Riassunto: Il marito di mia moglie

Il marito di mia moglie (L. Pirandello) è un esame conciso, complesso, potente e sofisticato dei sentimenti e delle emozioni di una persona dopo essere stato assestato un colpo devastante. La novella in realtà si svolge qualche tempo dopo il colpo è stato consegnato, in modo che non è stato progettato/disegnato per esaminare il modo una persona potrebbe reagire nel periodo immediatamente successivo di una catastrophe (es. con shock, orrore, paura). Invece, il protagonista della novella, uno intelligente, articolato e riflessivo, ha avuto tempo di comprendere le varie implicazioni della catastrofe—sia per se stesso e per gli altri. La novella descrive come si sente e ciò che crede basata su questa comprensione.

La novella è realizzato in modo tale che fornisce al lettore l’opportunità di chiedersi: “Cosa dovrei fare e come mi sentirei se, per esempio, io sia stato diagnosticato, all’età di 42 anni, d’avere una progressiva-debilitante malattia cronica che sicuramente causerà la mia morte prima dell’età di 43 anni?” In questo caso la tragedia ipotetica sarebbe anche aggravato dal fatto che io sono sposato l’amore della mia vita solo 6 anni fa e abbiamo un figlio bellissimo che ha 5 anni. Amo mia moglie (il matrimonio è complicato) e adoro mio figlio; e mi sono reso conto gradualmente che grande tristezza mi sento perché non avrò l’opportunità di invecchiare con loro. Finalmente, aggiungendo complessità alla tragedia sarebbe il fatto che mia moglie e il mio migliore amico si sono innamorati, ed io sono certo che si sposeranno poco dopo la mia morte. (È un comforto sapere che il mio amico, un uomo buono, prenderà cura della mia famiglia dopo la morte, ma è anche angosciante d’essere uno spettatore (un testimone) come il loro amore si sviluppa mentre, dall’altra mano, la mia salute declina progressivamente.

***

Il narratore della novella è Luca Leùci, il protagonista, che tiene un diario di sorta. La narrazione si basa sui pensieri e le osservazioni scritti dal Leùci, e include una descrizione di suoi sentimenti ed emozioni che sono ad ampio raggio, illuminanti, contraddittori e fantastici.

Le emozioni del Leùci sono crudi e comprensibili. La potenza della novella è derivato dal fatto che il lettore può identificare con il Leùci (durante la lettura, è facile da trovare se stessi chiedendo, “E se questo fosse accaduto a me?”) e, in quanto tale, la novella è impossibile da mettere da parte.

Inoltre, alla fine della lettura tutto ciò che uno può dire è “Spero che qualcosa di simile non avviene o a me o a qualcuno che amo!”

La novella inizia con una domanda filosofica sulla differenza fondamentale tra gli esseri umani e gli animali.

Il cavallo e il bue, ho letto una volta in un libro, di cui non ricordo piú né il titolo né l’autore, – il cavallo e il bue…

Ma sarà meglio lasciarlo stare, il bue. Citiamo il cavallo soltanto.

Il cavallo – dunque, – che non sa di dover morire, non ha metafisica. Ma se il cavallo sapesse di dover morire, il problema della morte diventerebbe alla fine, anche per lui, piú grave assai di quello della vita.

Trovare il fieno e l’erba è, certo, gravissimo problema. Ma dietro questo problema sorge l’altro: “Perchè mai, dopo aver faticato venti, trenta anni per trovare il fieno e l’erba, dover morire, senza sapere per qual ragione si è vissuto?”.

Il cavallo non sa di dover morire, e non si fa di queste domande. All’uomo però, che – secondo la definizione di Schopenhauer – è un animale metafisico (che appunto vuol dire un animale che sa di dover morire), quella domanda sta sempre davanti.

In altre parole, gli animali sono considerati incapaci di prevedere/comprendere la loro morte, quindi la lotta epica di vita è semplicemente quella di sopravvivere, cioè, di trovare a sufficienza il cibo per mantenere la forza, vitalità e salute e per evitare la predazione.

Gli esseri umani invece sono consapevoli di morte come un universale fatto inevitabile. Tenuto conto del fatto che la vita è finita, un essere umano è più passato occupa di come è stato speso il tempo a disposizione. (In un certo senso, la consapevolezza che la vita è finita impartisce sia significato e prospettiva: la lotta epica d’un essere umano è quella di comprendere il significato della propria vita (vale a dire, la sua logica, il valore, l’utilità).

