Riassunto: Mondo di carta

AVVERTIMENTO!

Questa novella è così ben scritto che non sarà in grado di metterla giù!

 

All’inizio della novella Mondo di carta (L. Pirandello) un vecchio signore e un ragazzo stanno avendo un’accesa discussione su via Nazionale a Roma. Subito l’argomento attira una folla dei curiosi. Veniamo a sapere che il signore è in cattivo stato di salute (cioè, lui è itterico e sta fallendo la sua vista).

Un gridare, un accorrere di gente in capo a Via Nazionale, attorno a due che s’erano presi: un ragazzaccio sui quindici anni, e un signore ispido, dalla faccia gialliccia, quasi tagliata in un popone, su la quale luccicavano gli occhialacci da miope, grossi come due fondi di bottiglia.

Litigano… avanti e indietro,

Sforzando la vocetta fessa, quest’ultimo voleva darsi ragione e agitava di continuo le mani che brandivano l’una un bastoncino d’ebano dal pomo d’avorio, l’altra un libraccio di stampa antica.

Il ragazzaccio strepitava pestando i piedi sui cocci d’una volgarissima statuetta di terracotta misti a quelli di gesso abbronzato della colonnina che la sorreggeva.

e gli spettatori reagiscono in modi diversi.

Tutti attorno, chi scoppiava in clamorose risate, chi faceva un viso lungo lungo e chi pietoso: e i monelli, attaccati ai lampioni, chi abbajava, chi fischiava, chi strombettava sul palmo della mano.

Da una parte il signore, Valeriano Balicci, il protagonista della novella, accusa il ragazzo di creare situazioni in cui il Balicci sarebbe tale da rompere alcune delle merci del ragazzo, costringendolo così a pagare per gli articoli rotti.

– È la terza! è la terza! – urlava il signore. – Mentre passo leggendo, mi para davanti le sue schifose statuette, e me le fa rovesciare. È la terza! Mi dà la caccia! Si mette alle poste! Una volta al Corso Vittorio; un’altra a Via Volturno; adesso qua.

D’altra parte il ragazzo sostiene che infatti l’età del Balicci e il suo cattivo stato di salute sono responsabili.

Tra molti giuramenti e proteste d’innocenza, il figurinajo cercava anch’esso di farsi ragione presso i piú vicini:

– Ma che! È lui! Non è vero che legge! Mi ci vien sopra! O che non veda, o che vada stordito, o che o come, fatto si è…

Passano giudizio i membri della folla.

– Ma tre? Tre volte? – gli domandavano quelli tra le risa.

Lo spetaccolo attira l’attenzione di due guardie. Dopo un po’ loro rendono conto che non riusciranno a calmare la situazione; alla fine, le guardie decidono di prendere tutt’e due (il Balicci e il ragazzo) in custodia.

Alla fine, due guardie di città, sudate, sbuffanti, riuscirono tra tutta quella calca a farsi largo; e siccome l’uno e l’altro dei contendenti, alla loro presenza, riprendevano a gridare piú forte ciascuno le proprie ragioni, pensarono bene, per togliere quello spettacolo, di condurli in vettura al piú vicino posto di guardia.

Poco dopo lui è collocato in una vettura per il viaggio al posto di guardia, il Balicci subisce un episodio della improvvisa cecità completa. Si ferma la vettura. Le guardie, il vetturino e il ragazzo sono storditi da quanto è successo e anche insicuri di quello che dovrebbero fare.

Ma appena montato in vettura, quel signore occhialuto si drizzò lungo lungo sulla vita e si mise a voltare a scatti la testa, di qua, di là, in sú, in giú; infine s’accasciò, aprí il libraccio e vi tuffò la faccia fino a toccar col naso la pagina; la sollevò tutto sconvolto, si tirò sulla fronte gli occhialacci e rituffò la faccia nel libro per provarsi a leggere con gli occhi soltanto; dopo tutta questa mimica cominciò a dare in smanie furiose, a contrarre la faccia in smorfie orrende, di spavento, di disperazione:

– Oh Dio. Gli occhi. Non ci vedo piú. Non ci vedo piú!

