Riassunto: La balia

La novella La balia (L. Pirandello) usa un linguaggio vivido per raccontare la storia tragicomica di Annucchia Marullo, una disperatamente povera, non raffinata, ingenua e incolta signora Siciliana (lei è anche sincera, onesta, premurosa, franca, morale, altruista e religiosa) che, in parte per aiutare la sua famiglia a sopravvivere e in parte a causa della curiosità e ambizione personale, cerca / si sforza per qualcosa che, infatti, è introvabile.

Alla fine del capitolo I, la suocera di Annucchia la avverte, “Se vai, è contro la mia volontà, e te maledico! Ricordatene!” Penso, dunque, che una interpretazione della novella possa essere, “Stai attento a ciò che desideri!”

 

La novella è diviso in 5 capitoli.

Capitolo I

Capitolo I si svolge nella campagna siciliana. I Manfroni sono una famiglia ben da fare, la cui ricchezza è dovuto del senso degli affari del signor Manfroni. I Manfroni hanno una figlia, Ersilia, che è stata sposata due anni fa (ora vive a Roma con il marito, Ennio Mori). Di recente Ersilia ha dato alla luce un figlio, Leonida.

All’inizio della novella la signora Manfroni riceve una lettera dal Mori, informandola che la coppia ha deciso di utilizzare i servizi d’una balia. Ennio, che ha le fortemente tenute convinzioni politiche, non vuole impiegare una balia da Roma; invece vuole impiegare una siciliana. Il signor Manfroni legge la lettera e si rende conto rapidamente che la moglie d’un contadino, Titta Marullo, potrebbe servire la coppia.

Veniamo a sapere che il signor Manfroni ha appena licenziato Titta Marullo dal suo lavoro a causa delle proprie convinzioni politiche. Il signor Manfroni sa che la famiglia soffre economicamente. La situazione è particolarmente grave perché la moglie, Annicchia Marullo, ha appena dato alla luce un figlio (quindi potrebbe funzionare come una balia).

C’è grande ironia qui dato che le convinzioni politiche del Mori e del Marullo sono quasi identiche… infatti il signor Manfroni ha già licenziato Titta Marullo per le sue convinzioni, mentre, al tempo stesso, esprime anche grande ammirazione per il Mori! (Il signor Manfroni pare indifferente alla contraddizione! Forse il licenziamento di Titta Morulla era semplicemente una buona decisione di business!)

Quello che segue è un dialogo estese che illustra lo stato di ‘dare e avere’ del matrimonio dei Manfroni.

– Ohé! Non si mangia oggi? Perché la tavola non è ancora apparecchiata?

Il signor Manfroni entrò, vociando cosí, al solito. Di là aveva già sgridato la serva e la cuoca.

– Piano, Saverio, piano… – disse la moglie. – Sai bene che c’è sempre un mondo da fare in casa nostra.

– Da fare? Voi? E io?

– Leggiti, leggiti la bella lettera del tuo carissimo genero, piuttosto.

– Ersilia?

– Sentirai.

Il signor Manfroni si calmò di botto; scorse la lettera poi, ripiegandola:

– Benissimo! Ho la balia che ci vuole.

Aveva di questi lampi il signor Manfroni, nei quali egli per primo s’abbagliava e a cui doveva – a suo credere – la sua ingente fortuna commerciale.

Con aria derisoria e di sfida la signora Manfroni domandò:

– Sarebbe?

– La moglie di Titta Marullo.

– La moglie di quell’avanzo di forca?

– Taci!

– La moglie di quel capopopolo?

– Taci!

– La moglie d’un coatto!

– Lasciami dire! – gridò il Manfroni. – Sei donna tu e, per tua norma, qua, Domineddio, stoppa, stoppa, cara mia, ti ci ha messo! stoppa in luogo di cervello. Con le belle condizioni sociali, nelle quali viviamo…

– Come c’entrano le condizioni sociali? – domandò, stordita, la moglie.

– C’entrano! C’entrano! – ribatté furiosamente il signor Saverio. – Perché, noi, noi che siamo riusciti col lavoro assiduo e per… come si dice? perticace, cioè, no… sí, giusto dico, perticace, a metter da banda una sostanza qualsiasi, noi, oggi, per tua norma, di fronte all’avvenire che si fa man mano piú torbido e minaccioso… hai capito?

– No! Che vuoi che capisca?

– E non te lo dico io? Stoppa!