Dato questo informazioni di base, e questa essendo un’opera di Pirandello, la novella poi chiede al lettore di considerare le implicazioni di una vita troncata prematuramente.

Ne segue, se non m’inganno, che tutti gli uomini dovrebbero sinceramente congratularsi col cavallo. E tanto piú quelli animali metafisici che, malati, per esempio, come me, non solo sanno di dover morire tra breve, ma anche ciò che accadrà in casa loro, dopo la mia morte, e senza potersene adontare.

Credo che il ‘tira e molla’ delle emozioni nell’ultima frase (“non solo sanno di dover morire tra breve, ma anche ciò che accadrà in casa loro, dopo la mia morte, e senza potersene adontare.”) è una chiave di lettura della novella: il Leùci è consapevole che morirà presto e che cosa accadrà in casa sua subito dopo la sua morte… nel bene e nel male. (A questo proposito il Leùci è intelligente, razionale, onesto e ben detto. Sembra vero che possa sentirsi il male ma anche razionalizzare e ammettere il bene. In questo, è un personaggio davvero affascinante.)

Verso l’inizio della novella il lettore apprende che il Leùci è recentemente venuto a sospettare che sua moglie è innamorata d’un altro che visita casa sua. Il Leùci spia sulla moglie ma, vergognosamente, è colto in flagrante.

I residui non sono mai limpidi. L’umor vitale agli sgoccioli s’inacidisce vie piú, di giorno in giorno, dentro di me. E voglio, riempiendo questi pochi foglietti di carta, procurarmi la soddisfazione sapor d’acqua di mare (soddisfazione che pur non sentirò) di far conoscere a mia moglie, che avevo tutto preveduto.

L’idea m’è nata questa mattina. E m’è nata perché mia moglie m’ha sorpreso nel corridojo, dietro l’uscio del salotto, cheto e chinato a spiare per il buco della serratura.

– O tu che non sei geloso, – mi gridò, – che stai a far lí? To’, guarda! Ti sei finanche tolte le scarpe, per non far rumore.

Mi guardai i piedi. – Scalzi! – era vero. E mia moglie intanto rideva fragorosamente. Che dire? Balbettai sciocchissime scuse: che non spiavo affatto, che solo per curiosità m’ero spinto a guardare: non avevo piú sentito il pianoforte; non avevo veduto andar via il maestro, e cosí…

Il Leùci giura che le sue scarpe non sono fuori perché sta spiando su di Eufemia, sua moglie, ma perché le scarpe non sono più in forma, vale a dire, i suoi piedi hanno ampliati perché la sua malattia cronica è associata ad edema sottocutaneo pedale!

Ma giuro che le scarpe (con rispetto parlando) me l’ero tolte da un pezzo, senza intenzione. Mi fanno male. E lei, la mia cara Eufemia che mi ha sorpreso lí scalzo, dovrebbe sapere perché mi fanno male, e non riderne, almeno davanti a me. Ho gli edemi ai piedi…

Quello che segue è un commento divertente su come il Leùci passa il tempo: controlla quanto l’edema che c’è (quindi il progresso della sua malattia) da premendo un dito nella sua carne e poi osservando le dimensioni della depressione e la rapidità con cui la depressione ricariche.

e, per ingannare il tempo, me li tasto: li premo, vi affondo una ditata e poi sto a guardare come a poco a poco rivenga sú.

Alla fine il Leùci esprime rimorso per le sue azioni sospettose,

Ciò non toglie però che non abbia commesso una imperdonabile sciocchezza.

…anche lui esprime una certa quantità di fiducia in Eufemia,

Ma se lo sapevo, ma se lo so, che mia moglie non può soffrirlo, quel suo maestro di musica! E poi sono certo, certissimo che – finché vivo – ella non mi tradirà.

…dato che è stato un po’ di tempo da quando gli ha tradito,

Non mi ha tradito in tanti anni,

…e il Leùci rimane (amarezzamente) sicuro che Eufemia aspetterà i pochi mesi che rimangono prima che sposerà un altro.

e dovrebbe confondersi per un altro pajo di mesi – e poniamo – quattro, sei? Ma no: ella avrebbe pazienza, ne son sicuro, anche se tirassi avanti, cosí, ancora un anno.

Poi il Leùci rivela l’identità dell’amante: è il suo migliore amico, Florestano, un uomo buono e una persona che il Leùci ammira molto.

