Riassunto: Tutt’e tre

Ballarò venne su strabalzoni dal giardino agitando in aria, invece delle mani, le maniche; perduto come era in un abito smesso del padrone.

– Maria Santissima! Maria Santissima!

La gente si fermava per via.

– Ballarò, che è stato?

Non si voltava nemmeno; scansava quanti tentavano pararglisi di fronte, e via di corsa verso il Palazzo del Barone, seguitando a ripetere quasi a ogni passo:

– Maria Santissima! Maria Santissima!

Inizia così Tutt’e tre (L. Pirandello), che assomiglia, a mio parere, una ‘commedia di costume’.

Una commedia di costume (da Wikipedia) è “… un intrattenimento che satira i costumi e le affettazioni di una classe sociale, spesso rappresentato dai personaggi stereotipi.”

In Tutt’e tre il Pirandello certamente osserva e illustra i costumi e affettazioni di una classe sociale, in questo caso, vale a dire, i ricchi, cioè, la nobiltà siciliana così come i siciliani nuovi ricchi. Tuttavia, non credo che l’intenzione di Pirandello è o ridicolizzare o satirare i suoi personaggi. Più volte abbiamo visto come intimamente il Pirandello capisce i suoi connazionali (diversi come possano essere gli italiani); inoltre, probabilmente è giusto dire che non ci sia un gruppo degli italiani e una regione d’Italia che capisca meglio lui che i siciliani e la Sicilia. A mio parere il Pirandello non ride mai ai suoi connazionali (credo che ama e ammira loro troppo ad adottare un tale atteggiamento; invece ride con loro, unirsi a loro come si fanno strada in avanti, come meglio possono, in una vita che è spesso difficile e straziante.

Credo anche che il Pirandello ha un obiettivo diverso da quello di un satirico. A mio parere ciò che Pirandello si sforza di fare nelle novelle è spiegare come i suoi personaggi pensano e come rispondono agli eventi nella loro vita. Il suo obiettivo, credo, è che voglia mostrare il potere della mente, cioè, quanto sia centrale la nostra mente conscia e subconscia siano per la salute e il benessere di tutti gli umani esseri.

***

LUCI … CAMERA … AZIONE!

Tutt’e tre è una dei più teatrale delle novelle — si può facilmente immaginare, come la scena di apertura di uno spettacolo teatrale o un film, Ballarò attraversando la città gridando “Maria Santissima!” a se stesso.

(Io non sono sicuro perché, ma quando leggo il Pirandello mi capita spesso di immaginare un film interpretato da Cary Grant! Paola, fai a fare lo stesso?)

In ogni caso, a causa di qualche tragedia, Ballarò corre frenetecamente attraversa la città in malato-montaggio vestiti di seconda mano. Fa strada su una collinetta a un palazzo e crolla al suo arrivo. Prende fiato e poi annuncia che il Barone ha subito un disturbo.

Quella corsa in salita, alla fine, e l’enormità della notizia che recava alla signora Baronessa lo stordirono tanto che, subito com’entrò nel palazzo, ebbe un capogiro e piombò sulle natiche, tra attonito e smarrito. Trovò appena il fiato per annunziare:

– Il signor Barone… correte… gli è preso uno sturbo… giú nel giardino…

Siamo poi introdotto alla moglie del Barone, la donna Vittoria Vivona, la Baronessa, protagonista della novella, che mostra una vera e propria preoccupazione per il benessere del marito.

– È morto, Ballarò? Oh Madre santa! Oh San Francescuccio di Paola, santo mio protettore, non me lo fate morire!

‘Intrecciata’ in quest’introduzione è una descrizione della Baronessa, una donna di grandi dimensioni e, a dir la verità, poco attraente. Ha grandi mani (“grosse mani”), un grande corpo (“balzò in piedi, quant’era lunga”), una fortissima voce maschile (“un tal grido che per poco ne tremarono i muri dell’antico palazzo baronale”), un grande addome (“e sussulto tutta nel ventre”), grossi seni (“nelle enormi poppe”), capelli grossolani (“i ruvidi capelli”), grandi occhi (“occhi bovini”), e una grande faccia (“sul faccione giallastro”). La Baronessa ha addirittura le grandi lentiggini (“grosse lentigini”)!

