Riassunto: Niente

La botticella che corre fragorosa nella notte per la vasta piazza deserta, si ferma davanti al freddo chiarore d’una vetrata opaca di farmacia all’angolo di via San Lorenzo. Un signore impellicciato si lancia sulla maniglia di quella vetrata per aprirla. Piega di qua, piega di là – che diavolo? – non s’apre.

– Provi a sonare, – suggerisce il vetturino.

– Dove, come si suona?

– Guardi, c’è lí il pallino. Tiri.

Quel signore tira con furia rabbiosa.

– Bell’assistenza notturna!

E le parole, sotto il lume della lanterna rossa, vaporano nel gelo della notte, quasi andandosene in fumo.

Inizia così Niente (L. Pirandello), una novella che esplora e illumina la personalità di un misantropo:

Nella sua essenza, la misantropia può essere definito come un odio generale o una diffidenza/sfiducia verso le altre persone e/o la natura umana (http://blightofplebians.com/adolescentmisanthropy/). Spesso, la misantropia comincia dopo un’esperienza interpersonale negativa, cioè, un tradimento o la frustrazione che deriva da una incapacità di connettersi con gli altri. Da questa origine, il misantropo proietta dalla sua sfera personale verso la società in generale.

Come vediamo nell’illustrazione, un misantropo è spesso caratterizzato come solitario, reclusivo e irritabile.

Unknown

I misantropi tendono ad essere volontariamente o involontariamente socialmente isolati.

Il disprezzo per l’umanità e l’isolamento sociale sono una pessima combinazione, in grado di tenere un misantropo bloccato in un ciclo di cinismo. Tuttavia, i sintomi di un misantropo sono comunemente motivate dalla paura: il desiderio di stare lontano dalle persone è un buon modo per garantire che le cose cattive non ti accadrà mai. Alla luce di questo, si può pensare dei misantropi come avere un disprezzo verso le persone, ma dietro il disprezzo è la paura, cioè, che saranno vittime o danneggiati in qualche modo.

Della letteratura americana, uno dei misantropi più noto è Holden Caulfield, il protagonista adolescente del romanzo Il giovane Holden (JD Salinger).

***

Nel paragrafo di apertura una vettura/botticella arriva in una piazza a Roma. È molto tarde la sera. È anche inverno e freddissimo. C’è un senso di urgenza.

Un uomo (l’avventore) ha viaggiato in una vettura una distanza relativamente breve per una farmacia locale: cerca un medico che può fornire le cure d’urgenza. Dopo un po’ un giovanotto apre la porta della farmacia; lui è in svantaggio: si sforza di aiutare l’avventore mentre si sveglia dal sonno. L’avventore costringe il giovanotto ad aiutarlo.

Alla fine il giovine di farmacia, tutto irto di sonno, col bavero della giacca tirato fin sopra gli orecchi, viene ad aprire.

E subito il signore:

– C’è un medico?

Ma quegli, avvertendo sulla faccia e sulle mani il gelo di fuori, dà indietro, alza le braccia, stringe le pugna e comincia a stropicciarsi gli occhi, sbadigliando:

– A quest’ora?

Poi, per interrompere le proteste dell’avventore, il quale – ma sí, Dio mio, sí – tutta quella furia, sí, con ragione: chi dice di no? – ma dovrebbe pure compatire chi a quell’ora ha anche ragione d’aver sonno – ecco, ecco, si toglie le mani dagli occhi e prima di tutto gli fa cenno d’aspettare; poi, di seguirlo dietro il banco, nel laboratorio della farmacia.

Nel frattempo il vetturino decide di alleviare se stesso.

Il vetturino intanto, rimasto fuori, smonta da cassetta e vuole prendersi la soddisfazione di sbottonarsi i calzoni per far lí apertamente, al cospetto della vasta piazza deserta tutta intersecata dai lucidi binarii delle tramvie, quel che di giorno non è lecito senza i debiti ripari. Perché è pure un piacere, mentre qualcuno si dibatte in preda a qualche briga per cui deve chiedere agli altri soccorso e assistenza, attendere tranquillamente, cosí, alla soddisfazione d’un piccolo bisogno naturale, e veder che tutto rimane al suo posto: là, quei lecci neri in fila che costeggiano la piazza, gli alti tubi di ghisa che sorreggono la trama dei fili tramviarii, tutte quelle lune vane in cima ai lampioni, e qua gli uffici della dogana accanto alla stazione.