Afferrò una seggiola, l’accostò a quella su cui stava la moglie e vi sedette in gran furia, sbuffando.

– Io, Titta Marullo, – riprese, sforzandosi di parlar sotto voce, perché i servi non udissero, – io, Titta Marullo, per tua norma, lo scacciai dal panificio, per le sue idee rivoluzionarie.

– Come quelle del signor Mori, a cui hai dato tua figlia!

– Lasciami dire! – urlò il Manfroni. – E perché gli ho dato mia figlia, io? Prima di tutto perché Ennio è un ottimo giovine; poi, sissignora, perché socialista! sissignora! E mi è convenuto! e mi ha fatto gioco! Sai dirmi perché sono tanto rispettato, io, da tutta quella canaglia a cui do da mangiare? Stoppa! Ma qui Ennio non c’entra… Parlavamo di Titta Marullo. Lo scacciai dal panificio. Rimasto sul lastrico, il disgraziato, si regolò in modo da farsi mandare all’isola, a domicilio coatto. Ora io, ricco, ma con qui dentro qualcosa che batte e che, per tua norma, si chiama cuore, prendo sua moglie, la ficco in un vagone di terza classe e la spedisco a Roma, balia del mio nipotino!

Impariamo da questo scambio che entrambi i Manfroni sono maturi adulti sofisticati che conoscono bene l’un l’altra, che prendono cura e che rispettano l’un l’altra, e che hanno una notevole rispetto di sé. La conversazione, più o meno, è tra due persone uguale. (Il signor Manfroni ha chiaramente un atteggiamento misogino nei confronti di sua moglie, ma non ha mai tentato di dominarla.)

Poteva avere centomila ragioni il signor Manfroni, ma aveva anche su uno zigomo un ridicolissimo porro, sul quale la moglie appuntava gelidamente uno sguardo quanto mai dispettoso, quando si vedeva costretta a sottomettersi a quelle ragioni. E il signor Manfroni, nel vedersi ogni volta guardato il porro, provava un tale urto di nervi che, per non fare uno sproposito, troncava subito la discussione. Sonò il campanello e ordinò alla serva:

– Di’ a Lisi che venga subito qua.

Alla fine Annicchia arriva alla casa dei Manfroni. È stata portata a credere che l’obiettivo dell’incontro è legato al lavoro del marito, ma scopre ben presto che cosa il signor Manfroni ha in mente.

Annicchia identifica rapidamente i problemi che seguiranno se si trasferisca a Roma. In primo luogo suo bambino avrebbe dovuto rimanere in Sicilia. In secondo luogo Annicchia non sarebbe più capace prendersi cura della sua suocera. In terzo luogo Annicchia non ha mai lasciato il suo paese… il viaggio a Roma, da piroscafo e treno, sarebbe soprafacendo da contemplare.

(È molto difficile per il lettore moderno immaginare come Annicchia potrebbe prendere in considerazione di lasciare il suo bambino! Forse questo può essere meglio compresa come una decisione pratica fatta di fronte alla povertà estrema? Dopotutto la sua decisione di farlo sembra essere accettata senza discussione dalle sue vicine (cioè, le altre donne della sua età.)

– Che gli hai risposto?

Annicchia volse uno sguardo alle vicine, come per dire: Fatele intender voi, che io debbo accettare.

– Gli ho risposto che sarei venuta a dirvelo, mamma.

– Non voglio! Non voglio! – gridò subito, irosa, la vecchia.

– Non vorrei nemmeno io; ma…

E di nuovo Annicchia si rivolse per ajuto alle vicine. Queste allora, un po’ l’una e un po’ l’altra, cercarono di persuadere alla vecchia le ragioni per cui la nuora non avrebbe dovuto perder l’occasione che le si offriva di provvedere onestamente a sé, a lei, al bambino. Una, anzi, ch’era venuta col suo figliuolo in braccio, attaccato a una enorme poppa:

– Qua! qua! guardate, – si mise a gridare, – ho latte per due! Me lo piglio io, il bambino… Qua,

guardate!

E, cavando il capezzolo di bocca al poppante, sollevando con una mano la mammella, fece sprizzare il latte in faccia alle comari del vicinato che, ridendo e riparandosi con le braccia, si scostarono addossandosi l’una all’altra.

Ma la vecchia non volle piegarsi; si ribellò a tutte le insistenze, gridando alla nuora:

– Se vai, è contro la mia volontà, e ti maledico! Ricordatene!