E poi, lo conosco, lo conosco bene il marito – (futuro) – di mia moglie! E anche per lui potrei metter le mani sul fuoco che non mi farà il minimo torto, finché il naso mi fumica.

È, s’intende, un mio carissimo amico. Ottimo giovine.

Il suo amico è anche un ‘hunk’ (uomo bellissimo)! Anzi le differenze fisiche tra il fragile corpo emaciato del Leùci e la corporatura robustissima di Florestano non potrebbero essere di più.

Giovine, poi, veramente, non tanto. Quarant’anni, quasi l’età mia. Ma già, io, come se n’avessi cento; mentre lui, solido, ben piantato nella vita, come in un bosco una quercia; e poi dotato, come dicevano gli antichi, “di tutte quelle buone parti che a fare un perfetto marito si ricercano”: castigati costumi, generosa e gentilissima natura.

(Le emozioni qui sembrano essere un misto di ammirazione e gelosia, no?)

Ogni giorno Florestano viene a visitare e curare per il Leùci.

Lo provano le cure che ha per me.

Quasi ogni giorno, per dirne una, viene con la vettura per farmi prendere una boccata d’aria. Mi dà il braccio e m’ajuta a scendere pian pianino la scala, obbligandomi a sostare sui pianerottoli, a ogni branca, fin tanto che lui non abbia contato fino a cento; poi mi tasta il polso per sentirne la repenza, mi guarda negli occhi, mi domanda dolcemente:

– Proseguiamo?

– Proseguiamo.

E cosí via, fino in fondo, pian pianino, pian pianino. Per risalire, dopo la scarrozzata, – egli da una parte, il portinajo dall’altra – mi portano sú in sedia.

Vediamo quanto fragile è il Leùci in realtà.

Mi sono ribellato, ma invano. Non posso, è vero, far sette scalini di fila, che l’ansito non mi sopravvenga insopportabile; ma ecco: vorrei che l’amico non si pigliasse tanto fastidio; che il portinajo si facesse almeno ajutare da qualcun altro… Che! Florestano, se gli fosse possibile, vorrebbe portarmi sú lui solo, senza ajuto. Via, in fin de’ conti, non peso molto (sí e no, quarantacinque chilogrammi, con tutti gli edemi); e poi penso: servendo me, vuol guadagnarsi la felicità futura. Lasciamolo fare!

Il Leùci poi parla di Eufemia. Lui ipotizza che lei sia felice di soffrire in questo momento ma che, infatti, lo fa per placare/attenuare il senso di colpa che si sente a causa del suo amore per Florestano.

Anche mia moglie Eufemia, dall’altro canto, è quasi felice di soffrire per me, e piú vorrebbe, per guadagnarsi anche lei, di fronte alla propria coscienza, il diritto di goder dopo, senz’alcun rimorso. Onesto diritto, onestissimo compenso, che né la vita né la coscienza possono negarle, e di cui io, ripeto, non debbo adontarmi.

(Anche se non è stato chiaramente affermato, Florestano possa essere tanto attento com’è per lo stesso motivo.)

È giusto ammettere che, a questo punto, non sappiamo i sentimenti veri di Eufemia e Florestano: i loro pensieri e sentimenti interiori non vengono mai condivisi con il lettore.

(Cosa succede se, per esempio, entrambi siano semplicemente e veramente rattristati dalla malattia del Leùci? O, forse, entrambi lo amiano e vogliano solo per aiutarlo il più possibile e il più a lungo possibile? Inoltre il lettore potrebbe immaginare come tali questi sentimenti positivi possano coesistere con l’affetto che forse si sentano per l’un l’altro.)

Invece Eufemia e Florestano sono descritti solamente attraverso gli occhi del Leùci. Lui è arrabbiato e amaro a causa della sua malattia, ma onesto e ben detto per quanto riguarda la personalità e il carattere di Eufemia e Florestano. Il Leùci vuole sentirsi rispettato prima della morte, piuttosto che emarginato, cioè, messo da parte, e sia Eufemia e Florestano sembrano comportarsi in questo modo. Tira e molla!

Poi il Leùci dice che sarebbe stato meglio se Eufemia e Florestano fossero semplicemente persone male.

Confesso tuttavia che, piú volte, m’avviene quasi quasi di desiderare che l’uno e l’altra siano due birbaccioni matricolati. L’onestà dei loro propositi, la squisitezza dei loro sentimenti, diventa spesso per me la piú raffinata delle crudeltà,

Il Leùci sembra dirci che l’ambiguità della situazione (il bene e il male) è faticosa e frustrante e che sarebbe stato più facile se poteva semplicemente essere arrabbiato e amaro (almeno allora avrebbe potuto esprimere semplicemente la sua rabbia).