Il giovanotto guida l’avventore alla stanza in cui un medico di guardia sta dormendo.

Il laboratorio della farmacia, dal tetto basso, tutto scaffalato, è quasi al bujo e appestato dal tanfo dei medicinali. Un sudicio lumino a olio, acceso davanti a un’immagine sacra sulla cornice dello scaffale dirimpetto all’entrata, pare non abbia voglia di far lume neanche a se stesso. La tavola in mezzo, ingombra di bocce, vasetti, bilance, mortaj e imbuti, impedisce di vedere in prima se sul logoro divanuccio di cuojo, là sotto a quello scaffale dirimpetto all’entrata, sia rimasto a dormire il medico di guardia.

L’avventore è esasperato perché il giovane si rifiuta di risvegliare il medico.

– Eccolo, c’è – dice il giovine di farmacia, indicando un pezzo d’omone che dorme penosamente, tutto aggruppato e raffagottato, con la faccia schiacciata contro la spalliera.

– E lo chiami, perdio!

– Eh, una parola! Capace di tirarmi un calcio, sa?

– Ma è medico?

– Medico, medico. Il dottor Mangoni.

– E tira calci?

– Capirà, svegliarlo a quest’ora…

– Lo chiamo io!

Ci sia qualcosa di strano qui: quasi per definizione, i medici di guardia si aspettano di essere svegliati durante la sera. (Questo è il modo in cui fanno il loro lavoro. È anche il modo in cui forniscono un servizio a chi è in bisogno.) Al contrario il medico in farmacia (dottor Mangoni, il protagonista della novella) ha una reputazione per l’esatto contrario di ciò che avrei avuto aspettato l’avventore (e il lettore!).

Poi dottor Mangoni è risvegliato. Un’altra cosa sembra strana: lui non ha né l’aspetto né il comportamento di un professionista.

Il dottor Mangoni muggisce dentro la barbaccia arruffata che gl’invade quasi fin sotto gli occhi le guance; poi stringe le pugna sul petto e alza i gomiti per stirarsi; infine si pone a sedere, curvo, con gli occhi ancora chiusi sotto le sopracciglia spioventi. Uno dei calzoni gli è rimasto tirato sul grosso polpaccio della gamba e scopre le mutande di tela legate all’antica con una cordellina sulla rozza calza nera di cotone.

Il lettore viene a sapere che l’avventore è venuto per dottor Mangoni a causa di un caso di asfissia. Dottor Mangoni sembra capire immediatamente lo scopo della condizione medica e la causa più probabile.

– Ecco, dottore… Subito, la prego, – dice impaziente il signore. – Un caso d’asfissia…

– Col carbone? – domanda il dottore, volgendosi ma senza aprir gli occhi.

In tal modo il lettore ha la sensazione che, nonostante il suo comportamento e l’aspetto, il dottor Mangoni è sia ben istruito e con esperienza.

Ma poi, dottor Mangoni prende in giro il caso! Si presuppone che si tratta di un suicidio e incolpa questo… boh, sulle condizioni orrendi della società italiana? o sulle condizioni orrendi della sua vita?

Alza una mano a un gesto melodrammatico e, provandosi a tirar fuori la voce dalla gola ancora addormentata, accenna l’aria della “Gioconda”: Suicidio? In questi fieeeriii momenti…

Per molti molti molti motivi, il comportamento del dottor Mangoni è sia bizzarro e completamente inappropriato. Un medico non dovrebbe mai dire queste cose ad alta voce. Infatti l’avventore è sia stupefatto e arrabbiato/indignato dai commenti del dottor Mangoni. Poi, dottor Mangoni offre (una specie di) una scusa.

Quel signore fa un atto di stupore e d’indignazione. Ma il dottor Mangoni, subito, arrovescia indietro il capo e incignando ad aprire un occhio solo:

– Scusi, – dice, – è un suo parente?