Tutti questi problemi sono risolti, in parte a causa dei mezzi finanziari e la sofisticazione del signor Manfroni e in parte perché Annicchia sembra volere andare: forse certo a causa delle circostanze disperate della sua famiglia… ma il lettore ha anche il senso che lei crede che l’esperienza di Roma sarà un’avventura emozionante.

 

Capitolo II

All’inizio del capitolo II, Ennio Mori attende l’arrivo di Annicchia alla stazione ferroviaria di Roma. Il Mori è un uomo infelice e impaziente. Non è completamente sano.

L’avvocato Ennio Mori aspettava alla stazione l’arrivo del treno da Napoli. Piccolo di statura, magrissimo, con le spalle in capo, sbuffava, impaziente, o si grattava la faccetta ossuta, dalla tinta itterica, invasa e quasi oppressa da una barba nera troppo cresciuta, o si aggiustava le lenti che non volevano reggerglisi sul naso, o si tastava di tanto in tanto le tasche del pastrano e della giacca piene di giornali.

Il Mori si è infelicemente sposato,

Dopo due anni di matrimonio e di dimora in Roma, sua moglie era come uscita or ora da quella tribú di selvaggi dell’estremo lembo della Sicilia: non sapeva né muoversi per casa, né uscir sola per provvedere ai bisogni minuti della famiglia; non sapeva far altro che rimproverar lui dalla mattina alla sera, sempre imbronciata, e punzecchiarlo dove piú si teneva: nella logica, nella logica; e affliggerlo con la piú stupida e odiosa gelosia, non per amore, ma per puntiglio. Non si sentiva amata! E sfido! Che aveva mai fatto, che faceva per essere amata? Se pareva anzi che provasse gusto a farsi odiare! Mai una parola gentile, mai una carezza, mai! e sempre armata di diffidenza, spinosa, dura, arcigna, permalosa. Ah, parola d’onore, aveva fatto un bel guadagno a sposarla!

…e si è sviluppato un tic verbale (“cose da pazzi”) per esprimere la sua frustrazione.

Inoltre, in tasca sempre porta molti giornali, che legge ossessivamente ogni giorno, in parte a seguire gli sviluppi politici dell’Italia e in parte per sfuggire la sua vita a Roma.

Il Mori è convinto che il suo matrimonio travagliato è responsabile della declinazione della sua salute.

– Medicina, – soleva dire. – Mi muovono la bile.

Troppo, però! Eh, glielo aveva detto anche il medico. Troppo, sí, forse; ma poi, non leggendo i giornali, lo spettacolo diretto dell’amenissima vita italiana, la compagnia della moglie, non gli avrebbero guastato il fegato? Meglio dunque i giornali.

Finalmente il Mori incontra Annicchia, che è esauritissima da un viaggio lungo, complicato, fisicamente estenuante, e spaventoso.

Appena Annicchia è stabilita in una vettura, i suoi pensieri tornano alla Sicilia e le conseguenze di ciò che ha scelto di fare.

Annicchia si restrinse, per occupare nella vettura quanto meno posto le fosse possibile. Provava una gran soggezione, seduta lí, accanto al padrone, sola con lui. Ma fu per poco. Era addirittura intronata dal lungo viaggio, dalle tante e nuove impressioni che le avevano tumultuosamente investito la povera anima, chiusa finora e ristretta là, nelle abituali occupazioni dell’angusta sua vita. Non ricordava piú nulla; non pensava, non vedeva piú nulla; sentiva soltanto il sollievo d’esser giunta, finalmente; d’aver superato il terrore della traversata sul piroscafo da Palermo a Napoli, lo sgomento della furia del treno. Ov’era giunta? Si provava a guardar fuori della vettura; ma gli occhi le dolevano. Avrebbe avuto tanto tempo di veder Roma, la grande città dov’era il Papa! Intanto, già si trovava accanto a uno ch’ella conosceva, e tra poco avrebbe riveduto la “signorina sua” e si sarebbe di nuovo sentita quasi nel suo paese. Sorrise. Le si affacciò per un istante al pensiero il figliuolo lontano, la vecchia suocera, ma ne scacciò subito l’immagine per il bisogno istintivo di non turbarsi quel momento di sollievo dopo le lunghe sofferenze angosciose del viaggio.

