Riassunto: La maestrina Boccarmè

Ultimamente, durante la lettura delle novelle, io sono stato pensando al Pirandello. Tra le altre cose mi sono chiesto sul motivo per cui è diventato un autore… quali erano i suoi obiettivi? Anche se io non abbia capito la risposta giusta a questa domanda, ho immaginato un’ipotesi basata sulla vita professionale d’un medico praticante.

La pratica di medicina è caratterizzata, in parte, dalla necessità per l’abitudine, la routine, le prove, i precedenti. Questo è così — la maggior parte sarebbe d’accordo che vale la pena d’avere queste caratteristiche — perché contribuiscono a garantire che nessun dettaglio è perso, nessuna possibilità viene lasciata senza controllo, nessun errore è fatto. Un medico di talento / qualificato / esperto / abilitato, uno potrebbe dire, è ‘orientato al detagglio’ e, di conseguenza, lui / lei trascorrerà la migliore parte di una carriera focalizzato sulle ‘piccole cose’ per ‘farlo bene’.

Così (un esempio)… un paziente viene ad uno studio medico per la prima volta. Il medico vuole aiutarlo / a servirlo dunque sarà necessario ‘ascoltare’ e ‘capire’ la sua storia — a volte, per fare questo bene, tutti i cinque sensi dovranno essere impiegati. Dopo la storia è capito, il medico farà una diagnosi provvisoria, che potrà provare o confutare sulla base delle prove supplementari. Infine arriverà a una diagnosi definitiva e poi gli consiglierà un piano terapeutico.

La stessa sequenza sarà ripetuta più e più volte, quasi senza variazione (ad eccezione, ovviamente, per le singole diagnosi ed i piani di trattamento) e, di conseguenza, un medico potrà facilmente diventare uno schiavo alla questa routine e prima che lui lo sa, sarà pronto ad andare in pensione!

Ciònonostante quello che è quasi mai affrontato nella pratica di medicina è il ‘perché / come’ (diciamo l’eziologia). Così (un’altro esempio)… un paziente viene ad uno studio medico nel gennaio lamentando di una febbre, una mal di testa intensa e il malessere. La sua diagnosi preliminare è un’infezione influenzale che viene confermata da una prova di laboratorio; poi raccomanda un trattamento specifico della droga. Caso chiuso!

In quest’esempio il medico non ha tentato mai di determinare come’è diventato infettato il paziente… in altre parole non ha tentato di comprendere gli antecedenti che, in primo luogo, lo hanno portato all’infezione. A questo proposito direi che gli psichiatri, rispetto agli altri medici, siano in generale più curiosi sulle antecedenti delle malattie. Cio detto mi chiedo se il Pirandello fosse ancora più curioso che la maggior parte dei suoi colleghi? Cioè, mi chiedo se la sua pratica non gli abbia permesso mai di esplorare, alla sua soddisfazione, le eziologie delle malattie dei suoi pazienti?

Quindi la mia ipotesi è che il Pirandello abbia inizialmente progettato le novelle per aiutarsi capire meglio i suoi pazienti. Se c’è qualcosa di vero qui, poi ne consegua che le novelle lo abbiano fornito un’opportunità unica per esplorare e comprendere le malattie mentali ad un livello intimissimo, profondissimo. Infatti sospetto che il Pirandello avesse un desiderio di conoscere tutto (tutto!): sia le circostanze e gli antecedenti che causano una malattia mentale e come una persona potrebbe reagire… cioè, farà adattare o disperare? (Diremmo poi che i suoi interessi abbiano incluso sia l’eziologia e la progressione della malattia, diciamo la patogenesi.)

Certo un lettore trova le novelle in un particolare momento e luogo: loro sono naturalmente italiane e riflettono la società e la cultura italiana vicino all’inizio del Novecento! Poi… non è sorprendente che le novelle risuonano profondamente con me (un americano) e con la mia insegnante (Paola, un’italiana) 100 anni o giù di lì dopo che sono state scritte? Forse la spiegazione sia che le novelle concentrano non solo sui particolari di un caso ma anche i temi universali. In altre parole, forse ci siano solamente un numero finito in cui gli esseri umani soffriranno / reagiranno / adatteranno allo stress, le ferite, la tragedia, il tradimento, la privazione. E forse questi modi siano altrettanto vero oggi come li fossero 100 anni fa!