L’avventore sottolinea la gravità della situazione. Subito il giovanotto comincia a raccogliere gli articoli che potrebbero essere necessario quando dottor Mangoni è con il paziente. Dottor Mangoni si concentra sulle altre cose.

– Nossignore! Ma la prego, faccia presto! Le spiegherò strada facendo. Ho qui la vettura. Se ha da prendere qualche cosa…

– Sí, dammi… dammi… – comincia a dire il dottor Mangoni, tentando d’alzarsi, rivolto al giovine di farmacia.

– Penso io, penso io, signor dottore, – risponde quello, girando la chiavetta della luce elettrica e dandosi attorno tutt’a un tratto con una allegra fretta che impressiona l’avventore notturno. Il dottor Mangoni storce il capo come un bue che si disponga a cozzare, per difendersi gli occhi dalla súbita luce.

– Sí, bravo figliuolo, – dice. – Ma mi hai accecato. Oh, e il mio elmo? dov’è?

L’elmo è il cappello. Lo ha, sí. Per averlo, lo ha: positivo. Ricorda d’averlo posato, prima d’addormentarsi, su lo sgabello accanto al divanuccio. Dov’è andato a finire?

Si mette a cercarlo. Ci si mette anche l’avventore; poi anche il vetturino, entrato a riconfortarsi al caldo della farmacia. E intanto il commesso farmacista ha tutto il tempo di preparare un bel paccone di rimedii urgenti.

– La siringa per le iniezioni, dottore, ce l’ha?

– Io? – si volta a rispondergli il dottor Mangoni con una maraviglia che provoca in quello uno scoppio di risa.

– Bene bene. Dunque, si dice, carte senapate. Otto, basteranno? Caffeina, stricnina. Una Pravaz. E l’ossigeno, dottore? Ci vorrà pure un sacco d’ossigeno, mi figuro.

– Il cappello ci vuole! il cappello! il cappello prima di tutto! – grida tra gli sbuffi il dottor Mangoni. E spiega che, tra l’altro, c’è affezionato lui a quel cappello, perché è un cappello storico: comperato circa undici anni addietro in occasione dei solenni funerali di Suor Maria dell’Udienza, Superiora del ricovero notturno al vicolo del Falco, in Trastevere, dove si reca spesso a mangiare ottime ciotole di minestra economica, e a dormire, quando non è di guardia nelle farmacie.

Finalmente il cappello è trovato, non lí nel laboratorio ma di là, sotto il banco della farmacia. Ci ha giocato il gattino.

L’avventore freme d’impazienza. Ma un’altra lunga discussione ha luogo, perché il dottor Mangoni, con la tuba tutta ammaccata tra le mani, vuole dimostrare che il gattino, sí, senza dubbio, ci ha giocato, ma che anche lui, il giovine di farmacia, le ha dovuto dare col piede, per giunta, una buona acciaccata sotto il banco. Basta. Un gran pugno allungato dentro la tuba, che per miracolo non la sfonda, e il dottor Mangoni se la butta in capo su le ventitré.

Ancora una volta il lettore ha la sensazione che il dottor Mangoni è sia indifferente e mal preparato per una situazione d’urgenza.

Durante il ritorno alla scena del soffocamento, l’avventore spiega cos’è successo: il paziente ha di recente trasferito a Roma dalla campagna in cerca di lavoro come un giornalista. (Lui ha qualche relazione con il fratello dell’avventore… possa essere il suo figlio illegittimo). Il paziente è impoverito e disperato; negli ultimi 5 giorni ha alloggiato in una stanza in affitto di proprietà dell’avventore. Il paziente ha bisogno di una sorta di permesso di governo, ma il processo di ottenerlo è in fase di stallo o ha completamente fallito.

Poi l’avventore descrive la gravità della situazione: il paziente è stato da solo nella sua stanza per almeno 5 ore.

A questo punto il signore si china un poco a guardare nel fondo della vettura il dottore che, durante il racconto, non ha piú dato segno di vita. Temendo che si sia riaddormentato, ripete piú forte:

– Dalle sette di sera!

Dottor Mangoni sembra prendere a malapena preavviso la storia. L’avventore non capisce la apparente indifferenza del medico.

– Come trotta bene questo cavallino, – gli dice allora il dottore Mangoni, sdrajato voluttuosamente nella vettura.