Annicchia arriva a casa dei Mori e il lettore viene introdotto all’Ersilia, una scandalosamente donna infelice.

– Un corno! – protestò Ersilia. – Che stupide, le donne… Tutte cosí! Ci provate gusto, è vero? a ripetere che noi donne siamo fatte per patire. E a furia di ripeterlo, eccoli qua, i signori uomini, credono davvero, adesso, che nojaltre dobbiamo stare al loro servizio, per il loro comodo e per il loro piacere. Noi le schiave, è vero? e loro i padroni. Un corno!

Ennio Mori, a cui era diretta la botta, ripiegò furiosamente il terzo giornale, sbuffò e uscí dalla camera.

Annicchia guardò la padrona, un po’ impacciata, e disse:

– Anche loro, poveretti, hanno tanti guaj…

– Dormire, mangiare e andare a spasso. Vorrei fare un po’ il cambio, io. Ah, uomo, uomo, e cieco d’un occhio!

Ersilia insiste che Annicchia lava dopo il suo viaggio.

Andrai a lavarti, – aggiunse, rivolgendosi ad Annicchia, – sei tutta affumicata.

Annicchia sporse il capo per guardarsi nello specchio dell’armadio e subito esclamò, con le mani per aria:

– Mamma mia!

Poi viene raccontata una storia per quanto riguarda il viaggio di Annicchia da Napoli a Roma, cioè i seni di Annicchia sono stati dolorosamente gonfie di latte e aveva bisogno di rilasciare la pressione. Come questo è stato fatto è raccontata in modo leggero e divertente.

Il fumo della ferrovia e le lagrime versate alla stazione le avevano insudiciato il volto. Prima d’andare a lavarsi, volle però raccontare alla “signorina sua”, con vivacissimi gesti e frequenti esclamazioni, che facevano sbarrare tanto d’occhi alla serva sorda, le peripezie del viaggio di mare, poi di quello in ferrovia, e come a un certo punto, sentendosi scoppiare il seno per la furia del latte, si fosse messa a piangere come una bambina. I compagni di viaggio le domandavano che avesse; ma ella si vergognava a dirlo; alla fine, quelli capirono; e allora un giovinastro le propose di succhiarle lui il latte – malcreato! – e già le stendeva, ridendo, le mani al petto. Ella, gridando, aveva minacciato di buttarsi dal finestrino del vagone. Ma poi, per fortuna, alla prima fermata del treno, un vecchio ch’era lí accanto a lei, l’aveva condotta a un altro scompartimento, dove c’era una donna che aveva con sé una bambinuccia di tre mesi, misera misera, alla quale finalmente aveva potuto dar latte, sentendosi man mano rinascere.

 

Capitolo III

All’inizio del capitolo III Annicchia ha incontrato e alimentato Leonida, il bambino, per la prima volta.

Tuttavia il lettore viene a sapere che prima che lei è stato permesso di fare questo, Annicchia doveva andare a uno studio di un medico per un’esame. Annicchia non riusciva a capire quale potrebb’essere la preoccupazione.

– C’è bisogno del medico? – disse Annicchia, ridendo. – Non vede come sto?

Era raggiante di salute, fresca e rosea.

Il medico è benevolo ma malinformato: spiega all’Annicchia (che è bionda) che il suo latte non è male, certo, ma non è tanta buona come quella di una bruna.

– Bionda, eh?… bionda… bionda… – diceva, in tanto, il medico che aveva in vezzo ripetere tre e quattro volte di seguito la stessa parola, guardando con aria astratta, come se stentasse ogni volta a fissare il pensiero.

Annicchia, nel vedersi osservata a quel modo, diventò rossa come un papavero.

– Bionda, eh? diciamo, gentilissima signora, – seguitava intanto il medico, – bionda, è vero? gentilissima signora… Bella giovane… bella, e pare sana, anche sana… Ma bruna, eh, bruna, bruna sarebbe stata meglio… Il latte delle brune, sicuro, il latte delle brune… Basta, vediamo un po’.

Un esame fisico da un medico è un’esperienza nuova per Annicchia… uno che sfida la sua modestia. La sua mancanza di raffinatezza ed istruzione è sottolineata.

Fece alzare il capo ad Annicchia e le esaminò le glandule del collo; dopo altre osservazioni, distratto, cominciò a sbottonarle il corpetto. Annicchia, tremante di vergogna, stupita e imbarazzata, cercò di impedirglielo, riparandosi il seno con le mani.