La Baronessa, insieme a Ballarò e un gruppo delle serve, corrono dal palazzo in aiuto del Barone. Si tratta di un gruppo disorganizzato a dir lo meno: nessuno, certamente, è adeguatamente vestito per un giro nelle strade della città.

Seguita da quelle e preceduta da Ballarò, col fagotto delle molte sottane tirato sú a mezza gamba, si lasciò andare traballando patonfia per la scala del palazzo; e per un tratto, scordandosi di riabbassar quelle sottane, attraversò le vie della città con gli sconci polpacci delle gambe scoperti, le calze turchine di cotone grosso e le scarpe con gli elastici sfiancati, il busto strappato e le poppe sobbalzanti alla vista di tutti; mentre, stringendo nel pugno la medaglina, seguitava a gemere col vocione da maschio:

– San Francescuccio di Paola, santo padruccio mio protettore, cento torce alla vostra chiesa! fatemi la grazia, non me lo fate morire!

Vocione del maschio? Questo è forse il più esplicito degli indizi / indicazioni che informano il lettore del orientamento sessuale della Baronessa? (È una lesbica o forse bisessuale?)

Lungo la strada, Ballarò riflette sulla confusione e il disordine.

Ballarò, battistrada, alleggerito ora dal peso della notizia, quasi rideva, da quello scemo che era, per la soddisfazione d’essere uno di casa, in una congiuntura come quella, che attirava la curiosità della gente. Rispondeva a tutti:

– Sturbo, sturbo. Niente. Un piccolo sturbo al signor Barone. – Dove? Nel giardino di Filomena.

Poi è rivelato che si trova il Barone nel giardino di Filomena… questa rivelazione funziona per mettere in pausa la trama, in modo da fornire al lettore qualche informazione di base ed introdurci ad alcuni caratteri aggiuntivi.

Per esempio, Filomena è una vecchia amica, un’amante, e una consulente del Barone, qualcuna che lui visita ogni giorno per qualche ora. Qualche tempo fa, il Barone le ha dato un pezzo di terra con alberi da frutto. Dopo l’acquisizione, Filomena ha creato un giardino di fiori e ortaggi vicino al frutteto.

E tutti si davano a correre dietro alla Baronessa, senz’alcuna maraviglia che ella si recasse a vedere il marito là, nel giardino di quella Filomena, che per tanti anni era stata notoriamente “la femmina” del Barone, e dalla quale egli – ormai da vecchio amico – soleva passare ogni giorno due o tre ore del pomeriggio, amoroso dei fiori, dell’orto, degli alberetti di pesco e di melagrano di quel pezzo di terra regalato all’antica sua amante.

Poi il Pirandello spiega le circostanze del primo incontro del Barone e la Baronessa. Il padre della Baronessa era uno dei siciliani nuovi ricchi a causa della scoperta di un enorme quantità di zolfo nella sua proprietà. Subito dopo la scoperta, ha venduto i diritti per lo zolfo a una società belga che, presumibilmente, ha gestito l’operazione di estrazione. Nel corso di 20 anni, il suo padre è diventato ricchissimo… ma non ha mai pienamente adattato al suo nuovo stile di vita.

Circa dieci anni addietro, questo barone, Don Francesco di Paola Vivona, era salito a un borgo montano, a pochi chilometri dalla città, con la scorta di tutti i suoi nobili parenti a cavallo.

Re di quel borgo era un antico massaro, il quale aveva avuto la fortuna di trovare nelle alture d’una sua terra sterile, scabra d’affioramenti schistosi, una delle piú ricche zolfare di Sicilia, accortamente fin da principio ceduta a ottime condizioni a un appaltatore belga, venuto nell’isola in cerca d’un buon investimento di capitali per conto d’una società industriale del suo paese.