Particolarmente difficile per il Leùci è la questione della disposizione di Carluccio, suo figlio, che adora.

E gli magnifico tutti i regalucci ch’egli (Florestano), per far piacere a Eufemia, gli porta. Il povero piccino mio segue i miei consigli, e già lo venera.

Il misto delle emozioni qui è complesso ed intricato. Rabbia, amarezza, ironia, tristezza, rimpianto (a causa di una vita interrotta da una malattia incurabile) così come gratitudine e sollievo (perché Carluccio sarà curato da un uomo buono) così come la gelosia (a causa delle possibilità perdute).

Certo quest’emozioni influenza la sua interpretazione di una recente esperienza condivisa tra Florestano e Carluccio.

L’altro giorno, per esempio, Florestano se lo portò a spasso, e, al ritorno, mi raccontò ridendo che, mentre camminavano insieme, traversando la piazza piena di sole, a un certo punto Carluccio mise un grido, s’arrestò e gli domandò tutt’afflitto:

– T’ho fatto male, zio Florestano?

– No, Carluccio. Perché?

E il mio piccino, ingenuamente:

– T’ho pestato l’ombra, zio Florestano.

Eh via, no: fino a questo punto, no, povero Carluccio mio! Sei stato proprio sciocchino. L’ombra, vedi, l’ombra si può calpestare: zio Florestano e la mammina tua la calpesteranno un giorno l’ombra di tuo papà sicuri di non fargli male, poiché, in vita, si saranno guardati bene dal pestargli anche un piede.

Poi il Leùci esprime la sua frustrazione con la complessità e l’artificio della situazione. Morirà presto… perché non farla finita?

Che gara di compitezze fra noi tre! E che grazioso martirio, intanto. Da povero malato, io vorrei lasciarmi andare come vien viene; invece, mi vedo costretto a tenermi sú, per pesare quanto meno sia possibile su loro, che altrimenti m’userebbero tanti altri riguardi, tante altre premure che mi fanno ribrezzo, talvolta, anzi orrore. Avrò torto. Ma questo spettacolo della nostra squisita civiltà, delle nostre continue cerimonie, davanti alla soglia della morte, mi sembra una stomachevole pagliacciata. Coi guanti gialli, e infinite cortesie, mi vedo dolcemente sospinto da loro fino a questa soglia; e ora mi sembra che mi s’inchinino e mi dicano con un sorriso grazioso sulle labbra:

– Passi pure. Buon viaggio! E stia sicuro, sa, che noi ci ricorderemo sempre sempre di lei, cosí buono, cosí prudente e ragionevole!

Mi hanno insegnato che bisogna esser sinceri. Sinceri? Ma la sincerità, per me, a questo punto, vorrebbe dire senz’altro: uccidere. Dio me ne guardi! Chi mi trattiene?

Poi la narrazione prende una svolta ironica. Il Leùci confessa che la rabbia e la gelosia che si sente sono abbastanza potente per spingerlo a uccidere Florestano se non fosse per la sua fede in Dio.

Parliamo un po’ sul serio. Se io non avessi fede, se io non credessi in Dio, davvero; se credessi invece che la morte sia limite anche all’anima d’ogni avvenire, e che, mancandomi la terra sotto i piedi, il vuoto e null’altro m’accoglierà, credete che Florestano io non lo ammazzerei?

Quando penso, certe notti, nell’insonnia, che egli si coricherà nel mio letto, al posto mio, lí, con tutti i miei diritti su mia moglie e su le cose mie: quando penso che nel lettuccio della camera accanto il figlietto mio, l’orfanello mio, qualche notte forse si metterà a piangere e chiamerà la mamma sua, e penso che egli a mia moglie che vorrà accorrere a vedere che cos’ha il piccino mio che piange, forse dirà: – “Ma no, cara, lascialo piangere; non scendere dal letto; ti raffredderai!” – io, Florestano, vi giuro, lo ammazzerei!

Invece, ogni notte, seduto presso la finestra, me ne sto quieto quieto a contemplare il cielo, a lungo. C’è una stellina piccola piccola lassú, a cui tengo fissi gli occhi e a cui dico spesso, sospirando:

– Aspettami, verrò!