Se c’è qualcosa di vero qui, poi ne consegua che le novelle siano entrambi italiane ed universali (cioè, di un particolare momento e luogo e, al tempo stesso, senza tempo e luogo (o diremmo che le novelle siano entrambi particolare al loro tempo e luogo e, al tempo stesso, contemporanee / moderne). Sarebbe interessante sapere se il Pirandello abbia inteso che le novelle rimarrebbero così rilevante oggi, tanti anni dopo che sono state scritte!

***

“Mi rifugerò in un sogno. E finché la realtà non cambia, non venitemi a cercare.” (A. Curnetta)

La maestrina Boccarmè (L. Pirandello) è la storia di una a mezza età che, in precedenza in vita, ha subito un’esperienza terribile (sconvolgente e emotivamente traumatica). La sua vita (cioè, la sua identità) è stata interrotta da quest’esperienza, da cui non ha mai recuperato pienamente. Invece ha adattato, e l’adattamento l’ha permessa di sopravvivere (vale a dire, lei ha fatto una sistemazione ma così facendo, il prezzo era un cambio della sua identità).

La novella è strutturata in modo tale che il lettore viene introdotto alla Boccarmè anni dopo ha sperimentato il trauma. L’introduzione al suo personaggio ha anche diventato, in sostanza, un’introduzione al suo adattamento.

In primo luogo una bellissima immagine è dipinta per noi.

Come, passando per un giardino e allungando distrattamente una mano, si bruca un tenero virgulto e se ne sparpagliano in aria le poche foglioline, l’unico fiore; cosí, passando attraverso la vita di Mirina Boccarmè, allora nel suo fiore, un uomo ne aveva fatto scempio per un vano capriccio momentaneo. Fuggita dalla città, se n’era andata in un paesello di mare del Mezzogiorno a far la maestrina.

Cioè, una persona cammina in un giardino nella primavera. Senza pensando molto (senza cuore, potrebbe dire) la persona afferra un nuovo germoglio di una pianta (con un solo fiore), lo strappa dalla pianta e poi prende via e scarta le foglie e il fiore. Entro la fine della novella il lettore capirà che il nuovo germoglio è la Boccarmè (in giovane età), e la violenza di questa scena diventerà apparente. (Imparemo d’un singolo episodio, una disattenzione momentanea, quando un ragazzo ha preso vantaggio della Boccarmè e poi l’aveva abbandonata. Questo era la sua emotivamente esperienza traumatica.)

La Boccarmè ha fuggito la città dove l’episodio ha avuto luogo, e si è trasferita ad un piccolo porto di mare provinciale. Lei è diventata un insegnante in una scuola per le ragazze. Penso che il trasferimento sia solamente una parte della sua adattamento. La seconda: ogni giorno, dopo è finita la scuola, la Boccarmè prende una passeggiata al porto e con attenzione osserva le navi ei marinai.

Appena terminata la scuola del pomeriggio, la maestrina Boccarmè soleva recarsi alla passeggiata del Molo, e là, seduta sulla spalletta della banchina, si distraeva guardando con gli altri oziosi le navi ormeggiate: tre alberi e brigantini, tartane e golette, ciascuna col suo nome a poppa: “L’Angiolina”, “Colomba”, “Fratelli Noghera”, “Annunziatella”, e il nome del porto d’iscrizione: Napoli, Castellammare di Stabia, Genova, Livorno, Amalfi: nomi, per lei che non conosceva nessuna di queste città marinare; ma che, a vederli scritti lí sulla poppa di quelle navi, diventavano ai suoi occhi cose vicine, presenti, d’un lontano ignoto che la faceva sospirare. E ora, ecco, arrivavano le paranze, una dopo l’altra, con le vele che garrivano allegre, doppiando la punta del Molo; ciascuna aveva già pronte e scelte in coperta le ceste della pesca, colme d’alga ancor viva. Tanti accorrevano allo scalo per comperare il pesce fresco per la cena; lei restava a guardar le navi, a interessarsi alla vita di bordo, per quel che ne poteva immaginare a guardarla cosí da fuori.

S’era abituata al cattivo odore che esalava dal grassume di quell’acqua chiusa, sulla cui ombra vitrea, tra nave e nave, si moveva appena qualche tremulo riflesso. Godeva nel vedere i marinaj di quelle navi al sicuro, adesso, là nel porto, senza pensare che a loro forse non pareva l’ora di ritornare a qualche altro porto. E sollevando con gli occhi tutta l’anima a guardare nell’ultima luce la punta degli alti alberi, i pennoni, il sartiame, provava in sé, con una gioja ebbra di freschezza e uno sgomento quasi di vertigine, l’ansia del tanto, tanto cielo, e tanto mare che quelle navi avevano corso, partendo da chi sa quali terre lontane.