Senza un mal di capo, quel massaro aveva accumulato cosí, in una ventina d’anni, una ricchezza sbardellata, di cui egli stesso non s’era mai saputo render conto con precisione, rimasto a vivere in campagna da contadino tra le sue bestie, coi cerchietti d’oro agli orecchi e vestito d’albagio come prima. Solo che s’era edificata una casa bella grande, accanto all’antica masseria; e in quella casa s’aggirava impacciato e come sperduto, la sera, quando veniva a raggiungere, dopo i lavori campestri, l’unica figliuola e una vecchia sorella piú zotiche di lui e cosí ignare o non curanti della loro fortuna, che ancora seguitavano a vender le uova delle innumerevoli galline, davanti al cancello, alle donnicciuole che si recavano poi coi panieri a rivenderle in città.

Siamo poi introdotti alla Baronessa, cioè, “La figlia Vittoria – o Bittò, come il padre la chiamava.” Era ben noto che la Vittoria aveva poco interesse per la vita di suo padre in campagna.

La figlia Vittoria – o Bittò, come il padre la chiamava, – rossa di pelo, gigantesca come la madre morta nel darla alla luce, fino a trent’anni non aveva mai avuto un pensiero per sé, tutta intesa, col padre, ai lavori della campagna, al governo della masseria, alla vendita dei raccolti ammontati nei vasti magazzini polverosi, di cui teneva appese alla cintola le chiavi, bruciata dal sole e sudata, sempre con qualche festuca di paglia tra i cerfugli arruffati.

Il Barone è arrivato a sposare la Vittoria e tornare con lei per il suo palazzo nella città: “Da quello stato la aveva tolta per condurla in città, baronessa, don Francesco di Paola Vivona.”. (È probabilmente vero che loro non si fossero mai incontrati prima… mamma mia! dalla prospettiva di un lettore moderno, alcune cose sembravano essere più semplici prima!) Il Barone è descritto come un playboy (impraticabile e poco serio sulla vita). Lui è senza un soldo, dopo aver sprecato una fortuna; è anche un estroverso e molto popolare — ben voluto dai tutti suoi concittadini che lo hanno scelto di essere il loro sindaco.

Gran signore spiantato e bellissimo uomo, costui, degli ultimi resti della sua fortuna s’era servito per comperarsi una magnifica coda di pavone; il prestigio, voglio dire, di una pomposa appariscenza, per cui era da tutti ammirato e rispettato e in ogni occasione chiamato all’onore di rappresentar la cittadinanza, che piú volte lo aveva eletto sindaco.

Come tutti gli altri, la Vittoria era altrettanto affascinato dal Barone e ha accettato di sposarlo anche se lei ha dovuto pagare per il matrimonio e poi per la loro vita insieme. (La sua capacità di farsi strada in avanti nella vita come lei ritiene più opportuno era una fonte del orgoglio.)

Donna Bittò n’era rimasta abbagliata fin dal primo vederlo. Aveva subito compreso per qual ragione fosse stata chiesta in moglie, e anziché adontarsene, aveva stimato piú che giusto, che una donna come lei pagasse con molti denari l’onore di diventare, anche di nome soltanto, Baronessa, e moglie d’un uomo come quello.

Poi veniamo a sapere che il matrimonio manca l’intimità. Ad esempio la Baronessa e il Barone non dormono insieme,

– Cicciuzzo è barone! Cicciuzzo è uomo fino! Non può dormire con me, Cicciuzzo! – diceva alle serve che le domandavano perché, moglie, da dieci anni si acconciava a dormir divisa dal marito. -Dorme come un angelo Cicciuzzo il barone; non si sente nemmeno fiatare; io dormo invece con la bocca aperta e ronfo troppo forte; ecco perché!

…e il Barone l’ha ripetutamente tradita. La Baronessa razionalizza l’infedeltà.