Quel signore resta, come se al bujo abbia ricevuto un pugno sul naso.

– Ma scusi, dottore, ha sentito?

– Sissignore.

– Dalle sette di sera. Dalle sette a mezzanotte, cinque ore.

– Precise.

A quanto pare, il paziente fosse a malapena vivo quando è stato trovato. Anche in questo caso dottor Mangoni non sembra prendere atto.

– Respira però, sa! Appena appena. È tutto rattrappito, e…

– Che bellezza! Saranno… sí, aspetti, tre… no, che dico tre? cinque anni saranno almeno, che non vado in carrozza. Come ci si va bene!

– Ma scusi, io le sto parlando…

– Sissignore. Ma abbia pazienza, che vuole che m’importi la storia di questo disgraziato?

– Per dirle che sono cinque ore…

– E va bene! Adesso vedremo. Crede lei che gli stia rendendo un bel servizio?

– Come?

– Ma sí, scusi! Un ferimento in rissa, una tegola sul capo, una disgrazia qualsiasi… prestare ajuto, chiamare il medico, lo capisco. Ma un pover’uomo, scusi, che zitto zitto si accuccia per morire?

– Come! – ripete, vieppiú trasecolato, quel signore.

E il dottor Mangoni, placidissimo:

– Abbia pazienza. Il piú l’aveva fatto, quel poverino. Invece del pane, s’era comperato il carbone. Mi figuro che avrà sprangato l’uscio, no? otturato tutti i buchi; si sarà magari alloppiato prima; erano passate cinque ore; e lei va a disturbarlo sul piú bello!

Come spiegare il comportamento del dottor Mangoni? Lui sa, ad esempio, che il caso è senza speranza e che non c’è niente da fare?

Queste cose non si fanno in casa d’altri, scusi!

– Ah, sí, sí; per questa parte, sí, ha ragione, – riconosce con un sospiro il dottor Mangoni. – Se ne poteva andare a morire fuori dai piedi, lei dice. Ha ragione. Ma il letto tenta, sa! Tenta, tenta. Morire per terra come un cane… Lo lasci dire a uno che non ne ha!

Nota bene: anche se questo è vero, le sue parole e il comportamento siano completamente non professionale:

– Che cosa?

– Letto.

– Lei?

Il dottor Mangoni tarda a rispondere. Poi, lentamente, col tono di chi ripete una cosa già tant’altre volte detta:

– Dormo dove posso. Mangio quando posso. Vesto come posso.

Poi impariamo di più della personalità del dottor Mangoni e questo suggerisce un’altra spiegazione: lui è profondamente disilluso con la pratica della medicina.

E subito aggiunge:

– Ma non creda oh, che ne sia afflitto. Tutt’altro. Sono un grand’uomo, io, sa? Ma dimissionario.

Il signore s’incuriosisce di quel bel tipo di medico in cui gli è avvenuto cosí per caso d’imbattersi; e ride, domandando:

– Dimissionario? Come sarebbe a dire dimissionario?

– Che capii a tempo, caro signore, che non metteva conto di nulla. E che anzi, quanto piú ci s’affanna a divenir grandi, e piú si diventa piccoli.

(Il Pirandello sceglie di non spiegarci cos’è successo al dottor Mangoni. Questo ha il vantaggio di permettere al lettore di concentrarsi sulle manifestazioni di un misantropo piuttosto quello che provoca la condizione.)

Ma, è tutto questo? Il personaggio del dottor Mangoni: può essere intesa semplicemente in termini della sua disillusione con la medicina?

Infatti il lettore ha il senso che ci sia qualcosa di diverso. A questo proposito, dottor Mangoni chiede l’avventore sul suo matrimonio.

Per forza. Ha moglie lei, scusi?

– Io? Sissignore.

– Mi pare che abbia sospirato dicendo sissignore.

– Ma no, non ho sospirato affatto.

– E allora, basta. Se non ha sospirato, non ne parliamo piú.