Il vetturino si fermò di botto. Le guardie, il figurinajo, sbalorditi, non sapevano neppure se colui facesse sul serio o fosse impazzito; perplessi nello sbalordimento, avevano quasi un sorriso d’incredulità sulle bocche aperte.

Per caso una farmacia è nelle vicinanze. Il Balicci è portato dentro e all’inizio, la scena è caotica. Poi le persone cercano di confortare il Balicci.

C’era là una farmacia; e, tra la gente ch’era corsa dietro la vettura e l’altra che si fermò a curiosare, quel signore, tutto scompigliato, cadaverico in faccia, sorretto per le ascelle, vi fu fatto entrare.

Mugolava. Posto a sedere su una seggiola, si diede a dondolare la testa e a passarsi le mani sulle gambe che gli ballavano, senza badare al farmacista che voleva osservargli gli occhi, senza badare ai conforti, alle esortazioni, ai consigli che gli davano tutti: che si calmasse; che non era niente; disturbo passeggero; il bollore della collera che gli aveva dato agli occhi.

Stranamente, il Balicci sembra prestare scarsa attenzione alla sua cecità. Invece si è più preoccupato per la localizzazione di un libro che aveva avuto con sé.

A un tratto, cessò di dondolare il capo, levò le mani, cominciò ad aprire e chiudere le dita.

– Il libro! Il libro! Dov’è il libro?

Le persone all’interno della farmacia non possono spiegare la preoccupazione del Balicci per il libro. Loro sembrano riconoscere l’ironia della sua preoccupazione: dopotutto che cosa servirebbe un libro per un cieco? Si chiedono se il Balicci ha infatti agito in modo responsabile (cioè, leggendo mentre camminando attraverso le strade).

Tutti si guardarono negli occhi, stupiti; poi risero. Ah, aveva un libro con sé? Aveva il coraggio, con quegli occhi, di andar leggendo per istrada? Come, tre statuette? Ah sí? e chi, chi, quello? Ah sí? Gliele metteva davanti apposta? Oh bella! oh bella!

Forse il ragazzo stava dicendo la verità? (Ma dai, no!!)

Ciònonostante il Balicci sostiene la sua innocenza.

– Lo denunzio! – gridò allora il signore, balzando in piedi, con le mani protese e strabuzzando gli occhi con scontorcimenti di tutto il volto ridicoli e pietosi a un tempo. – In presenza di tutti qua, lo denunzio! Mi pagherà gli occhi! Assassino! Ci sono due guardie qua; prendano i nomi, subito, il mio e il suo. Testimoni tutti! Guardia, scrivete: Balicci. Sí, Balicci; è il mio nome. Valeriano, sí, via Nomentana 112, ultimo piano. E il nome di questo manigoldo, dov’è? è qua? lo tengano! Tre volte, approfittando della mia debole vista, della mia distrazione, sissignori, tre schifose statuette. Ah, bravo, grazie, il libro, sí, obbligatissimo! Una vettura, per carità. A casa, a casa, voglio andare a casa! Resta denunziato.

Poi veniamo a sapere che il Balicci ha una malattia cronica che probabilmente progredirà alla cecità. Nel passato, il Balicci è stato sotto la cura di un medico oculista che lo ha consigliato di smettere di leggere — perché potrebbe antagonizzare la sua condizione cronica e quindi accelerare il giorno in cui il Balicci era completamente cieco.

Fu l’epilogo buffo e clamoroso d’una quieta sciagura che durava da lunghissimi anni. Infinite volte, per unica ricetta del male che inevitabilmente lo avrebbe condotto alla cecità, il medico oculista gli aveva detto di smettere la lettura. Ma il Balicci aveva accolto ogni volta questa ricetta con quel sorriso vano con cui si risponde a una celia troppo evidente.