Convinta com’era di non poter bastare a lui, di non aver niente in sé per attirare, non già l’amore, ma neanche la considerazione di un uomo cosí bello, cosí grande, cosí fino, paga e orgogliosa della benignità di lui, non si dava pensiero dei tradimenti se non per il fatto che potevano nuocergli alla salute. Che tutte le donne desiderassero l’amore di lui, le solleticava anzi l’amor proprio; era per lei quasi una soddisfazione, perché infine la moglie era lei, davanti a Dio e davanti agli uomini; la Baronessa era lei; lei aveva potuto comperarselo, questo onore, e le altre no. C’era poco da dire.

(Anche in questo caso la mia interpretazione è che l’orientazione sessuale della Baronessa spiega la natura non convenzionale del matrimonio.)

L’unica cosa che ha inasprito la Baronessa è il fatto che non ha avuto l’opportunità di fornire il marito con un figlio. Apprendiamo che il Barone è stata introdotta, probabilmente da Filomena, a Nicolina, la figlia d’un uomo che tende il suo giardino. Filomena e il Barone probabilmente hanno cospirato a sedurre / allettare / adescare / invogliare la Nicolina, che rimase incinta e che, 2 mesi prima, ha dato alla luce un figlio.

Una sola cosa, in quei dieci anni, la aveva amareggiata: il non aver potuto dargli un figliuolo, a Cicciuzzo il barone. Ma saputo alla fine che egli era riuscito ad averlo da un’altra, da una certa Nicolina, figlia del giardiniere che aveva piantato e andava tre volte la settimana a curare i fiori nel giardino di Filomena, anche di questo s’era consolata. E tanto aveva detto e fatto, che da due mesi Nicolina era col bambino nel palazzo, ed ella la serviva amorosamente, non solo per riguardo di quell’angioletto ch’era tutto il ritratto di papà, ma anche per una viva tenerezza da cui subito s’era sentita prendere per quella buona figliuola timida timida e bellina, la quale certo per inesperienza s’era lasciata sedurre da quel gran birbante di Cicciuzzo il barone e dalle male arti di quella puttanaccia di Filomena. La voleva compensare della gioja che le aveva dato, mettendo al mondo quel bambinello tant’anni invano sospirato dal Barone. Poco le importava che gliel’avesse dato un’altra. L’importante era questo: che ormai c’era e che era figlio di Cicciuzzo il barone.

Incredibilmente, in questo momento Nicolina vive con il bambino nel palazzo. La Baronessa è in grado di diventare una figura materna per la giovanotta.

Anche la carità, intanto, quando è troppa, opprime; e Nicolina se ne sentiva oppressa. Ma donna Bittò, indicandole il bimbo che le giaceva in grembo:

– Babba, non piangere! Guarda piuttosto che hai saputo fare!

Ora la novella ritorna alla scena del giardino. Il Barone è morto. La Baronessa, Filomena e Nicolina sono tutti al suo fianco e condividono il loro dolore.

Il Barone era morto, e stava disteso all’aperto su una materassa, presso un chioschetto tutto parato di convolvoli. Forse la troppa luce, cosí supino, a pancia all’insú, lo svisava. Pareva violaceo, e i peli biondicci dei baffi e della barba, quasi gli si fossero drizzati sul viso, sembravano appiccicati e radi radi, come quelli di una maschera carnevalesca. I globi degli occhi, induriti e stravolti sotto le pàlpebre livide; la bocca, scontorta, come in una smorfia di riso. E niente dava con piú irritante ribrezzo il senso della morte in quel corpo là disteso, quanto le api e le mosche che gli volteggiavano insistenti attorno al volto e alle mani.

Filomena, prostrata con la faccia per terra, urlava il suo cordoglio e le lodi del morto tra una fitta siepe d’astanti muti e immobili attorno alla materassa. Solo qualcuno di tanto in tanto si chinava a cacciare una di quelle mosche dalla faccia o dalle mani del cadavere; e una comare si voltava a far segni irosi a una bimbetta sudicia, che strappava i convolvoli del chiosco, facendone muovere e frusciare nel silenzio tutto il fogliame.

