Riassunto: Tu ridi

Scosso dalla moglie, con una strappata rabbiosa al braccio, springò dal sonno anche quella notte, il povero signor Anselmo.

Inizia così Tu ridi, una storia luce dal cuore con un protagonista ammirevole, accattivante e credibile… il signor Anselmo.

È mezzanotte. Il signor Anselmo è addormentato—a fondo addormentato, profondamente addormentato—poi bruscamente svegliato dalla moglie, che afferra con rabbia il braccio e lo scuote. Il signor Anselmo springa (cioè, agita/gira/frulla) le gambe per svegliarsi.

– Tu ridi!

Stordito, e col naso ancora ingombro di sonno, e un po’ fischiante per l’ansito del soprassalto, inghiottí; si grattò il petto irsuto; poi disse aggrondato:

– Anche… perdio… anche questa notte?

– Ogni notte! ogni notte! – muggí la moglie, livida di dispetto.

Questo rituale, fra marito e moglie, sembra accadere ogni notte. Intendiamo che il signor Anselmo ride ad alta voce mentre dorme… la sua risata risveglia la moglie, che poi si rivale / si vendica.

Il signor Anselmo ha i suoi dubbi circa la risata, si chiede se la moglie sia corretta. La moglie però non lascia alcun dubbio sul fatto che ride forte, ad alta voce, nel sonno, mentre sogna lui.

Il signor Anselmo si sollevò su un gomito, e seguitando con l’altra mano a grattarsi il petto, domandò con stizza:

– Ma proprio sicura ne sei? Farò qualche versaccio con le labbra, per smania di stomaco; e ti pare che rida.

– No, ridi, ridi, ridi, – riaffermò quella tre volte. – Vuoi sentir come? cosí.

E imitò la risata larga, gorgogliante, che il marito faceva nel sonno ogni notte.

Stupito, mortificato e quasi incredulo, il signor Anselmo tornò a domandare:

– Cosí?

– Cosí! Cosí!

Poi impariamo che la moglie soffre di una (o più) malattia cronica. Uno dei suoi sintomi sembra essere una mancanza di energia; lei soffre anche da mal di testa cronico, un disturbo nervoso poco caratterizzato (per il quale lei prende farmaci), e le palpitazioni cardiache.

E la moglie, dopo lo sforzo di quella risata, riabbandonò, esausta, il capo sui guanciali e le braccia su le coperte, gemendo:

– Ah Dio, la mia testa…

A questo punto il Pirandello sembra utilizzare bei immagini e la metafora per descrivere una vita rovinata / diminuita da una malattia cronica.

Nella camera finiva di spegnersi, singhiozzando, un lumino da notte davanti a un’immagine della Madonna di Loreto, sul cassettone. A ogni singhiozzo del lumino, pareva sobbalzassero tutti i mobili.

Il lettore comincia a capire che il signor Anselmo è stato costretto ad adattarsi alla condizione della moglie… cioè, che la propria vita è stata anche diminuita dalla malattia cronica della moglie. Inoltre la moglie sembra di capire che ha perso la capacità di soddisfare le esigenze del marito (almeno, come ha fatto una volta), dunque lei sembra essere costantemente attenta/vigile alla possibilità che lui avrebbe potuto tradirla.

Infatti la moglie presuppone che le risate ricorrenti del marito riflettono i suoi sogni dei piaceri (“guazzasse chi sa in quali beatitudini”) che sperimenta fuori di casa.

Irritazione e mortificazione, ira e cruccio sobbalzavano allo stesso modo nell’animo stramazzato del signor Anselmo, per quelle sue incredibili risate d’ogni notte, nel sonno, le quali facevano sospettare alla moglie che egli, dormendo, guazzasse chi sa in quali beatitudini, mentr’ella, ecco, gli giaceva accanto, insonne, arrabbiata dal perpetuo mal di capo e con l’asma nervosa, la palpitazione di cuore, e insomma tutti i malanni possibili e immaginabili in una donna sentimentale presso alla cinquantina.