(Sicuramente abbiamo visto altri esempi di un affidamento sulla fede e una divinità per sostenere un personaggio durante un tempo d’angoscia: vedite, ad esempio, il personaggio del signor Siroli a Alla Zappa!).

La novella conclude con un incontro finale. Florestano ed Eufemia esprimono preoccupazione e speranza e sostegno. Invece il Leùci esprime rabbia, amarezza, ironia, tristezza, rimpianto, gratitudine, sollievo, e gelosia.

Intendo bene che l’unica è di morir presto, qua. Vedo certe volte Florestano che con gli occhi e coi sospiri si sforza di far capace mia moglie dei desiderii che lo tormentano, pover’uomo! M’immagino allora mia moglie col bel capo biondo reclinato vezzosamente sull’ampio petto quadro di lui, nell’atto di carezzargli appena appena, stirando in sú con due dita, i lunghi peli rossicci del magnifico pajo di baffi… Oh voluttà! Pazienza anche tu, cara Eufemia mia! E certe paroline di notte, come le hai dette a me, abbracciata con me, le dirai presto, le dirai anche a lui, senza quasi sapere di dirle:

– Tesoro mio… Ah, caro… sí, sí… Caro, caro…

Mi vien da ridere, da ridere. Tutti e due allora, maravigliati, mi domandano perché ho riso: io dico un motto di spirito, e Florestano osserva:

-Tu sarai vecchio, caro Lèuci, e sempre cosí celione!

Ma spesso anche non riesco a esser celione, come dice l’amico mio. L’arguzia, senza volerlo, mi diventa mordace, e allora Florestano, in vettura con me, ci soffre a sentirmi parlare. Io gli dico:

– Se non fosse un brutto posto, ti proporrei, caro Florestano, di metterti un momentino al posto mio. T’assicuro che ti farebbe lo stesso effetto curioso che fa a me questo poter vedere la vita cosí, come resterà per gli altri, nella certezza che tra poco, forse mentre stai a dirlo, essa per te finirà; e il poter pensare ciò che gli altri faranno ragionevolmente, quando tu non sarai piú. Parlo chiaro; ma Florestano finge di non comprendere. E io continuo:

– Caro Florestano, io so, per esempio, la corona di porcellana che verrai a depormi sulla fossa, quando vi giacerò.

Florestano mi dà sulla voce, e io allora mi taccio e, cosí magro magro e pallido e afflitto come sono, mi metto a guardare dal cantuccio della vettura che va a passo per gli aerei viali del Gianicolo, questa dolcezza di sole che tramonta; la vita, come la assaporeranno gli altri, anche amara, che importa? questo grosso sanguigno uomo qua, che mi siede accanto e sospira; mia moglie che a casa, in attesa, anche lei sospira: e anche, senza piú me, il mio piccino, che un giorno, presto, non saprà piú chi ero, com’ero!

– Papà…

E Florestano, voltandosi, gli risponderà sgarbato:

– Che vuoi?

Il marito di tua madre, Carluccio, che non è il tuo papà vero. Ci pensi?

Ma la vita pure, Carluccio, è cosí bella… cosí piena…

***

Di recente ho letto il seguente passaggio in un profilo di una famosa giornalista Americana:

“Il padre di Kelly era un professore universitario, ed è morto quando era un adolescente. Lei interpreta il crepacuore conseguente come l’inizio della sua attenzione alla salute fisica, fedeltà alla famiglia, e l’uso ottimale del suo tempo terreno assegnato.”

Il sentimento espresso qui (“la sua attenzione sul… l’uso ottimale del suo tempo terreno assegnato.”) sembra del tutto coerente con l’argomento metafisico espresso all’inizio della novella! (Questo, dunque, è un’altra illustrazione di quanto moderne le novelle sono e come rilevante il Pirandello è per le nostre vite nel 2017.

Tuttavia mi sono anche chiesto che cosa accadrà all’argomento metafisico se la morte non sia più un inevitabile esito universale?

In altre parole, che cosa accadrebbe alla nostra visione della vita, se siamo arrivati a capire abbastanza sulla biologia di invecchiamento che potremmo progettare/ideare/disegnare un modo per prevenire la morte, cioè, un modo per vivere per sempre?

Sembra essere una fantasia? No, gentili lettori, vedite per favore l’articolo qui sotto!

http://www.nytimes.com/2016/12/15/science/scientists-say-they-can-reset-clock-of-aging-for-mice-at-least.html

 

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