Riassunto: Lo spirito maligno

Lo spirito maligno (L. Pirandello) è un commento sofisticato ed ironico e divertente della vita d’un siciliano, Carlo Noccia, mentre si sforza di costruire una reputazione (ed una carrier) in un ambiente altamente competitivo. È facile immaginare che il Pirandello stesso ha vissuto una versione della storia del Noccia (con un risultato diverso, ovviamente) e che la novella contiene frammenti di tanti ricordi personali, sia buoni e cattivi.

All’inizio della novella apprendiamo che il Noccia ha lasciato la Sicilia per l’Africa circa 7 anni prima. Ha lottato là come un comerciante, e dopo una notevole periodo di determinazione e sforzo, ci viene detto che ha realizzato una sorta di successo.

Al ritorno in Sicilia il Noccia ha tentato di ricreare il suo successo dell’Africa. Il secondo paragrafo della novella ci spiega tutto che abbiamo bisogno di conoscere sulla personalità e il carattere del Noccia.

Ritornato in Sicilia, per non apparire ingenuo in mezzo ai commercianti suoi compaesani, produttori e sensali d’agrumi e di zolfo, gente ladra, usa a combattere tra le insidie e con ogni sorta d’inganni, provò il bisogno di lasciar loro intendere che con quelle stesse arti egli aveva guadagnato colà il suo danaro. Dovette insomma confarsi al modo di pensare di quelli e disonorar le sue fatiche e il frutto di esse per aver pregio e considerazione agli occhi loro.

(Il Noccia sembra avere una buona comprensione della competizione, cioè, dei Siciliani che dovrà aver affrontare per realizzare un nuovo successo; i suoi obiettivi sono chiaramente indicati… vuol’essere accettato e rispettato come un comerciante)

Dopo l’introduzione del Noccia siamo introdotti, in meraviglioso dettaglio vivido e con notevole chiarezza (la descrizione è un’opera d’arte), alla sua caotica piccola città portuale siciliana ei suoi abitanti.

E s’aggirò, faccente, con l’aria d’un furbo matricolato, in mezzo al traffico rumoroso del piccolo porto di mare, tra i grandi depositi di zolfo accatastati su la spiaggia; a bordo dei piroscafi d’ogni nazione, tra marinai e interpreti e scaricatori e stivatori, aspirando con voluttà l’odor del catrame e della pece, mentre gli occhi gli lacrimavano bruciati dalla polvere dello zolfo diffusa nell’aria. Stordito dai gridi dei barcaioli e dei facchini del porto, tra un continuo sbaccaneggiar di liti, e i fischi delle sirene e il fumo delle macchine, credette sinceramente che la necessità d’ingannare, i cattivi pensieri venissero dal fermento stesso di quella vita esagitata, esalassero dalle bocche delle stive, dall’acqua stessa del mare sporca di zolfo e di carbone, dal muffido pacciame delle alghe secche su la spiaggia solcata, scavata dal transito incessante dei carri striduli, carichi di minerale; credette sinceramente ch’egli, senza volere, vivendo lí, respirando in quell’aria, avrebbe appreso quell’arte in poco tempo; e fu felicissimo quando poté aver la dimostrazione che già gli altri credevano che non avesse piú bisogno d’apprender altro.

Poi veniamo a sapere che il Noccia è stato assunto come un capo presso una società dell’esportazione. Il proprietario della società era un giovanotto inesperto e ambizioso, ma il suo cuore non è con la società (i suoi studi universitari sono stati sospesi quando suo padre è morto e lui era costretto a tornare a casa e gestire la società). In realtà il giovanotto prevede di campagna per una carica politica, e la combinazione di ambizione, ignoranza e ingenuità lo porta fuori strada… ècaduto preda di un proposto da uno degli imprenditori locali di maggior successo: lo schema è presentato come un piano per prendere controllo delle esportazioni di zolfo, che potrebbe renderlo incredibilmente ricco e giustamente famoso. Al contrario però lo schema è progettato per consentire il Grao (un grande uomo d’affari locale) accesso alle risorse dalla società, le quale ha assorbito e dirottate fino a quando la società è in bancarotta.