Da una parte e dall’altra gli astanti si scostarono appena irruppe, spaventosa nello scompiglio della disperazione, la Baronessa. Si buttò anche lei ginocchioni davanti la materassa di contro a Filomena, e strappandosi i capelli e stracciandosi la faccia cominciò a gridare quasi cantando:

– Figlio, Cicciuzzo mio, come t’ho perduto! Fiato mio, cuore mio, come sono venuta a trovarti! Cicciuzzo del mio cuore, fiamma dell’anima mia, come ti sei buttato a terra cosí, tu ch’eri antenna di bandiera? Quest’occhiuzzi belli, che non li apri piú! Queste manucce belle, che non le stacchi piú! Questa boccuccia bella, che non sorride piú!

E poco dopo, urlando anche lei, stracciandosi anche lei i capelli, a piè di quella materassa una terza donna venne a buttarsi ginocchioni: Nicolina, col bambino in braccio.

I cittadini si uniscono alla Baronessa, a causa della loro ammirazione e un desiderio di essere di supporto… cioè, nel suo dolore e suo impegno della cura del figlio di Nicolina — in un modo che onora la sua memoria.

Nessuno, conoscendo la Baronessa, le prove date in dieci anni della sua incredibile tolleranza, non solo per l’amore sviscerato e la devozione al marito, ma anche per la coscienza ch’ella aveva, e dava agli altri, che fosse naturale quanto le era accaduto, data la sua rozzezza, la sua bruttezza e il suo gran cuore; nessuno rimase offeso di quello spettacolo, e tutti si commossero, anzi, fino alle lagrime, quand’ella si voltò a scongiurare Nicolina d’allontanarsi e, prendendole il bimbo e mostrandolo al morto, gli giurò che lo avrebbe tenuto come suo e lo avrebbe fatto crescere signore come lui, dandogli tutte le sue ricchezze, come già gli aveva dato tutto il suo cuore.

Dopo il funerale la Baronessa invita Filomena a unirsi a lei e Nicolina, vivendo tutt’e tre nel palazzo. Dopo un po’, tuttavia, la Baronessa e Filomena iniziano a dubitare che Filomena resterà fedele all’impegno della cura del bambino come loro sperano di fare. (Dopotutto, Nicolina è una giovanotta, bella, ha tutta la vita davanti a sé. Chissà quale scelte può fare e come possono influenzare il carattere del figlio?)

A poco a poco, però, la Baronessa e Filomena cominciarono a far sentire a Nicolina, ch’essa, benché fosse la mamma del piccino, non poteva, per la sua età, per la sua inesperienza, esser pari a loro, sia nel dolore per la sciagura comune, sia anche nelle cure del bimbo. Per loro due la vita era ormai chiusa per sempre; per lei invece, cosí giovane e bellina, chi sa! poteva riaprirsi, oggi o domani. Cominciarono insomma a considerarla come una loro figliuola che, in coscienza, non si dovesse insieme con loro due sacrificare e votare a un lutto perpetuo.

Il Pirandello suggerisce anche che alcuni dei ragionamenti delle due donne possono essere dovuti a gelosia e da temere.

(Forse, sotto sotto, parlava in esse, mascherata di carità, l’invidia; per il fatto che colei era la mamma vera del piccino.)

Quindi la Baronessa e Filomena cospirano per manipolare la situazione a loro favore. Il bambino è svezzato dal seno di Nicolina. Poi lei è dato una dote e un grupo delle stanze separate nel palazzo, e lei è introdotta a un giovinotto ed incoraggiata di sposarlo. Il piano è stato progettato per mantenere il bambino fisicamente vicino, sempre sotto l’influenza della Baronessa e Filomena, chi possono quindi controllare la sua cura e carattere.