Come ho già scritto, il porto rappresenta un’altra parte del suo adattamento: di là, la Boccarmè sembra creare un mondo di fantasia… un mondo in cui si permette di fare i sogni e d’esprimersi un senso di anelito. Questo è un mondo di fantasia dei viaggi e dell’avventura. La Boccarmè sembra d’entrare in questo mondo senza fatica e una volta lì, si immerge (es. perde la cognizione del tempo).

Cosí fantasticando, talvolta, illusa dall’ombra che si teneva come sospesa in una lieve bruma illividita sul mare ancora chiaro, non s’accorgeva che a terra intanto, là sul Molo, s’era fatto bujo e che già tutti gli altri se n’erano andati, lasciandola sola a sentire piú forte il cattivo odore dell’acqua nera sulla spiaggia, che alla calata del sole s’incrudiva.

Il mondo di fantasia sembra anche generare un senso di rimpianto (a causa delle occasioni perdute?) ed altre emozioni (come vedremo: la vergogna, l’imbarazzo, la rabbia, la frustrazione, l’angoscia, la depressione, l’ansietà e la tristezza).

La lanterna verde del Molo s’era già accesa in cima alla tozza torretta bianca; ma faceva da vicino un lume cosí debole e vano, che pareva quasi impossibile si dovesse poi veder tanto vivo da lontano. Chi sa perché, guardandolo, la maestrina Boccarmè avvertiva una pena d’indefinito scoramento; e ritornava triste a casa.

Veniamo poi a sapere che la Boccarmè arriva anche al porto (ossessivamente) quasi ogni mattina. Mentre le navi partono lei immagina un legame / una connessione con i marinai.

Spesso però, la mattina dopo, nell’alba silenziosa, mentre qualche nave con tutte le vele spiegate che non riuscivano a pigliar vento salpava lentamente dal Molo rimorchiata da un vaporino, piú d’un marinajo uscito a respirare per l’ultima volta la pace del porto che lasciava, del paesello ancora addormentato, s’era portata con sé un tratto l’immagine d’una povera donnina vestita di nero che, in quell’ora insolita, dal Molo deserto aveva assistito alla triste e lenta partenza.

Poi veniamo a sapere che la Boccarmè veste in nero. Come la storia si sviluppa diventa chiaro che non è una vedova, e mi sembra che questi vestiti abbiano lo scopo di segnalare qualche messagio o indicazione… forse che l’esperienza traumatica abbia causato una morte… (della Boccarmè? cioè, della sua identità?)?

***

Per riassumere:

Che cosa è l’adattamento che ha permesso la Boccarmè di sopravvivere? In primo luogo le ha scelto di vivere una vita di solitudine quasi monastica. Non è chiaro se la sua solitudine rappresenti una forma di punizione o, più semplicemente, che si tratti di un modo per sfuggire (fisicamente) dalla sua angoscia.

Il porto (secondo me la seconda parte del suo adattamento) sembra essere un luogo dove la Boccarmè immagina una vita, cioè, i rapporti con gli uomini e l’avventura. A questo proposito il porto sembra rappresentare una pausa dalla sua routine a scuola e, in un certo senso, dalla sua solitudine.

Mi anche chiedo se, almeno all’inizio, la Boccarmè avesse sperato che un giorno il suo amante sarebbe tornare a lei in barca. In questo senso il porto potrebbe aver rappresentato un mezzo attraverso il quale la Boccarmè avrebbe riacquistato la sua identità… cioè, sia stato lui per tornare, quindi lei potrebbe liberarsi della sua solitudine e ristabilire una vita normale.

Allora il resto della novella è progettato per spiegare i dettagli dell’esperienza traumatica (cioè, gli antecedenti che portano la Boccarmè al suo stato attuale).

***

È l’estate e sono arrivati molti turisti per visitare il porto e le sue spiagge. Uno di questi è Lucilla Valpieri, una vecchia conoscenza della Boccarmè; la Valpieri è benestante e estroversa.

Se non che, un giorno:

– Mirina!

– Lucilla!

– Tu qua? Sto a guardarti da mezz’ora: “è lei? non è lei?”. Mirina mia, come mai?

E quella signorona, tra lo stupore rispettoso delle brave donnine del paese, abbracciò baciò ribaciò la maestrina Boccarmè con la maggiore effusione d’affetto che la soffocante strettura del busto le permise.