– Cava, eh? cava fuori, – le disse il medico.

Ersilia scoppiò a ridere.

– Perché… perché ri… perché ride, gentilissima signora?

– Ma non vede come si vergogna codesta sciocca? – gli fece notare Ersilia.

– Di me? Io sono il medico!

– Non c’è avvezza, – riprese Ersilia. – E poi le nostre donne, sa, noi siciliane non siamo mica come le donne di qua.

– Ah, – fece subito il medico, – capisco, capisco… so bene, so bene… piú pudibonde, eh? pudibonde… Ma io sono il medico; un medico è come il confessore. Vediamo un po’: spremi tu stessa qualche goccia in questo cucchiajo. Quanto tempo ha il tuo figliuolo?

Quella sera Annicchia riflette sugli eventi della giornata. Lei condivide una camera con Leonida, ma non è comoda con il suo letto (che è di lusso). Il contrasto tra la casa a Roma e la sua casa in Sicilia induce Annicchia a riflettere ancora una volta sulle conseguenze della sua scelta di trasferirsi a Roma.

E si sentí impacciata davanti a quel letto nuovo, cosí bello, apparecchiato per lei. Ricordò allora l’impaccio piú vivo provato, due anni addietro, alla vista di un altro letto, nel quale per la prima volta avrebbe dovuto coricarsi non piú sola: rivide col pensiero la sua casetta lontana, com’era già, allorché Titta, senza quelle ideacce cattive che lo avevano rovinato, aveva messa sú, amorosamente, per le nozze; com’era adesso, squallida e nuda, con due seggiole appena e un letto solo, per lei e per la suocera.

Ora la vecchia laggiú lo aveva tutto per sé, quel letto a due, poiché forse il bambino dormiva in casa della vicina. Povero Luzziddu, cosí piccino, là, fuori di casa, e con la mamma sua cosí lontana! Certo quella donna non poteva aver per lui le cure che aveva per il proprio figliuolo; e Luzziddu, messo da parte, doveva aspettar quieto quel po’ che avanzava: lui, lui che finora aveva avuto tutta per sé la mamma sua!

Annicchia si mise a piangere; ma poi, temendo che qualcuno se n’avvedesse, asciugò le lagrime e, per confortarsi, pensò che lí presso, a guardia, c’era la nonna, la quale, all’occorrenza, avrebbe saputo farsi valere con quel suo fare cupo e imperioso. Degna madre di Titta! Ma buona in fondo, com’era buono Titta; certo col tempo si sarebbe convinta che, se la nuora aveva osato disobbedire, vi era stata costretta dalla necessità e per il bene di tutti.

Annicchia sceglie di dormire sul pavimento.

Ora, per dimostrare quasi a se stessa ch’era stato un sacrifizio il suo e che, nel compierlo, aveva pensato soltanto al bene degli altri e non al suo, avrebbe voluto dormire magari per terra e non lí, su quel letto signorile, sotto quel cortinaggio: il piccino, lí, poiché tutta quella ricchezza era profusa per lui; e lei per terra, come una cagna. Non le dava proprio l’animo di entrare sotto quelle coperte, pensando allo strame su cui giaceva il suo Luzziddu e a quello della suocera.

Poi Ersilia acquista nuovi vestiti per Annicchia, al modo che lei pare appropriatamente vestita per le strade di Roma. Poco dopo una lettera arriva dalla Sicilia con la notizia che la salute della suocera di Annicchia è diminuita e che lei ha bisogno di attenzione. Questa notizia porta ad un lungo dialogo che dimostra quanto sia disfunzionale Ennio e Ersilia sono diventati.

– Il tuo bel consiglio! – scattò Ersilia, ripiegando la lettera. – Non devi farne mai una giusta!

– Io? – rimbeccò Ennio. – E che ho forse scritto alla tua degnissima signora madre che mi scegliesse per balia la nuora d’una pazza furiosa?

– No; ma di volere una balia siciliana! Se non avessi avuto questa splendida idea, non ci troveremmo ora in questi impicci. Del resto, va’ là, va’ là che ti piace, e molto, la balietta siciliana! Già me ne sono accorta.

Il Mori sgranò tanto d’occhi.

– La balia di mio figlio?

– Grida, grida: fa’ sentire tutto di là…

– Prima mi pungi, e poi vuoi che non gridi? Anche gelosa della balia di mio figlio, adesso? Sei pazza?