Pertanto, il signor Anselmo deve adattarsi non solo alle limitazioni imposte dalla malattia di sua moglie (“tutti i malanni”) ma anche per le sue accuse, la sua gelosia.

– Vuoi che accenda la candela?

– Accendi, sí, accendi! E dammi subito le gocce: venti, in un dito d’acqua.

Il signor Anselmo accese la candela e scese quanto piú presto poté dal letto. Cosí in camicia e scalzo, passando davanti all’armadio per prendere dal cassettone la boccetta dell’acqua antisterica e il contagocce, si vide nello specchio, e istintivamente levò la mano a rassettarsi sul capo la lunga ciocca di capelli, con cui s’illudeva di nascondere in qualche modo la calvizie. La moglie dal letto se n’accorse.

– S’aggiusta i capelli! – sghignò. – Ha il coraggio d’aggiustarsi i capelli, anche di notte tempo, in camicia, mentr’io sto morendo!

Il signor Anselmo si voltò, come se una vipera lo avesse morso a tradimento; appuntò l’indice d’una mano contro la moglie e le gridò:

– Tu stai morendo?

– Vorrei, – si lamentò quella allora, – che il Signore ti facesse provare, non dico molto, un poco di quello che sto soffrendo in questo momento!

(ahahahahaha)

Poi guadagniamo visione / comprensione nel carattere del signor Anselmo: è intelligente (cioè, è capace di pensare attraverso i suoi problemi e poi risolverli), ha anche la forza di carattere (cioè, non diventa eccessivamente emotivo o insoddisfatto; allo stesso modo è capace di difendere se stesso ogni volta che è ingiustamente accusato di qualcosa). È chiaro che lui adatta tranquilamente / in silenzio all’avversità: abbiamo l’impressione che il signor Anselmo non è sul punto di strappare / fare a pezzi / distruggere la sua vita a causa delle avversità, vale a dire che lui è ben lungo da uno stato di disperazione.

– Eh, cara mia, no, – brontolò il signor Anselmo. – Se davvero ti sentissi male, non baderesti a rinfacciarmi un gesto involontario.

Una piccola deviazione avviene a questo punto della storia: il signor Anselmo gesti con le mani, lascia cadere il farmaco e deve andare in cucina per ottenere un po’ di più.

Ho alzato appena la mano, ho alzato… Mannaggia! Quante ne avrò fatte cadere?

E buttò per terra con uno scatto d’ira l’acqua del bicchiere, in cui, invece di venti, chi sa quante gocce di quella mistura antisterica erano cadute. E gli toccò andare in cucina, cosí scalzo e in camicia, a prendere altra acqua.

– Io rido…! Signori miei, io rido… – diceva tra sé, attraversando in punta di piedi, con la candela in mano, il lungo corridojo.

Siamo poi introdotto alla nipote del signor Anselmo, Susanna, che ha 8 anni ed è stata svegliata dal trambusto.

Un vocino d’ombra venne fuori da un uscio aperto su quel corridojo.

– Nonnino…

Era la voce d’una delle cinque nipotine, la voce di Susanna, la maggiore e la piú cara al signor Anselmo, che la chiamava Susí.

Susanna è uno delle 5 nipote che vivono con il signor Anselmo e sua moglie. Il loro padre (figlio dei nonni) è morto tragicamente in età precoce e, dopo la morte, la moglie ei figli si sono trasferiti alla casa dei nonni.

Poi impariamo che di recente la nuora si è innamorata di un altro uomo, e lei ha lasciato alle spalle la casa ei suoi bambini. Quindi la cura dei bambini è diventata la responsabilità del signor Anselmo.