(Oggi, potremmo immaginare che il Balicci soffra di una delle seguenti condizioni: diabete mellito, cataratta, glaucoma, rosolia, degenerazione maculare, retinite pigmentosa.)

Il Balicci ha rifiutato di prendere il consiglio del medico oculista: può fare niente di meno perché è veramente ossessionato con la lettura! In realtà, tutta la sua vita è stata dominata da questa ossessione.

Bell’avvertimento! Ma se vivere, per lui, voleva dir leggere! Non dovendo piú leggere, tanto valeva che morisse.

Fin da quando aveva imparato a compitare, era stato preso da quella manía furiosa. Affidato da anni e anni alle cure di una vecchia domestica che lo amava come un figliuolo, avrebbe potuto campare sul suo piú che discretamente, se per l’acquisto dei tanti e tanti libri che gl’ingombravano in gran disordine la casa, non si fosse perfino indebitato. Non potendo piú comprarne di nuovi, s’era dato già due volte a rileggersi i vecchi, a rimasticarseli a uno a uno tutti quanti dalla prima all’ultima pagina. E come quegli animali che per difesa naturale prendono colore e qualità dai luoghi, dalle piante in cui vivono, cosí a poco a poco era divenuto quasi di carta: nella faccia, nelle mani, nel colore della barba e dei capelli. Discesa a grado a grado tutta la scala della miopia, ormai da alcuni anni pareva che i libri se li mangiasse davvero, anche materialmente, tanto se li accostava alla faccia per leggerli.

(Qundi, forse il Balicci non è itterico dopotutto!)

In farmacia il Balicci viene detto che sarà in grado di essere cieco per 40 giorni. (40 giorni? Perché _40_ giorni? Come mai possibile che un medico saprebbe saperlo con tanta precisone? È questo un riferimento biblico? storico?)

Il Balicci sembra capire la gravità della situazione: da una parte non può aspettare 40 giorni per essere in grado di leggere ancora una volta (la sua ossessione è troppo potente); d’altra parte non può vedere. Quindi cerca di adattarsi: si rende conto che ciò che possiede — in realtà, l’unico che possiede — è le sue memorie dei suoi libri e le storie che contengono.

Condannato dal medico, dopo quella tremenda caldana, a stare per quaranta giorni al bujo, non s’illuse piú neanche lui che quel rimedio potesse giovare, e appena poté uscire di camera, si fece condurre allo studio, presso il primo scaffale. Cercò a tasto un libro, lo prese, lo aprí, vi affondò la faccia, prima con gli occhiali, poi senza, come aveva fatto quel giorno in vettura; e si mise a piangere dentro quel libro, silenziosamente. Piano piano poi andò in giro per l’ampia sala, tastando qua e là con le mani i palchetti degli scaffali. Eccolo lí, tutto il suo mondo! E non poterci piú vivere ora, se non per quel tanto che lo avrebbe ajutato la memoria!

In un paragrafo estremamente ben scritto, il Pirandello spiega che, in un vero senso, il Balicci è sempre stato ‘cieco’… vale a dire che lui era sempre fissato su (o consumato da) suo mondo immaginario di carta… e, al tempo stesso, lui era ignaro del mondo che lo circonda.

La vita, non l’aveva vissuta; poteva dire di non aver visto bene mai nulla: a tavola, a letto, per via, sui sedili dei giardini pubblici, sempre e da per tutto, non aveva fatto altro che leggere, leggere, leggere. Cieco ora per la realtà viva che non aveva mai veduto; cieco anche per quella rappresentata nei libri che non poteva piú leggere.

Per il Bal1cci, poi, la lettura è venuto a dominare la vita come profondamente come una qualsiasi droga (per un un tossicodipendente) o una cattiva abitudine (per un un dipendente). Coerentemente con questo, il Balicci sembra aver scelto di vivere da solo: diremmo che la sua fosse stata ‘una vita della mente’. In altre parole, l’identità del Balicci fosse stata uguale all’atto di leggere.