– Tu sei pazzo! Avessi tu tanto sale qui, quanto ne ho io! Intanto, che si fa? che dobbiamo farne, di questo denaro?

– Non vorrai mica, spero, spiattellarle che sua suocera lo rifiuta.

– Ma figúrati! Darle questo dispiacere? Me ne guarderei bene!

Il Mori perdette la pazienza e, scrollandosi rabbiosamente, andò via.

 

Capitolo IV

All’inizio del capitolo apprendiamo i sentimenti di Ersilia sul suo matrimonio: si sente non amata, trascurata, non apprezzata, indesiderata, da sola. Il matrimonio è ovviamente disfunzionale: cioè c’è un ciclo negativo: mancanza di affetto, denuncia, mancanza di comprensione, mancanza di risoluzione, amarezza e separazione (cioè, Ersilia al suo letto, Ennio al suo ufficio). Il lettore sospetta che il matrimonio è finito.

Quantunque non ricevesse mai visite e di rado uscisse di casa, pure spendeva enormemente per gli abiti, dei quali alla fine restava sempre scontenta, come di tutto e di se stessa. Si sentiva, ed era forse davvero infelice; ma di questa sua infelicità incolpava gli altri, anziché la propria indole scontrosa, l’aspro carattere, la mancanza di ogni garbo. Era convinta che se si fosse imbattuta in un altr’uomo che l’avesse amata e compresa, non avrebbe sentito tutto quel vuoto che sentiva dentro e attorno a sé. Ora le era venuto in uggia finanche il bambino, perché questi dimostrava di voler piú bene alla balia che a lei. E non passava giorno che, anneghittita in quell’ozio, non piangesse di nascosto. Il marito le vedeva qualche volta gli occhi gonfii e rossi, ma fingeva di non accorgersene; schivava quanto piú poteva di parlare con lei, ormai certo che, per quanto dicesse o facesse, non sarebbe riuscito a ispirarle, a comunicarle quell’affetto per la vita, di cui ella sentiva il desiderio smanioso, ma del quale nello stesso tempo la riteneva incapace. Se l’aspettava dagli altri, la vita, senza intendere che ciascuno deve farsela da sé. Del resto, se era infelice, non meno infelice era lui che doveva viverci insieme. Bella esistenza, la sua! Tutto il giorno tappato lí, nello studio. Meno male che, di tanto in tanto, venivano a trovarlo gli amici del partito, coi quali poteva almeno sfogarsi, discutere liberamente.

(Certo, la nascita di Leonida non ha portato Ennio e Ersilia insieme: la cura del bambino non è un progetto che condividono in comune, infatti, una grande ironia della storia è che Annicchia ha rinunciato suo bambino per prendersi cura di Leonida, che in sostanza, è stato dato da Ersilia.)

Un giorno, durante una riunione politica, un uomo vecchio, Felicissimo Ramicelli, che lavora come uno scrivano, lascia la riunione e incontra Annicchia. Il Ramicelli è un cascamorto e lui sembra essere attratto da Annicchia. Tuttavia Annicchia né capisce né prendere seriamente in considerazione le sue azioni.

Invece i pensieri di Annicchia rivolgono a suo figlio.

– Tattica… Farabutti… L’educazione del proletariato… Programma minimo… – Queste e simili espressioni giungevano, di tratto in tratto, agli orecchi del Ramicelli, il quale scoteva malinconicamente il capo e si volgeva piuttosto a guardare verso l’uscio per cui era andata via la balia, e sospirava. Gli giungeva di là, qualche volta, una certa ninna-nanna paesana, che Annicchia cantava con voce dolce e malinconica, forse pensando al suo bambino, e guardando intanto questo che già, col suo latte, s’era fatto grosso e bello, anche piú grosso di quanto aveva lasciato il suo, là! Ah, un gigante, certo, si sarebbe fatto, povero Luzziddu, se ella avesse potuto allattarlo! E invece… chi sa! Le passavano tante brutte ideacce per il capo! Spesso se lo sognava infermo, magro magro, pelle e ossa, col colluccio vizzo e un testone da rachitico che gli s’abbandonava ora su una spalluccia ora sull’altra e gl’ingrossava di punto in punto, mentr’ella stava a contemplarlo, raccapricciata, allibita: – Questo, il mio Luzziddu? cosí s’è ridotto? – E voleva, nel sogno angoscioso, dargli il suo latte, subito subito; ma il bambino allora la guardava con gli occhi cupi, truci della nonna, e voltava la faccia, rifiutando il seno ch’ella gli porgeva. Che strazio! Si destava col cuore in gola, e fino a giorno non riusciva a togliersi dagli occhi l’immagine del figliuolo ridotto in quello stato.