Naturalmente, diventò subito preda dei piú furbi speculatori di piazza, e segnatamente di un certo Grao, il quale cominciò a irretirlo in una vasta impresa da tentare col nobilissimo scopo di allibertare il commercio dello zolfo dallo sfruttamento delle case estere d’esportazione che avevano sede nei maggiori centri dell’isola; impresa per cui egli, in poco tempo, centuplicando le sue ricchezze (e diceva poco!) avrebbe avuto gloria di salvatore dell’industria zolfifera siciliana, e sarebbe stato eletto sindaco subito, senza alcun dubbio.

Il Noccia ammirava sopra tutti questo Grao; lo teneva in conto d’un oracolo. Forse, a destare in lui tanta ammirazione e cosí cieca fiducia aveva gran parte una figliuola, che costui aveva, bellissima, e della quale egli si era innamorato. Il fatto è che quando il Grao gettò in quella vasta impresa il suo principale, e questi domandò a lui, suo magazziniere e amministratore, consigli e schiarimenti sui giuochi ora al rialzo ora al ribasso a cui quegli lo esponeva, egli, con la massima buona fede, gli dette sempre quei consigli e quegli schiarimenti che il Grao di nascosto e senza parere gli aveva suggeriti. Se non che, sempre, alla scadenza degli impegni, il suo principale, se aveva giocato al ribasso, s’era trovato di fronte a uno spaventoso rialzo, e viceversa; sicché in meno d’un anno era stato liquidato.

Al tempo del ‘giuoco inverso’, Carlo Noccia era in timore riverenziale dalla reputazione del Grao. Quindi il Noccia era ingannato altrettanto male dallo schema del Grao come il giovanotto. (Entrambi gli uomini sono giovani, ambiziosi e inesperti.)

Un disastro: una volta che la società dell’esportazione ha fallito, la reputazione del Noccia come un uomo d’affari senza scrupoli e scaltro (cioè, qualcuno degno di rispetto) è stata completamente distrutta.

Nessuno volle credere alla buona fede del Noccia. Come mai non s’era accorto che il Grao faceva volta per volta di soppiatto il giuoco inverso?

Non se n’era accorto, perché anche lui credeva a occhi chiusi che quella vasta impresa commerciale, se non proprio centuplicato, avrebbe certo accresciuto di molto le ricchezze del suo principale. Al primo, al secondo, al terzo colpo fallito, credette sinceramente alla disperazione del Grao, e che nel nuovo giuoco proposto fosse la salvezza e il rifacimento dei danni.

Dopo la bancarotta Carlo Noccia ha sofferto una notevole perdita economica… con una sola eccezione: lui si è innamorato della figlia del Grao e il Grao ha approvato il matrimonio.

Del resto, ad attestar la sua buona fede stava il fatto che alla fine nella rovina del suo principale egli vide anche la sua: perduto il posto e, quel che piú gli dolse, anche la speranza di far sua la figlia del Grao; e che si sentí come cascar dalle nuvole allorché il Grao gli venne avanti con le braccia aperte per ringraziarlo di quanto aveva fatto.

Ciònonostante il Grao non ha fatto illusioni sul carattere del Noccia: come gli ha spiegato, senza mezzi termini, la natura del Noccia semplicemente non era abbastanza duro né abbastanza spietato per competere e vincere in Sicilia.

Protestò allora, di fronte al Grao stesso, la sua innocenza e la sua buona fede ma quegli, ammiccando furbescamente e battendogli una mano sulla spalla, gli fece intendere che lo riteneva, anche per quella protesta, suo degno compare, anzi suo degno genero; e un’altra cosa gli fece intendere: che nessuno lo avrebbe lodato di non essersi approfittato del suo posto e di quel giuoco per arricchire, e che anzi sarebbe stato stimato da tutti uno sciocco, un buono a nulla, proprio come quel suo principale e degno come questo d’esser giocato e poi buttato là in un canto con una pedata.

Il Noccia ha beneficiato economicamente dal suo matrimonio; al tempo stesso ci si pone un senso d’ingiustizia, cioè, un consenso degli altri abitanti dalla città portuale che il Noccia non ha guadagnato la sua ricchezza in modo equo. Come tale la sua reputazione ha sofferto ancora una volta. (Può essere vero che molti degli ex impiegati della società d’esportazione sono rimasti dannati economicamente dalla bancarotta. Se questo fosse vero, sarebbe comprensibile che la buona fortuna del Noccia porterebbe dagli altri la rabbia, la gelosia e l’odio.