Alla fine, dopo aver valutato la situazione di l’un l’altro (in una vera e propria ‘nebbia’ di convenevoli e cortese, ma anche mortale, chiacchiere) le due donne vanno ai piedi all’apartamento della Boccarmè. Appeso su una parete è un vecchio ritratto di Giorgio Novi, cugino della Boccarmè; infatti lui è il ragazzo che era preso vantaggio della Boccarmè e poi l’ha abbandonata.

La Valpieri nota subito il ritratto e riconosce il Novi.

A un tratto, allungando il collo per vedere con l’ajuto dell’occhialetto un ritrattino ingiallito, appeso alla parete, e notando che l’amica, improvvisamente accesa in volto, stava ritta davanti alla scrivania come se volesse appunto nascondere quel ritratto, sorrise e la minacciò col ditto furbescamente:

– Ah, mariolina! Anche tu? Lasciamelo vedere.

Nel tempo passato la Valpieri ha avuto qualche negoziazione d’affari con il Novi che non ha finito / terminato bene, in particolare per lui.

– Tu? da chi?

– Ma da vojaltri! Non è tuo parente? Ti prego di credere che non si è affatto rovinato per me, come vanno dicendo. È una calunnia.

– Rovinato?

– Ma sí, ma sí: negozii andati a male, spese pazze! Non per me, sta’ bene attenta! Io fui tratta in inganno, vigliaccamente. E ora, se egli ha commesso, come temo, qualche pazzia, guarda, me ne lavo le mani, me ne lavo le mani!

– Ah, dunque tu?

– Fui tratta in inganno, ti dico; e ora per giunta mi si calunnia. Viltà sopra viltà. Eppure, vedi che ti dico, gli avrei perdonato, se non mi perseguitasse da quattro mesi come un canaccio arrabbiato. Che vuole da me? Lo compatisco: è impazzito; allo sbaraglio. Ma sono rimasta anch’io Dio sa come, e proprio non posso, non posso venirgli in ajuto. Dio volesse, ci fosse qualcuno che volesse ajutar me!

Impariamo che il Novi è sposato, con una famiglia. Subito la Valpieri sospetta un tradimento!

La Valpieri la guardò con un’aria di commiserazione derisoria:

– Già, per te, c’è la moglie. E tu glielo fai cosí, solitariamente, con quel ritrattino, il tradimento, ho capito! Ma io te ne parlo appunto perché c’è la moglie, e non vorrei essere incolpata domani piú di quanto mi merito.

Le due donne si scambiano gli insulti e le barbe e alla fine si lasciano con rabbia. La partenza costringe la povera Boccarmè a guardare indietro e descrivere i dolenti ricordi della sua esperienza traumatica. Subito un vortice di rabbia cresce dentro; toglie il ritratto dalla parete e lo getta a terra, schiacciandolo; comincia a piangere.

La maestrina Boccarmè, appena sola, strappò quel ritrattino dalla parete e lo scagliò con tanta rabbia sulla scrivania, che il vetro della modesta cornicetta di rame si ruppe. Poi, andò a buttarsi sul letto e, affondando il volto sul guanciale, si mise a piangere.

(Forse per la prima volta sospettiamo che la povera Boccarmè capisca la perché della distruzione di sua vita; sembra anche tuttavia incapace di lasciare quell’episodio in dietro… sembra essere bloccata, depressa, triste, e molto molto infelice.)

Non solo la rabbia ma sembra anche essere la vergogna / disgrazia / miseria associata con la scoperta (da qualcun’altra) della sua storia. La Boccarmè non è più in clandestinità!

Non tanto per l’onta, no; pianse per la miseria del suo cuore scoperta, derisa e quasi sfregiata; pianse per vergogna di quel che aveva fatto, di quel ritrattino che aveva appeso lí alla parete da tanti anni.

Poi il lettore viene a sapere che l’esperienza traumatica è avvenuta molti anni fa.

Ma non aveva avuto mai, mai un momento di bene fin dalla fanciullezza; aveva già perduto, non pur la speranza, ma perfino il desiderio d’averne nel tempo che ancora le avanzava; e allora, quasi mendicando un ricordo di vita, era ritornata ai giorni del suo maggior tormento, ai soli giorni in cui pure, per poco, aveva sentito veramente di vivere: e aveva cercato quel ritrattino, gli aveva comperato quella cornicetta da pochi soldi, e non perché lo vedessero gli altri lo aveva appeso lí alla parete, ma per sé, per sé unicamente, quasi per far vedere a se stessa che, mentre forse tant’altre maestrine come lei dicevano senz’esser vero, d’avere avuto anch’esse in gioventú il loro romanzetto sentimentale, lei – eccolo là – lo aveva avuto davvero: c’era stato davvero – eccolo là – un uomo nella sua vita.

