo problema personale è risolto. Il D’Andrea è anche disposto ad aiutare il Chiarchiaro. Vincono tutti!

Il giudice D’Andrea, ancora con la testa tra le mani, aspettò un pezzo che l’angoscia che gli serrava la gola desse adito alla voce. Ma la voce non volle venir fuori; e allora egli, socchiudendo dietro le lenti i piccoli occhi plumbei, stese le mani e abbracciò il Chiàrchiaro a lungo, forte forte, a lungo.

Questi lo lasciò fare.

– Mi vuol bene davvero? – gli domandò. – E allora istruisca subito il processo, e in modo da farmi avere al piú presto quello che desidero.

– La patente?

Il Chiàrchiaro protese di nuovo il braccio, batté la canna d’India sul pavimento e, portandosi l’altra mano al petto, ripeté con tragica solennità:

– La patente.

***

La patente è stata un piacere leggere, scritto con brillantezza. Per uno studente americano, La patente offre un bel ritratto della vita quotidiana in un paese Italiano.

Ma c’è molto di più! Due cose:

– In primo luogo, a mio parere La patente si estende una lunga meditazione dal Pirandello su come le persone si reagiscono e si adattano quando sono di fronte ad una sfortuna. Come abbiamo letto, qualche persona far fronte con la sfortuna cercando una spiegazione (razionale, scientifica), ad esempio i medici che hanno curato la Clementina, la giovanotta con una deformità scheletrica in I tre pensieri della sbiobbina. Poi altre persone far fronte con la sfortuna con la loro fede religiosa e, in particolare, la loro convinzione che Dio ha un piano per loro (e non li ha abbandonati), ad esempio la Clementina in I tre pensieri. Poi gli altri far fronte con la sfortuna attraversando una soglia di tolleranza per impegnarsi in ribellione, ad esempio Daniele Catellani in Un Goj.

A mio parere in La patente il lettore venga a conoscenza un altro modo per affrontare la sfortuna: la furbizia. Il Chiarchiaro ha subito una grave battuta d’arresto economica, ma poi ha riconosciuto un percorso in avanti entro il quale ha dovuto maneggiare il sistema del governo (cioè la società) per recuperare ciò che ha perso. Il Chiarchiaro non è particolarmente sofisticato o istruito, ma dimostra una capacità innata di valutare una situazione e di adattarsi. Lui è intelligente. Lui è furbo, possiede l’arte di arrangersi.

La furbizia! Oltre il pensiero razionale, la fede religiosa e la ribellione il Pirandello mostra al lettore che la furbizia è un quarto modo per far fronte con la sfortuna.

– In secondo luogo, mi chiedo se La patente possa essere intesa come una metafora di un aspetto spiacevole della vita quotidiana in sud Italia, cioè la criminalità organizzata. Dopotutto, non è vero che il Chiarchiaro stia essenzialmente operando un “racket” di protezione? I proprietari delle piccole imprese hanno paura del suo potere e sono disposti a pagare lui di stare alla larga. Si tratta di un pizzo, non è vero? E cosa c’è di più, il Chiarchiaro arruola i servizi del governo (il giudice D’Andrea ed il sistema giudiziario) per sostenere le sue attività. Si tratta della corruzione, non è vero? A mio parere lo iettatore potrebb’essere inteso come una metafora per il capo di una famiglia della criminalità organizzata.

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