Aveva accolto in casa da due anni quelle cinque nipotine, insieme con la nuora, alla morte dell’unico figliuolo. La nuora, trista donnaccia, che a diciotto anni gli aveva accalappiato quel suo povero figliuolo, per fortuna se n’era scappata di casa da alcuni mesi con un certo signore, amico intimo del defunto marito; e cosí le cinque orfanelle (di cui la maggiore, Susí, aveva appena otto anni) erano rimaste sulle braccia del signor Anselmo, proprio sulle braccia di lui, poiché su quelle della nonna, afflitta da tutti quei malanni, è chiaro che non potevano restare. La nonna non aveva forza neanche di badare a se stessa.

Veniamo a sapere che il signor Anselmo ha 56 anni… ha iniziato a mostrare segni evidenti d’invecchiamento. Tuttavia, invece di una transizione graziosa alla vecchiaia, sembra che il destino del signor Anselmo sia che deve fare i conti con le avversità, cioè i vari nuovi oneri significativi che sono stati costretti su di lui: la malattia della moglie e la sua gelosia, la morte del figlio, e la necessità di curare le nipote.

Ma badava, sí, se il signor Anselmo involontariamente alzava una mano a raffilarsi sul cranio i venticinque capelli che gli erano rimasti. Perché, oltre tutti quei malanni, aveva il coraggio, la nonna, d’essere ancora ferocemente gelosa di lui, come se nella tenera età di cinquantasei anni, con la barba bianca, il cranio pelato, in mezzo a tutte le delizie che la sorte amica gli aveva prodigate; e quelle cinque nipotine sulle braccia, alle quali col magro stipendio non sapeva come provvedere; col cuore che gli sanguinava ancora per la morte di quel suo disgraziato figliuolo; egli potesse difatti attendere a fare all’amore con le belle donnine!

Non rideva forse per questo? Ma sí! Ma sí! Chi sa quante donne se lo sbaciucchiavano in sogno, ogni notte!

(C’è qui ironia significativa. Il signor Anselmo fa beffe all’idea che ha o tempo o soldi o energia per tradire sua moglie!)

A questo punto il signor Anselmo rivolge la sua attenzione alla sua risata durante il sonno. Capisce bene che la gelosia della moglie è la principale fonte della sua rabbia di notte, quando lo sveglia.

La furia con cui la moglie lo scrollava, la rabbia livida con cui gli gridava: “Tu ridi!” non avevano certo altra ragione, che la gelosia.

La quale… niente, via, che cos’era? una piccola, ridicola scheggina di pietra infernale, data da quella sua sorte amica in mano alla moglie, perché si spassasse a inciprignirgli le piaghe, tutte quelle piaghe, di cui graziosamente aveva voluto cospargergli l’esistenza.

Quello che segue è una scena tenera, in cui il signor Anselmo entra la camera da letto di Susanna per confortarla e aiutarla tornare a dormire.

Il signor Anselmo posò a terra presso l’uscio la candela, per non svegliare col lume le altre nipotine, ed entrò nella cameretta, al richiamo di Susí.

Per maggior consolazione del nonno, che le voleva tanto bene, Susí cresceva male; una spalluccia piú alta dell’altra e di traverso, e di giorno in giorno il collo le diventava sempre piú come uno stelo troppo gracile per sorregger la testina troppo grossa. Ah, quella testina di Susí…

Il signor Anselmo si chinò sul letto, per farsi cingere il collo dal magro braccino della nipote; le disse:

– Sai, Susí? Ho riso!

Susí lo guardò in faccia con penosa meraviglia.

– Anche stanotte?

– Sí, anche stanotte. Una risatoooòna… Basta, lasciami andare, cara, a prender l’acqua per la nonna… Dormi, dormi, e procura di ridere anche tu, sai? Buona notte.

Baciò la nipotina sui capelli, le rincalzò ben bene le coperte, e andò in cucina a prender l’acqua.

Abbiamo il senso che il rapporto tra il signor Anselmo e Susanna rappresenta uno dei suoi adattamenti agli oneri della vita quotidiana: non limita lui a parlare con Susanna, sembra confidare a lei. (La nostra sensazione è che Susanna servi come sostituto di sorta per entrambi moglie e figlio del signor Anselmo.) Non c’è alcun indicazione che il rapporto è qualcosa di diverso da tenero, appropriato, condiviso, mutuale.