Non c’è nessun dubbio né sulla natura devastante della esperienza né sul desiderio della Boccarmè per la privacy / la riservatezza / la non divulgazione / l’inganno. Il ritratto del Giorgio sulla parete ha lo scopo di mostrare a tutti l’unico vero amore della sua vita… infatti lo permette la Boccarmè d’aver una storia simile a quella di qualsiasi altra donna. A questo punto, ci rendiamo conto che l’abbigliamento nero può servire un secondo scopo: parte dell’inganno! (Cioè, se il suo amante sia morto, poi spiegherebbe la sua assenza dalla vita della Boccarmè nel porto.)

Poi il romanticismo tra Mirina e Giorgio è banalizzato… il narratore ci dice che, dal punto di vista della società italiana, lo era solo uno scagli / una scappatella! In altre parole ciò che è accaduto tra i ragazzi era un luogo comune, solamente un caso dei ragazzi inesperti… sperimentando con l’amore e il sesso!

Come ne aveva riso quella svergognata! Era quasi niente, sí; un povero ritrattino ingiallito; uno dei soliti romanzetti, che, appunto perché soliti, non commuovono piú nessuno; come se l’esser soliti debba poi impedire di soffrirne a chi li abbia vissuti.

(Eppure è stato sconvolgente, devastante per la Boccarmè e nessuna spiegazione viene data; forse il Pirandello abbia lasciato una spiegazione giusta al lettore!)

Veniamo a sapere che Mirina era un orfano. Era timida e aveva vissuto una vita al riparo — era inesperta nelle vie del mondo.

Inesperienza, stupidaggine, da bambina chiusa fin dall’infanzia, prima in un orfanotrofio, poi in un collegio. Ne era uscita da pochi giorni con la patente di maestra, e stava ora nell’attesa angosciosa di un posticino nelle scuole elementari di qualche paesello, privandosi di tutto per pagar la pigione di quello sgabuzzino in città e mantenersi in quell’attesa con le poche centinaja di lire vinte in un concorso di pedagogia, nell’ultimo anno di collegio. Che provvidenza per lei quel concorso! Ma che sgomento, anche, nel vedersi cosí sola e libera, lei vissuta sempre nella clausura!

Una mattina, inaspettatamente, Mirina incontra un ragazzo della sua età. Il ragazzo, Giorgio Novi, è attratto da lei. Loro sembrano rendersi conto rapidamente che sono parenti.

E s’era trovata una mattina, inaspettatamente, cosí sola lí con un giovanotto che subito s’era messo a parlarle con la massima confidenza, dandole del voi e chiamandola “cara cuginetta”.

Nel corso di 15 giorni Giorgio persegue Mirina anche se la sua famiglia non è a favore del rapporto.

Ma era ritornato il giorno dopo con un involtino di paste e un mazzolino di fiori, per invitarla ad andare a casa sua: la madre voleva conoscere la nipotina, la figliuola della cara sorella morta da tanti anni. Era andata; e quella zia, squadrandola da capo a piedi, s’era mostrata dolente di non poterla accogliere in casa perché c’era Giorgio – e qui consigli di prudenza – una lunga predica, che ella, interpretando (com’era facile) il sospetto che moveva la zia a parlare, aveva ascoltato col volto avvampato dalla vergogna.

Mirina cambia alloggio. È scomoda con gli affetti di Giorgio e spera che la lascerà sola. Ciònonostante Giorgio continua a perseguitarla

Quel giorno stesso aveva cambiato alloggio, senza lasciar traccia di sé. E ricordava le ambasce nella nuova abitazione in quei quindici giorni che passarono prima che egli la scoprisse; l’incerto timore, forse piú di se stessa che di lui, se il non doverlo piú rivedere le rendeva spinosa di tante smanie la solitudine. Non sapeva piú vedersi in quella nuova cameretta, pur tanto piú decente della prima; si recava ogni giorno al collegio a trovare la direttrice che le aveva promesso per il prossimo autunno il posticino. E una sera, appena rientrata, aveva sentito picchiare alla porta e una voce affannata che la scongiurava d’aprire. Quanto, quanto tempo non lo aveva tenuto lí, dietro la porta, tremando di qua e scongiurandolo a sua volta d’andarsene, di lasciarla in pace, di parlar piano per carità, che i vicini non udissero: era una pazzia, un’infamia, comprometterla a quel modo; via, via! che voleva da lei?