Leonida è ora 6-7 mesi di età; il piano è di svezzarlo dal seno a 9 mesi… quindi il tempo di Annicchia a Roma finirà presto. Sarà doloroso per lei lasciare Leonida.

Poi, purtroppo, Titta Marullo arriva dalla Sicilia con la notizia terribile che il loro figlio, Luzziddu, è morto. C’è uno scontro violento.

Al grido, accorsero il Mori, la moglie, il signor Ramicelli. Titta Marullo, pallido come un morto, si accostò al Mori, gli prese il bavero della giacca e, scrollandoglielo pian piano:

– Mio figlio è morto, sai? Morto! – aggiunse, voltandosi verso Annicchia che aveva cacciato un urlo. – E tu ora, che vuoi fare? Me lo paghi o vuoi darmi il tuo?

– È pazzo! – gridò Ersilia, tremando, spaventata.

Il Mori respinse con un urtone il Marullo, indicandogli la porta, furente nel corpicciuolo nervoso:

– Via! – gridò. – Mascalzone! Esci di casa mia, subito!

– Che fai? – gli disse il Marullo, venendogli avanti, a petto. – Io non ho piú nulla da perdere, bada!

Mia madre è all’ospedale: mio figlio è morto! Sono venuto a sputarti in faccia e a prendermi questa cagna. Sú, alzati! – aggiunse, rivolgendosi alla moglie che stava ancora buttata a terra. Ma, a questo punto, il Ramicelli ch’era scappato via, non visto, ritornò ansante e spaventato, insieme con due guardie di questura, alle quali subito il Mori, che tremava tutto di rabbia, si rivolse, concitatissimo:

– Via! conducetelo via! È venuto a insultarmi, a minacciarmi fino in casa, codesto mascalzone! Le due guardie afferrarono per le braccia il Marullo che cercava di svincolarsi, gridando: – Io voglio mia moglie! – e lo trascinarono via, seguiti dal Mori, che volle recarsi in questura a denunziare l’aggressione patita.

 

Capitolo V

Annicchia è devastata dalla notizia. Si chiede se lei sarebbe responsabile.

Ah se almeno avesse potuto sapere con certezza come, perché fosse morto il suo bambino, se per mancanza di nutrimento o per qualche male non curato. Doveva rassegnarsi cosí, senza saperne nulla, piú nulla? Possibile? Come fosse morto un cagnolino! Oh povero innocente abbandonato, senza la mamma sua accanto, senza il padre, senza nessuno, morto lí, fra mani estranee, oh Dio! oh Dio!

La fine della novella è al tempo stesso tragica — ognuno dei personaggi ha perso tutto, cioè Titta e Annicchia hanno perso il loro figlio, Annicchia ha anche perso Leonida, Ennio e Ersilia hanno perso il loro matrimonio e sembrano incapaci di sollevare il loro figlio — e anche ironica:

– Il commento penultimo appartiene a Ennio, che cerca di trovare una soluzione politica/scolastica alla povertà in Italia.

E il Mori gli porse da ricopiare le cartelle già scritte della conferenza.

Poi seguitò:

“L’eguaglianza tra gli uomini secondo il socialismo, come diceva il Malon, si deve intendere quindi in un duplice senso relativo: 1° che tutti gli uomini, perché tali, abbiano assicurate le condizioni dell’esistenza; 2° che quindi gli uomini siano uguali nel punto di partenza alla lotta per la vita, sicché ognuno svolga liberamente la propria personalità a parità di condizioni sociali; mentre ora il bambino che nasce sano e robusto, ma povero, deve soccombere nella concorrenza con un bambino nato debole ma ricco…”

– L’ultimo commento, tuttavia, è quello del vecchio uomo (il Pirandello!) che sembra chiaramente sprezzante degli sforzi di Ennio.

– Signor Ramicelli!

– Avvocato!

– Che ha? È impazzito? Perché ride cosí?

Forse ciò che sta dicendo il Pirandello è che è folle (“cose da pazzi”) pensare che il governo sarebbe in grado d’avere una soluzione per i poveri della sud d’Italia!

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