(Ciò che è diversa sulla situazione del Balicci, e interessante a considerare, sia che lui è un professore. Dunque la lettura possa essere visto dalla società come un cosa naturale e legale, cioè, come un’estensione del suo lavoro. Anzi, alcuni nella società potrebbero addirittura ammirarlo per leggendo così tanto!)

Dopo un po’, senza la sua visione il Balicci si sente la necessità di organizzare i suoi libri. I libri sono il suo mondo; di organizzarli, lui possa essere in grado di ‘tenere vista’ di tutto ciò che possiede.

La grande confusione in cui aveva sempre lasciato tutti i suoi libri, sparsi o ammucchiati qua e là sulle seggiole, per terra, sui tavolini, negli scaffali, lo fece ora disperare. Tante volte s’era proposto di mettere un po’ d’ordine in quella babele, di disporre tutti quei libri per materie, e non l’aveva mai fatto, per non perder tempo. Se l’avesse fatto, ora, accostandosi all’uno o all’altro degli scaffali, si sarebbe sentito meno sperduto, con lo spirito meno confuso, meno sparpagliato.

In un certo senso, quindi, l’organizzazione dei suoi libri può essere visto come un aiuto ai suoi ricordi di tutto quello che possiede.

Per fare il progetto il Balicci arruola l’aiuto di un giovanotto che ha lavorato prima in una biblioteca.

Fece mettere un avviso nei giornali, per avere qualcuno pratico di biblioteche, che si incaricasse di quel lavoro d’ordinamento. In capo a due giorni gli si presentò un giovinotto saccente, il quale rimase molto meravigliato nel trovarsi davanti un cieco che voleva riordinata la libreria e che pretendeva per giunta di guidarlo. Ma non tardò a comprendere, quel giovanotto, che – via – doveva essere uscito di cervello quel pover’uomo, se per ogni libro che gli nominava, eccolo là, saltava di gioja, piangeva, se lo faceva dare, e allora, palpeggiamenti carezzevoli alle pagine e abbracci, come a un amico ritrovato.

– Professore, – sbuffava il giovanotto. – Ma cosí badi che non la finiamo piú!

– Sí, sí, ecco, ecco, – riconosceva subito il Balicci. – Ma lo metta qua, questo: aspetti, mi faccia toccare dove l’ha messo. Bene, bene qua, per sapermi raccapezzare.

Erano per la maggior parte libri di viaggi, d’usi e costumi dei varii popoli, libri di scienze naturali e d’amena letteratura, libri di storia e di filosofia.

Quando alla fine il lavoro fu compiuto, parve al Balicci che il bujo gli s’allargasse intorno in tenebre meno torbide, quasi avesse tratto dal caos il suo mondo. E per un pezzo rimase come rimbozzolito a covarlo.

Dopo che l’organizzazione è completata, il Pirandello ci aiuta capire che cosa può fare il Balicci:

Con la fronte appoggiata sul dorso dei libri allineati sui palchetti degli scaffali, passava ora le giornate quasi aspettando che, per via di quel contatto, la materia stampata gli si travasasse dentro. Scene, episodii, brani di descrizioni gli si rappresentavano alla mente con minuta, spiccata evidenza; rivedeva, rivedeva proprio in quel suo mondo alcuni particolari che gli erano rimasti piú impressi, durante le sue riletture: quattro fanali rossi accesi ancora, alla punta dell’alba, in un porto di mare deserto, con una sola nave ormeggiata, la cui alberatura con tutte le sartie si stagliava scheletrica sullo squallore cinereo della prima luce; in capo a un erto viale, su lo sfondo di fiamma d’un crepuscolo autunnale, due grossi cavalli neri con le sacche del fieno alla testa.

Tuttavia la sua nuova capacità prova subito d’essere insufficiente: il Balicci vuole sentire le storie, vuole rivivere le esperienze dei suoi libri e rafforzare i ricordi del suo mondo!