In sé e per sé, questo dialogo è abbastanza strano, cioè, difficile da capire dato ciò che sappiamo a questo punto della novella. Ciònonostante, impareremo che dottor Mangoni tornerà al tema del matrimonio e i rapporti tra uomini donne prima della fine della novella, aumentando la possibilità che lui abbia subito un tradimento o una esperienza personale profondamente negativo in precedenza in vita. Se è vero, ci possiamo ipotizzare che c’erano due fonti della misantropia del dottor Mangoni: uno professionale e l’altro personale.

La vettura arriva all’appartamento del paziente. Infatti non c’è niente da fare: il paziente è stato portato in un ospedale dove è morto.

– Se ne può andare! se ne può andare! Non c’è piú bisogno di lei! L’abbiamo fatto trasportare al Policlinico, perché moriva!

Presso l’appartamento dottor Mangoni incontra una coppia vecchia. Loro hanno almeno tre figli, cioè, due figlie e un figlio. La figlia maggiore e suo fratello hanno preso il paziente in un ospedale. Apprendiamo che la figlia maggiore era innamorata con il paziente.

– E ce l’aveva buttato qua, – riprende la moglie balzando in piedi di nuovo, non si sa se per rabbia o per commozione. – Qua, per far nascere in casa mia questa tragedia, che non finirà per ora, perché la mia figliuola, la maggiore, se n’è innamorata, capisce? Come una pazza, vedendolo morire – ah, che spettacolo! – se l’è caricato in collo, io non so com’ha fatto! se l’è portato via, con l’ajuto del fratello, giú per le scale, sperando di trovare una carrozza per istrada. Forse l’hanno trovata. E mi guardi, mi guardi là quell’altra figliuola, come piange.

Quella che segue è una scena in cui il dottor Mangoni oggettivizza la figlia minore della coppia. (Lei è in lutto ma la fonte della dolore non è del tutto chiaro.)

Il dottor Mangoni, entrando, ha già intraveduto nell’attigua saletta da pranzo una figliolona bionda scarmigliata intenta a leggere, coi gomiti sulla tavola e la testa tra le mani. Legge e piange, sí; ma col corpetto sbottonato e le rosee esuberanti rotondità del seno quasi tutte scoperte sotto il lume giallo della lampada a sospensione.

Il vecchio padre, a cui il dottor Mangoni ora si volta come intronato, fa con le mani gesti di grande ammirazione. Sul seno della figliuola? No. Su ciò che la figliuola sta leggendo di là fra tante lagrime. Le poesie del giovinetto.

– Un poeta! – esclama. – Un poeta, che se lei sentisse… cose! Me ne intendo, perché professore di belle lettere a riposo. Cose grandi, cose grandi.

E si reca di là per prendere alcune di quelle poesie; ma la figliuola con rabbia se le difende, per paura che la sorella maggiore, ritornando col fratello dall’ospedale, non gliele lascerà piú leggere, perché vorrà tenersele per sé gelosamente, come un tesoro di cui lei sola dev’esser l’erede.

– Almeno qualcuna di queste che hai già lette, – insiste timidamente il padre.

Ma quella, curva con tutto il seno su le carte, pesta un piede e grida: – No! – Poi le raccoglie dalla tavola, se le ripreme con le mani sul seno scoperto e se le porta via in un’altra stanza di là.

Il dottor Mangoni si volta allora a guardar di nuovo quella tristezza di lettino vuoto, che rende vana la sua visita; poi guarda la finestra che, non ostante il gelo della notte, è rimasta aperta in quella lugubre stanza per farne svaporare il puzzo del carbone.

La luna rischiara il vano di quella finestra. Nella notte alta, la luna. Il dottor Mangoni se la immagina, come tante volte, errando per vie remote, l’ha veduta, quando gli uomini dormono e non la vedono piú, inabissata e come smarrita nella sommità dei cieli.

Lo squallore di quella stanza, di tutta quella casa, che è una delle tante case degli uomini, dove ballonchiano tentatrici, a perpetuare l’inconcludente miseria della vita, due mammelle di donna come quelle ch’egli ha or ora intravedute sotto il lume della lampada a sospensione nella stanza di là, gl’infonde un cosí frigido scoraggiamento e insieme una cosí acre irritazione, che non gli è piú possibile rimanere seduto.

(WOW! Misoginia + misantropia… una pessima combinazione. Il dottore pare Donald Trump!)