Un giorno Giorgio convince Mirina a lasciare il suo appartamento per fare un giro.

A un tratto, poiché egli non smetteva d’insistere e non se ne sarebbe andato, una risoluzione: s’era rimesso il cappellino, aveva aperto la porta: “Eccomi! Usciamo insieme. Vieni, vieni”. E qui tutti I ricordi s’accendevano; il cuore già intirizzito s’infocava ancora alla fiamma di quella sera, che tante lagrime versate poi non eran bastate a spegnere. Proprio tra le fiamme le era parso di camminare; sola con lui, a braccetto con lui, per le vie della città. E in mezzo al tramenío, al fragore di quelle vie, distinte le parole ch’egli le sussurrava all’orecchio, premendole il braccio col braccio. Già la chiamava sposina; e cosí sempre, a braccetto, sarebbero andati nella vita. Bisognava ora vincere l’opposizione della madre.

Tornano al appartamento e Giorgio la convince a baciarlo. Questo è ovviamente difficile per lei: da un lato Mirina è inesperta, incerta e timida e capisce che la famiglia di Giorgio non approva; d’altra parte gli affetti ei desideri intensi di Giorgio sono commoventi.

Ritornando verso casa, già tardi, gli aveva strappato la promessa, anzi il giuramento, che la avrebbe accompagnata soltanto fino alla porta; ma il giuramento era a prezzo d’un bacio. No! e come mai? per istrada? Ma egli disse che non aveva inteso fino all’uscio di strada, ma sú, fino in cima alla scala: lí il bacio; e poi, sí, l’avrebbe lasciata prima che lei aprisse la porta: lo aveva giurato.

Si baciano e poi Giorgio sembra lasciarla in pace. Ma no! Torna e alla fine (e forse contro il suo giudizio migliore) Mirina apre la porta dell’appartamento.

Se non che, dopo il primo bacio, mentre già sola nella cameretta, stordita e tremante di felicità, tentava di spuntarsi il cappellino, ecco di nuovo, attraverso la porta, pian piano, la voce di lui che gliene chiedeva un altro, un altro solo, un altro solo e poi basta: se ne sarebbe andato davvero. E lei, vinta alla fine, dopo aver detto tante volte di no, di no, vinta e costretta dall’imprudenza, dalla petulanza di lui, aveva riaperto la porta.

Sembra chiaro che abbiano avuto rapporti sessuali.

Giorgio poi la abbandona… ha preso vantaggio, ha soddisfatto i suoi desideri e poi l’ha lasciata. (Ovviamente Giorgio ha seguito il modello del nostro nuovo presidente cretino Trump!)

Come precipitando dalla sommità d’una montagna un torrente trascina con sé le pietre che poi nei mesi asciutti ne segnano il corso, cosí lei, precipitando dalla sua felicità, ora che negli occhi le lagrime le si erano inaridite, andava da venti anni sui sassi della via che il precipizio le aveva segnata; andava, e i piedi piú non le dolevano; andava, e gli occhi stanchi della grigia aridità del greto s’erano rivolti a contemplare la sommità da cui era caduta. Il cordoglio s’era sciolto, la disperazione s’era composta in un intenso muto rimpianto del bene perduto; e questo rimpianto a poco a poco, nella squallida desolazione, era divenuto un bene per se stesso, l’unico bene.

È stato 20 anni dall’incontro con Giorgio Novi. La Boccarmè è diventata un insegnante e ha creato una sorta della vita. Il lettore viene a sapere ancora una volta che la sua vita è tutto sulla solitudine, di dare agli altri e sulla privacy.

Vent’anni! Quante navi aveva veduto arrivare nel vecchio molo di quel paesello; quante ne aveva vedute ripartire!

Vestita sempre di nero, dolce, paziente e affettuosa con le bambine della scuola, non solo per il ricordo di quanto aveva sofferto a causa della durezza di certe insegnanti, ma anche perché, femminucce, le considerava destinate piú a soffrire che a godere; con quella combinazione della casa nella stessa scuola, se n’era vissuta appartata da tutti, compensandosi in segreto, con l’immaginazione e con le letture, di tutte le angustie e le mortificazioni che la timidezza le aveva fatto patire. E a poco a poco aveva preso gusto sempre piú a un certo amaro senso della vita che la inteneriva fino alle lagrime talvolta per cose da nulla: se una farfalletta, per esempio, le entrava in camera, di sera, mentre stava a correggere i compiti di scuola, e, dopo aver girato un pezzo attorno al lume, veniva là, sul tavolinetto sotto la finestra, davanti al quale lei stava seduta, a posarlesi lieve lieve sulla mano, come se la notte gliel’avesse mandata per darle un po’ di compagnia.