Ma non poté reggere a lungo in quel silenzio angoscioso. Volle che il suo mondo riavesse voce, che si facesse risentire da lui e gli dicesse com’era veramente e non come lui in confuso se lo ricordava. Mise un altro avviso nei giornali, per un lettore o una lettrice; e gli capitò una certa signorinetta tutta fremente in una perpetua irrequietezza di perplessità. Aveva svolazzato per mezzo mondo, senza requie, e anche per il modo di parlare dava l’immagine d’una calandrella smarrita, che spiccasse di qua, di là il volo, indecisa, e s’arrestasse d’un subito, con furioso sbàttito d’ali, e saltellasse, rigirandosi per ogni verso.

Di conseguenza, il Balicci arruola anche l’aiuto di una giovinotta, Tilde Pagliocchini, a leggere ad alta voce a lui. Veniamo a sapere che la Pagliocchini è immatura e anche manca l’autostima.

Irruppe nello studio, gridando il suo nome:

– Tilde Pagliocchini. Lei? Ah già… me lo… sicuro, Balicci, c’era scritto sul giornale… anche su la porta… Oh Dio, per carità, no! guardi, professore, non faccia cosí con gli occhi. Mi spavento. Niente, niente, scusi, me ne vado.

La Pagliocchini comincia a leggere per la prima volta: fin dall’inizio il suo modo di leggere è teatrale.

Ma quando ne diede il primo saggio al Balicci con certe inflessioni e certe modulazioni, e volate e smorzamenti e arresti e scivoli, accompagnati da una mimica tanto impetuosa quanto superflua, il pover’uomo si prese la testa tra le mani e si restrinse e si contorse come per schermirsi da tanti cani che volessero addentarlo.

Così la Pagliocchini ha preso su di sé d’interpretare il testo del libro che legge. Questo modo di fare è inaccettabile per il Balicci! Dopotutto lui è dominato dalla sua ossessione, ma tutto ciò che resta sono i suoi ricordi: quindi c’è solo una vera ‘voce’ (o l’interpretazione) di queste storie, cioè, la sua!

– No! Cosí no! Cosí no! per carità! – si mise a gridare.

Quindi il Balicci le chiede di leggere il più silenziosamente possibile… nella speranza che la sua voce interferirà il meno possibile con la sua memoria.

– Ma no! Per carità, a bassa voce! Piú bassa che può! quasi senza voce! Capirà, io leggevo con gli occhi soltanto, signorina!

– Malissimo, professore! Leggere a voce alta fa bene. Meglio poi non leggere affatto! Ma scusi, che se ne fa? Senta (picchiava con le nocche delle dita sul libro). Non suona! Sordo. Ponga il caso, professore, che io ora le dia un bacio.

Il Balicci s’interiva pallido:

– Le proibisco!

Sfortunatamente il secondo tentativo di lettura prova anche d’essere insoddisfacente.

Alla nuova prova, il Balicci si contorse peggio di prima. Ma comprese che, sú per giú, sarebbe stato lo stesso con qualunque altra lettrice, con qualunque altro lettore. Ogni voce, che non fosse la sua, gli avrebbe fatto parere un altro il suo mondo.

Poi, ironicamente, il Balicci chiede la Pagliocchini di leggere i libri in silenzio! La Pagliocchini è offesa.

– Signorina, guardi, mi faccia il favore, provi con gli occhi soltanto, senza voce.

La signorina Tilde Pagliocchini si voltò a guardarlo, con tanto d’occhi.

– Come dice? Senza voce? E allora, come? per me?

Il Balicci spiega il suo punto di vista.

– Ecco, le spiego, – rispose il Balicci, quieto, con un amarissimo sorriso. – Provo piacere che qualcuno legga qua, in vece mia. Lei forse non riesce a intenderlo, questo piacere. Ma gliel’ho già detto: questo è il mio mondo; mi conforta il sapere che non è deserto, che qualcuno ci vive dentro, ecco. Io le sentirò voltare le pagine, ascolterò il suo silenzio intento, le domanderò di tanto in tanto che cosa legge, e lei mi dirà… oh, basterà un cenno… e io la seguirò con la memoria. La sua voce, signorina, mi guasta tutto!