Avvenne intanto che per invidia dell’agiatezza che gli era venuta da quelle nozze con la figlia del ricchissimo speculatore, si vide addosso inaspettatamente l’odio feroce di tutti i suoi compaesani. Presero a chiamarlo Giuda e a stimarlo capace d’ogni infamia, di ogni perfidia e ad avvelenargli con questa stima anche l’amore per la sposa.

Forse sia facile da capire questi atteggiamenti nei confronti d’un uomo che è considerato indegno e uno scemo. Quello che è meno evidente però è la spiegazione perché la stessa rabbia e lo stesso odio non sono stati anche diretti al Grao. (Infatti lui sembra avere il rispetto di coloro che ha fatto male! Forse la sua ricchezza, il suo potere, la sua crudeltà, il suo successo e la sua intelligenza (cioè la sua furbizia) siano malincuore ammirati dai siciliani?)

Alla fine le varie opinioni su Carlo Noccia sono unite in una potente forza negativa, cioè, una comprensione comune attraverso la città portuale (che il Pirandello si riferisce come uno spirito maligno).

Il Noccia cominciò a credere allora all’esistenza d’un certo spirito maligno nato e nutrito dall’odio, dall’invidia, dal rancore, dai cattivi pensieri e insomma da tutto il male che ci vogliono i nostri nemici; uno spirito maligno che ci sta sempre attorno agile vigile e pronto a nuocerci, approfittando dei nostri dubbi e della nostra perplessità, con spinte e suggerimenti e consigli e insinuazioni che hanno in prima tutta l’aria della piú onesta saggezza, del piú sennato consiglio, e che poi tutt’a un tratto si scoprono falsi e insidiosi, sicché tutta la nostra condotta appare all’improvviso agli occhi altrui e anche ai nostri stessi sotto una luce sinistra, dalla quale non sappiamo piú, cosí soprappresi, come sottrarci.

Credo che il potere della propria reputazione è il punto della novella: il messaggio del Pirandello sembra essere che in un ambiente competitivo come la Sicilia, solamente i forti ei spietati sopravvivono e diventano rispettati per i loro successi… anche dalle persone che danno! D’altra parte, i deboli—gli stolti e gli inesperti—diventano isolati, denunciati, odiati, disprezzati. La fine della novella sembra essere un ammonimento: è migliore giocare di vincere, a tutti i costi, la partita della vita quotidiana.

Dopo un po’ il Noccia soccombe alla pressione dello spirito maligno. Fa degli errori al lavoro (presumibilmente a causa di ansia) e questi lo portano i reclami vendicativi, gli azioni legali, le multe e il risarcimento ai lavoratori che sono stati torto. Alla fine il Noccia diventa esausto dalle lamentele: si reca a Roma per cercare il sostegno d’un amico che potrebbe avere la capacità di difenderlo in tribunale.

Certo era stato questo spirito maligno a fargli sbagliare quel conto.

E intanto, ecco qua, anche capace d’approfittarsi di poche centinaja di lire a danno d’un poveretto lo avevan creduto i suoi compaesani. E d’allora in poi ciascuno s’era sentito in diritto di negargli quel che gli doveva, sicché per riavere il suo si vedeva ogni volta costretto a intentare una lite.

Ora, per una di queste liti, che da un pezzo si trascinava nei tribunali e che forse il Noccia, stanco e avvilito, avrebbe volentieri mandato a monte, se la rabbia non lo avesse forzato a dimostrare ancora una volta che la giustizia stava dalla sua, eccolo in viaggio per Roma a sollecitare di persona il patrocinio del deputato del suo collegio.

Aveva già quarantasette anni, e l’animo gli s’era profondamente incupito per tutta quella guerra d’odio e di invidia.

In questo momento la novella prende una volta improvvisa verso l’umorismo, l’ironia e la farsa.

Il Noccia arriva a Roma ed è sopraffatto dalla bellezza e grandezza (abbastanza presto, dimentica i suoi guai). Un giorno fatidico, entra in un piccolo bar per un caffè e un po’ di solitudine. Ad un certo punto scorge una borsetta che è stata lasciata alle spalle da qualcun altro cliente.

C’erano pochi avventori e molte mosche. Il Noccia ordinò una tazza di birra e stese la mano al tavolino accanto per prendere un giornale che vi stava posato. Ma le mosche lo tormentavano. Per cacciarne una, sfondò il giornale; voleva ripagarlo, ma il padrone non permise; per cacciarne un’altra, per poco non rovesciò la tazza di birra. Smise allora di leggere e, sbuffando, allungò le mani sulla panca imbottita di cuojo; ma subito ne ritrasse una, la destra, che aveva toccato qualche cosa, e si voltò a guardare.