Apprendiamo anche che sebbene la Boccarmè non si è mai ripresa pienamente dalla sua esperienza, non dispera. Invece si è adattata… ha creato un mondo di fantasia interiore.

Tra poco avrebbe avuto quarant’anni; e forse sí, il viso le si era un po’ sciupato; ma l’anima no; per questo bisogno che aveva di fantasticare in silenzio, di vedere come avvolta nel lontano azzurro d’una favola, lei piccola piccola, tra tutto quel cielo e quel mare, la propria vita.

Guai se non lo avesse sentito piú questo bisogno! Tutte le cose, dentro e attorno, avrebbero perduto ogni senso per lei e ogni valore; e meglio morire allora!

La povera Boccarmè è scoraggiata dai suoi ricordi. La gioia naturale associata con i bambini solleva il suo spirito.

Con quegli occhi ancora gonfi dal pianto e senza quel brio di luce che spesso glieli rendeva argute e vivaci, si vide come finora non s’era veduta mai; con un infinito avvilimento di pena per quell’immagine con cui per tanto tempo s’era ostinata a rappresentarsi a se stessa. S’accorse che per gli altri non era, non poteva piú essere cosí. E come, allora? Si smarrí; e nuove lagrime, piú brucianti delle prime, le sgorgarono dagli occhi. No! no! Doveva essere ancora cosí! Ancora, passando per le viuzze alte del paesello, popolate d’innumerevoli bambini strillanti, nudi o con la sola camicina sudicia e sbrendolata addosso, ancora voleva esser guardata con amorosa ammirazione da tutte quelle umili mamme delle sue scolarette, che sedevano lí davanti alle porte delle loro casupole e la invitavano, cedendo subito la seggiola, a sedere un po’ con loro.

– Oh, guarda! La signora Direttrice!

– Venga qua! Segga qua, signora Direttrice!

Volevano sapere come facesse a incantare le loro bambine con certi discorsi ch’esse non sapevano riferire, ma che dovevano esser belli, sulle api, sulle formichette, sui fiori: cose che non parevano vere. E lei, a quelle loro maraviglie, sorrideva e rispondeva che lei stessa non avrebbe piú saputo ripetere ciò che aveva potuto dire in iscuola per un caso imprevisto, d’un’ape entrata in classe, d’un geranio che improvvisamente s’era acceso nel sole sul davanzale della finestra.

Una delle ironie della sua vita è che la Boccarmè è circondata dai bambini — nelle strade ed in scuola — ma lei non avrà mai uno proprio.

Povera lí, tra povere, aveva in sé questa ricchezza che godeva di darsi alle care animucce delle sue scolarette (“figlioline mie” come le chiamava); questa facoltà di commuoversi di tutto, di riconoscere in un sentimento suo, vivo, la gioja d’una fogliolina nuova che si moveva all’aria la prima volta, la tristezza della sua cucinetta quando, dopo cena, s’era spenta, e a veder lo squallore della cenere rimasta nei fornelli, ogni sera le sembrava che si fosse spenta per sempre; quel senso di nuovo, per cui, se un uccellino cantava, sapeva sí che quell’uccellino ripeteva il verso di tutti gli altri della sua famiglia, ma sentiva ch’esso era uno, lui, di cui udiva il verso per la prima volta, formato lí, ora, su quella fronda d’albero o su quella gronda di tetto, per una cosa d’ora, nuova nella vita di quell’uccellino.

S’era salvata cosí dalla disperazione.

E ancora, purtroppo, allorché i suoi doveri di maestra erano compiuti, e finite per la giornata le altre cose da fare, se per un momento la stanchezza la vinceva e vedeva d’un tratto precipitar nel vuoto la sua vita, ancora non era riuscita a liberarsi da certe torbide smanie che l’assalivano e le oscuravano lo spirito; ed erano pensieri cattivi, e sogni anche piú cattivi, la notte. Aver potuto scoprire in sé, nei silenzii infiniti della sua anima, un brulichío cosí vivo di sentimenti, non come una ricchezza propriamente sua, ma del mondo come ella lo avrebbe dato a godere a una creaturina sua; ed esser rimasta nell’angoscia di quella solitudine, cosí staccata per sempre da ogni vita!