Questa scena si conclude con dottor Mangoni cinicamente dicendo che il paziente era meglio morto (visto che stava per sposarsi).

Si alza, sbuffando, per andarsene. Infine, via, è uno dei tanti casi che gli sogliono capitare, stando di guardia nelle farmacie notturne. Forse un po’ piú triste degli altri, a pensare che probabilmente, chi sa! era un poeta davvero quel povero ragazzo. Ma, in questo caso, meglio cosí: che sia morto.

Poi dottor Mangoni sposta la sua attenzione alla coppia e il tema delle relazioni tra uomini e donne.

– Senta, – dice al vecchio che s’è alzato anche lui per riprendere in mano la candela. – Quel signore che li ha rimproverati e che è venuto a scomodarmi in farmacia, dev’essere veramente un imbecille. Aspetti: mi lasci dire. Non già perché li ha rimproverati, ma perché gli ho domandato se aveva moglie, e mi ha risposto di sí; ma senza sospirare. Ha capito?

La coppia è colta di sorpresa dai suoi commenti.

Il vecchio lo guarda a bocca aperta. Evidentemente non capisce. Capisce la moglie, che salta sú a domandargli:

– Perché chi dice d’aver moglie, secondo lei, dovrebbe sospirare?

E il dottor Mangoni, pronto:

– Come m’immagino che sospira lei, cara signora, se qualcuno le domanda se ha marito.

E glielo addita. Poi riprende:

– Scusi, a quel giovinetto, se non si fosse ucciso, lei avrebbe dato in moglie la sua figliuola?

Quella lo guarda un pezzo, di traverso, e poi, come a sfida, gli risponde:

– E perché no?

– E se lo sarebbero preso qua con loro in questa casa? – torna a domandare il dottor Mangoni.

E quella, di nuovo:

– E perché no?

– E lei, – domanda ancora il dottor Mangoni, rivolto al vecchio marito, – lei che se n’intende, professore di belle lettere a riposo, gli avrebbe anche consigliato di stampare quelle sue poesie?

Per non esser da meno della moglie, il vecchio risponde anche lui:

– E perché no?

– E allora, – conclude il dottor Mangoni, – me ne dispiace, ma debbo dir loro, che sono per lo meno due volte piú imbecilli di quel signore.

Poi dottor Mangoni si allontana… ma si ferma per continuare la conversazione. Lui conclude che era meglio per la loro figlia ora che il paziente è morto.

E volta le spalle per andarsene.

– Si può sapere perché? – gli grida dietro la donna inviperita.

Il dottor Mangoni si ferma e le risponde pacatamente:

– Abbia pazienza. Mi ammetterà che quel povero ragazzo sognava forse la gloria, se faceva poesie. Ora pensi un po’ che cosa gli sarebbe diventata la gloria, facendo stampare quelle sue poesie. Un povero, inutile volumetto di versi. E l’amore? L’amore che è la cosa piú viva e piú santa che ci sia dato provare sulla terra? Che cosa gli sarebbe diventato? L’amore: una donna. Anzi, peggio, una moglie: la sua figliuola.

– Oh! oh! – minaccia quella, venendogli quasi con le mani in faccia. – Badi come parla della mia figliuola!

– Non dico niente, – s’affretta a protestare il dottor Mangoni. – Me l’immagino anzi bellissima e adorna di tutte le virtú. Ma sempre una donna, cara signora mia: che dopo un po’ santo Dio, lo sappiamo bene, con la miseria e i figliuoli, come si sarebbe ridotta. E il mondo, dica un po’? Il mondo, dove io adesso con questo piede che mi fa tanto male mi vado a perdere; il mondo veda lei, veda lei, signora cara, che cosa gli sarebbe diventato! Una casa. Questa casa. Ha capito?

E facendo scattar le mani in curiosi gesti di nausea e di sdegno, se ne va, zoppicando e borbottando:

– Che libri! Che donne! Che casa! Niente… niente… niente… Dimissionario! dimissionario! Niente.

***

Un ultimo pensiero…

Mi chiedo se il dottor Mangoni abbia considerato il suo suicidio dopo le tragedie presunti (personali e professionali) della sua vita? Mi chiedo se il suicidio del paziente lo spaventassi?

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