Poi il Balicci la assegna un libro da leggere, in silenzio, mentre lui ricorda il libro da memoria. La Pagliocchini lo lascia solo.

In punta di piedi, appena il Balicci le assegnava il libro da leggere, la signorina Tilde Pagliocchini volava via dallo studio e se n’andava a conversare di là con la vecchia domestica. Il Balicci intanto viveva nel libro che le aveva assegnato e godeva del godimento che si figurava ella dovesse prenderne. E di tratto in tratto le domandava: – Bello, eh? – oppure: – Ha voltato? – Non sentendola nemmeno fiatare, s’immaginava che fosse sprofondata nella lettura e che non gli rispondesse per non distrarsene.

– Sí, legga, legga… – la esortava allora, piano, quasi con voluttà.

Dopo un po’ la Pagliocchini torna alla camera. Il Balicci sembra essere bloccato nel pensiero.

– Professore, a che pensa?

– Vedo… – le rispondeva lui, con una voce che pareva arrivasse da lontano lontano. Poi, riscotendosi con un sospiro: – Eppure ricordo che erano di pepe!

– Che cosa, di pepe, professore?

– Certi alberi, certi alberi in un viale… Là, veda, nella terza scansia, al secondo palchetto, forse il terz’ultimo libro.

Qualche tempo avanti, la Pagliocchini fa un secondo errore. Si informa il Balicci che ha visitato il luogo descritto nel libro che stanno leggendo e che l’autore ha preso una ‘licenza letteraria’, cioè, che l’autore non ha descritto accuratamente il posto.

Cercando, la signorina maltrattava le pagine, s’irritava alle raccomandazioni di far piano. Cominciava a essere stufa, ecco. Era abituata a volare, lei, a correre, a correre, in treno, in automobile, in ferrovia, in bicicletta, su i piroscafi. Correre, vivere! Già si sentiva soffocare in quel mondo di carta. E un giorno che il Balicci le assegnò da leggere certi ricordi di Norvegia, non seppe piú tenersi. A una domanda di lui, se le piacesse il tratto che descriveva la cattedrale di Trondhjem, accanto alla quale, tra gli alberi, giace il cimitero, a cui ogni sabato sera i parenti superstiti recano le loro offerte di fiori freschi:

– Ma che! ma che! ma che! – proruppe su tutte le furie. – Io ci sono stata, sa? E le so dire che non è com’è detto qua!

Quest’affermazione viene preso come una grave minaccia:

Il Balicci si levò in piedi, tutto vibrante d’ira e convulso:

– Io le proibisco di dire che non è com’è detto là! – le gridò, levando le braccia. – M’importa un corno che lei c’è stata! È com’è detto là, e basta! Dev’essere cosí, e basta! Lei mi vuole rovinare! Se ne vada! Se ne vada! Non può piú stare qua! Mi lasci solo! Se ne vada!

Alla fine della novella il Balicci è da solo ancora una volta… con i suoi pensieri ei suoi ricordi.

Rimasto solo, Valeriano Balicci, dopo aver raccattato a tentoni il libro che la signorina aveva scagliato a terra, cadde a sedere su la poltrona; aprí il libro, carezzò con le mani tremolanti le pagine gualcite; poi v’immerse la faccia e restò lí a lungo, assorto nella visione di Trondhjem con la sua cattedrale di marmo, col cimitero accanto, a cui i devoti ogni sabato sera recano offerte di fiori freschi – cosí, cosí com’era detto là. – Non si doveva toccare. Il freddo, la neve, quei fiori freschi, e l’ombra azzurra della cattedrale. – Niente lí si doveva toccare. Era cosí, e basta. Il suo mondo. Il suo mondo di carta. Tutto il suo mondo.

 

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