Poi il narratore rende esplicitamente chiaro lo seguente: la vita della Boccarmè è solo di dare agli altri.

Lei non voleva ottener nulla; lei era nata per dare.

Incredibilmente, verso la fine della novella, la Boccarmè considera dando al Novi i soldi di cui ha bisogno dopo l’incontro con la Valpieri. Ci sono qualcosa di meno nel suo conto di risparmio (un conto che è destinato per la sua pensione).

Fissò gli occhi, improvvisamente accesi, e stette un po’ come in ascolto. Bisognavano a lui dodici o quindici mila lire, da versare a cauzione d’un modesto impiego: glielo aveva detto colei. Un brivido alla schiena. Raccolse le mani e, figgendosi la punta delle dita tra gli occhi e le sopracciglia, stette un pezzo cosí. Poi, sedendo in fretta davanti alla scrivania, cavò di tasca la chiave del cassetto; lo aprí, ne trasse il suo vecchio libretto della Cassa di Risparmio per vedere esattamente quanto avesse messo da parte in tanti anni per la sua vecchiaja, pur sapendo bene che non ammontava a quella cifra. Erano difatti poco piú di dieci mila lire. Ma a potere intanto disporre di quelle dieci…

La Boccarmè si chiede se il Novi sia degno di questa considerazione. (Anche noi ci chiediamo!)

Provò subito il bisogno di dire a se stessa che non lo faceva per lui, per averne in ricambio qualche cosa. Non voleva niente, lei, piú niente: non che la gratitudine di lui, ma neppure il ricordo: niente! E pensò dapprima di mandar quel denaro senza fargli sapere che glielo mandava lei. Ma poi per fortuna rifletté che con la presenza di quell’altra in paese, lui, certo ormai senza piú memoria di lei, avrebbe potuto supporre che il soccorso gli veniva da quella, a prezzo di chi sa quale vergogna.

No, no: ad evitare che cadesse in un cosí sciagurato equivoco, bisognava purtroppo ch’ella gli scrivesse e gli dicesse che appunto per la presenza della Valpieri nel paese aveva potuto sapere del bisogno di lui; e che gli mandava quel denaro perché lei non avrebbe saputo che farsene, prima di tutto, e poi perché le era caro far rivivere cosí in sé, per sé sola, il ricordo – non di lui, non di lui! – ma di tutto il male e di tutto il bene che le era venuto un giorno da lui. Cosí, ecco. Era la verità.

La fine della novella è ambigua. Sappiamo che la Boccarmè è rattristata dai suoi ricordi. Non è chiaro se gli mandi i soldi al Novi.

E cosí, richiamato a questo prezzo dal tempo lontano che lo aveva ingiallito, ravvivato dal sangue di questa nuova ferita, ella avrebbe potuto ora riappendere alla parete il vecchio ritrattino; per sé, unicamente per sé, per sentire ancora, dentro di sé, piú che mai soffuso dell’antica malinconia, il lontano azzurro della sua povera favola segreta, e poter seguitare a guardare con lo stesso animo quel cielo, quel mare, le navi che arrivavano nel vecchio Molo o ne ripartivano all’alba, lente, nel luminoso tremolío di quelle acque distese fino a perdita d’occhio.

Sí, ma se non era l’antico amore a farle da fermento dal piú profondo dell’anima, perché ora quella specie d’ebbrezza che le gonfiava il petto, e quello struggimento che voleva traboccarle in nuove lagrime; non piú brucianti, queste?

Per fortuna lo specchio era là nell’angolo, e la maestrina Boccarmè non vide come s’appuntiva sgraziatamente sulla sua povera bocca appassita quel vezzo che sogliono fare i bambini prima che si buttino a piangere; e il mento, come le tremava.

***

“Mi rifugerò in un sogno. E finché la realtà non cambia, non venitemi a cercare.” (A. Curnetta)

La Boccarmè sembra incapace di cambiamento: senza un mentore per guidarla, aiutarla a interpretare la sua storia, aiutarla immaginare un futuro nuovo, rimarrà bloccata.

Il lettore può quasi sentire il Pirandello dirle: “Io posso aiutarti! Dovremmo incontrarci! Posso visualizzare una strada da seguire avanti! Posso fornirti una nuova prospettiva che renderà la tua vita migliore! Capisco il tuo problema e io sono qui per aiutarti risolverlo!”

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