Era una vecchia borsetta, evidentemente lasciata lí da qualche avventore.

Carlo Noccia è curioso… cos’è dentro? (Si può facilmente immaginare la scena di un film o uno spettacolo teatrale.) Lui considera la possibilità di dare la borsetta al barista, ma decide che quest’uomo non può essere attendibile. Alla fine la sua curiosità ha il meglio su di lui e guarda dentro la borsetta… sembra essere una piccola somma di denaro.

Forse era vuota. Se non vuota, che poteva mai contenere? pochi soldi, qualche lira d’argento. E il Noccia rimase un pezzo perplesso, se prenderla o farla prendere dal caffettiere, perché la restituisse al proprietario, se fosse venuto a cercarla. Guardò il caffettiere dietro il banco. Non gli parve che avesse faccia da restituir la borsetta, se ci fosse dentro qualche cosa. Forse sarebbe stato meglio accertarsene, prima. Allungò cautamente la mano e la prese. Pesava. L’aprí un poco; vi intravide una piastra d’argento e due monetine da due centesimi. Tornò a guardare il caffettiere, e non ebbe alcun dubbio che quella piastra e quelle due monetine sarebbero andate a finire nella ciotola dentro il banco.

Ora che cosa? Carlo Noccia ricorda di aver letto una storia locale di un buon samaritano che ha restituito alla polizia una notevole quantità del denaro che l’ha trovata. Nell’articolo è stato lodato il samaritano per la sua generosità e onestà, e inizialmente il Noccia è attratto a questo tipo di fama. Si rende conto ben presto però che probabilmente sarebbe stato chiamato in un articolo che descrive la sua onestà, e che probabilmente l’articolo sarebbe essere letto da un conoscente in Sicilia. Anche probabilmente il conoscente potrebbe pensare che il Noccia è un scemo per non tenere i soldi per se stesso! Un altro disastro!

OK, ora che cosa? Dopo che rifiuta l’idea di restituire la borsetta, si rende conto che ha bisogno di nasconderla—per proteggerla dalle persone senza scrupoli! Quindi mette la borsetta in tasca, e a questo punto il suo destino è segnato. Il Noccia è uno scemo dopo tutto!

Poi il Noccia decide che la borsetta non vale la pena, ma proprio mentre sta per toglierlo dalla tasca, arriva la proprietaria della borsetta!

E stava per trarre dal taschino la borsa, quando entrò di furia nel caffeuccio e s’avventò verso il suo tavolino una sudicia vecchia dalla faccia aguzza, che soffiava come un biacco, col naso da civetta e il muso irto di grigi peluzzi, tirandosi via dagli occhi i capelli lanosi, scarmigliati sotto il decrepito cappellino annodato al mento.

– C’è lí la borsetta! la mia borsetta! l’ho lasciata lí.

Subito il Noccia diventa sotto sospetto dalla vecchia, ma scredita le sue accuse.

Cosí investito, il Noccia guardò la grinta della vecchi, e subito concepí il sospetto che, essendosi egli messo in tasca la borsetta, quella dovesse ritener per certo che avesse voluto appropriarsela, e allora le rivolse un sorriso vano da scemo, e si finse ignaro: – Una borsetta? dove? – E prima si scostò e poi si alzò per farla cercar bene; e quando la vecchia, dopo aver cercato su la panca, sotto la panca tra i piedi dei tavolini con irosa smania che lasciava intender chiaramente quel sospetto, levò l’arcigna faccia e gli domandò, squadrandolo biecamente: – Lei non l’ha trovata? – egli, che pur si struggeva di non poter piú ormai cacciarsi due dita in tasca per restituirgliela, ebbe naturalmente, per quello stesso struggimento, un fiero scatto e, arrossendo fin nel bianco degli occhi, le rispose:

– Siete matta?

Il caffettiere e i pochi avventori gli diedero ragione e, appena la vecchia piangendo e brontolando se ne fu andata, gli dissero che era una poveraccia da compatire, mezzo svanita di cervello e stordita sempre dal caffè e dai liquori che ingozzava, dacché le era morta all’ospedale l’unica figliuola. Il Noccia ora si sentiva su le spine; voleva subito pagare e andar via. Intanto, aveva messo la borsetta della vecchia nello stesso taschino ove teneva la sua. Se nel cavar questa, fosse venuta fuori anche quell’altra? si sentiva tutto il sangue alla testa, e gli occhi gli brillavano come per febbre. Trasse dalla tasca in petto il portafogli gonfio di carte da cento.