Per diminuire questa superiorità che Nicolina aveva su loro incontestabile, appena svezzato il bambino, quasi la esclusero da ogni cura di esso. Tutt’e due però sentivano che questa esclusione non bastava. Perché il bambino restasse insieme con loro legato tutto alla memoria del morto, bisognava che Nicolina ne avesse un altro, qualche altro di suo; bisognava insomma dar marito a Nicolina. La Baronessa avrebbe seguitato ad alloggiarla nel palazzo, in un quartierino a parte; le avrebbe assegnato una buona dote, trovandole un buon giovine per marito, timorato e rispettoso, che fosse anche di presidio a lei, a Filomena e a tutta la casa.

La scelta del pretendente è esilarante! Lui è un giovinotto, inesperto (ma ehi! non è tanto male, tutte le cose considerate!)

Filomena, donna di mondo e tanto saggia che finanche il Barone, sant’anima, ne aveva seguito sempre i consigli, aveva già bell’e pronto il marito: un certo don Nitto Trettarí, giovine di notajo, civiletto, di buona famiglia e di poche parole. Non brutto, no! Che brutto! Un po’ magrolino… Ma via, con la buona vita, avrebbe fatto presto a rimettersi in carne. Bisognava dirgli soltanto che non si facesse cucire cosí stretti i calzoni perché le gambe le aveva sottili di suo e con quei calzoncini parevano due stecchi, e che poi si levasse il vizio di tener la punta della lingua attaccata al labbro superiore; del resto, giovinotto d’oro!

E questo!

– Pompa no, – diceva allo sposo, che si storceva tutto per ringraziare e si passava di tratto in tratto la mano su una falda del farsetto, come se qualche cane minacciasse d’addentargliela. – Pompa no, caro don Nitto, perché il cuore in verità non ce la consente a nessuna delle tre; ma… (la lingua, don Nitto! dentro, la lingua, benedetto figliuolo! avete tanto ingegno e parete uno scemo) un po’ di festa, dicevo, ve la faremo, non dubitate.

La novella termina in farsa. Ci sono cerimonie di nozze religiosa e civile. Al palazzo del governo c’è una parete con i ritratti di tutti gli ex sindaci e naturalmente il ritratto del Barone occupa un posto d’onore. A poco a poco le tre donne notano il ritratto del Barone e tutt’e tre, insieme, si scuotono in dolore.

E andarono in processione, prima in chiesa, poi allo stato civile; lo sposo, tra le due sorelle, avanti; poi Nicolina, tra la Baronessa e Filomena, tutt’e tre in fittissime gramaglie, come se andassero dietro a un mortorio; infine la mamma dello sposo tra i due generi.

Ma la scena piú commovente avvenne nella sala del municipio.

C’erano in quella sala, appesi in fila alle pareti, i ritratti a olio di tutti i sindaci passati: quello di don Francesco di Paola Vivona era, si può ben supporre, al posto d’onore, proprio sopra la testa dell’assessore addetto allo stato civile.

La Baronessa fu la prima a scorgere quel ritratto, e prese a piangere prima con lo stomaco, sussultando. Non potendo parlare, mentre l’assessore leggeva gli articoli del codice, urtò col gomito Nicolina, che le stava accanto. Come questa si voltò a guardarla e, seguendo gli occhi di lei, scorse anch’ella il ritratto, gittò un grido acutissimo e proruppe in un pianto fragoroso. Allora anche la Baronessa e Filomena non poterono piú contenersi, e tutt’e tre, con le mani nei capelli, davanti all’assessore sbalordito, levarono le grida, come il giorno della morte.

– Figlio, Cicciuzzo nostro, che ci guarda! fiamma dell’anima nostra, quanto eri bello! Come facciamo, Cicciuzzo nostro, senza di te? Angelo d’oro, vita della vita nostra! E bisognò aspettare che quel pianto finisse per passare alla firma del contratto nuziale.

 

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