Il Noccia lascia il bar. Vuole liberarsi della borsetta, ma esita… per esaminare ulteriormente la situazione (l’esitazione mostra al lettore esattamente ciò che già conosce: il Noccia non è sufficientemente spietato per avere un successo in Sicilia).

Ed egli non trovò la voce per rispondergli; disse di no, col capo. Uno degli avventori si profferse di cambiar lui il biglietto, e il Noccia, lasciando una mancia di cinque lire, uscí dal caffeuccio. Appena fuori, il suo primo pensiero fu quello di buttar via la borsetta in qualche angolo nascosto. Ma quell’ultima notizia che gli avevano dato della vecchia nel caffè, che ella cioè era una poveretta mezzo impazzita per la morte della figliuola, gli fece stimare piú che mai indegno quell’atto. Pur ammesso che la vecchia avesse avuto il sospetto ch’egli volesse tenersi la borsetta trovata, questo sospetto in fondo non era ingiusto, poiché egli veramente, contro la sua volontà, ridendo prima come uno scemo, poi scostandosi e alzandosi per farla cercar lí nel posto, aveva agito come se in realtà avesse voluto appropriarsi quella borsetta. E buttandola via, ora, non avrebbe avuto sempre la colpa della sottrazione? L’avrebbe trovata un altro, che non avrebbe sentito l’obbligo di restituirla, l’obbligo che ne aveva lui, lui che conosceva a chi essa apparteneva e gliel’aveva negata in faccia. No, no: buttarla via sarebbe stato un atto anche piú vile di quel che aveva dianzi commesso. Pensò allora che quei pochi avventori del caffeuccio e il caffettiere avevano dovuto accorgersi dal suo portafogli ben fornito ch’egli era un signore, un signore il quale poteva permettersi il lusso d’offrire a quella povera vecchia un compenso di dieci o venti lire per la borsetta perduta. Ecco, sí. Avrebbe lasciato al banco venti lire alla presenza di quei testimoni, o avrebbe domandato al caffettiere l’indirizzo della vecchia per recarsi lui stesso a dargliele.

La vecchia ritorna.

E il Noccia ritornava con questo proposito sui proprii passi, quand’ecco, lí presso l’entrata del caffeuccio, di nuovo la vecchia che, tenendosi con ambo le mani i cerfugli lanosi spioventi su gli occhi, andava curva e piangente, guardando in terra, ancora in cerca della sua borsetta.

Il Noccia sta per trarre dalla tasca 20 lire (per dare alla vecchia; un atto di gentilezza). Ma lei si rende conto che il Noccia ha rubato la borsetta che in realtà contiene 40 lire!

Il Noccia la fermò, toccandole lievemente una spalla, trasse dal portafogli due biglietti da dieci lire e, tutto commosso per la buona azione che faceva, glieli porse, balbettando che li accettasse per la perdita sofferta. Ma si vide tutt’a un tratto acciuffato dalla vecchia, la quale, scrollandolo furiosamente, si mise a strillare:

– Venti lire? A chi le dai? Ah, ladro! E il resto? Venti lire sole mi dai? Al ladro! al ladro!

Di sicuro il Noccia è detenuto, ridicolizzato, e trascinato in prigione dalla polizia.

Ma anche cento lire, anche duecento, anche mille, gliene avrebbe date ora il Noccia. E cavava dalla tasca il portafogli. Se non che, anche quel portafogli, come la borsetta, siamo giusti, poteva ormai credersi rubato. E il Noccia fu trascinato in questura.

La lezione di quello che ci vuole un siciliano per sopravvivere in questo mondo è rinforzata.

Ora, è certo che a un ladro non passa per il capo di restituire una parte del suo furto. Ma anche generalmente si crede che neppure a un galantuomo possa passare per il capo di mettersi in tasca una borsetta che non gli appartiene, e di negarlo poi in faccia, cosí come il Noccia aveva fatto. Bisognava dunque trattenerlo in arresto e domandare ragguagli in Sicilia sul conto di lui. Non sarebbe stato serio prestar fede alla persecuzione di un certo spirito maligno, di cui quell’arrestato farneticava.

 

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