Poi veniamo a sapere che il signor Anselmo è un pensatore libero. Non sembra praticare la fede religiosa e, pertanto, non usa simboli religiosi (Dio in cielo, il diavolo in inferno) per spiegare gli eventi sfortunati della sua vita.

Ajutato con tanto impegno dalla sorte, il signor Anselmo era riuscito (sempre per sua maggior consolazione) a sollevar lo spirito a considerazioni filosofiche, le quali, pur senza intaccargli affatto la fede nei sentimenti onesti profondamente radicati nel suo cuore, gli avevano tolto il conforto di sperare in quel Dio, che premia e compensa di là. E non potendo in Dio, non poteva per conseguenza neanche piú credere, come gli sarebbe piaciuto, in qualche diavolaccio buffone che gli si fosse appiattato in corpo e si divertisse a ridere ogni notte, per far nascere i piú tristi sospetti nell’animo della moglie gelosa.

Dunque Il signor Anselmo ragiona che la sua risata dev’essere causata di una malattia fisica.

Era sicuro, sicurissimo il signor Anselmo di non aver mai fatto alcun sogno, che potesse provocare quelle risate. Non sognava affatto! Non sognava mai! Cadeva ogni sera, all’ora solita, in un sonno di piombo, nero, duro e profondissimo, da cui gli costava tanto stento e tanta pena destarsi! Le pàlpebre gli pesavano sugli occhi come due pietre di sepoltura.

E dunque, escluso il diavolo, esclusi i sogni, non restava altra spiegazione di quelle risate che qualche malattia di nuova specie; forse una convulsione viscerale, che si manifestava in quel sonoro sussulto di risa.

Dopo aver raggiunto questa conclusione, il signor Anselmo visita lo studio del medico di sua moglie, un giovanotto che specializza nei disturbi nervosi.

Il giorno appresso, volle consultare il giovane medico specialista di malattie nervose, che un giorno sí e un giorno no veniva a visitar la moglie.

Il medico è uno spasso! Ha dedicato la sua vita alla medicina, tanto che è invecchiato prematuramente. Ha anche un espediente: ha eterocromia, una condizione caratterizzata da una differenza di colore degli iridi degli occhi.

 

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Eterocromia

(Nel caso del medico, un iris sembra essere di colore giallo e l’altro verde.)

Il medico utilizza l’eterochromia per convincere i suoi pazienti a fidarsi e seguire il suo consiglio!!!!!!!!!!

E aveva, oltre la sua scienza speciale delle malattie nervose, un’altra specialità, che offriva gratis però ai signori clienti: gli occhi, dietro gli occhiali, di colore diverso: uno giallo e uno verde. Chiudeva il giallo, ammiccava col verde, e spiegava tutto. Ah spiegava tutto lui, con una chiarezza maravigliosa, per dare ai signori clienti, anche nel caso che dovessero morire, intera soddisfazione.

(Tutti noi abbiamo bisogno di un espediente nella vita!)

Durante la visita, il signor Anselmo vuole sapere se qualcos’altro che un sogno potrebbe indurlo a ridere a notte.

– Dica dottore, può stare che uno rida nel sonno, senza sognare? Forte, sa? Certe risatooòne…

Il medico spiega che un sogno è di gran lunga la spiegazione più probabile.

Il giovane medico prese a esporre al signor Anselmo le teorie piú recenti e accontate sul sonno e sui sogni; per circa mezz’ora parlò, infarcendo il discorso di tutta quella terminologia greca che fa cosí rispettabile la professione del medico, e alla fine concluse che – no – non poteva stare. Senza sognare, non si poteva ridere a quel modo nel sonno.

Il signor Anselmo rifiuta ancora una volta l’idea che sogna di notte.

– Ma io le giuro, signor dottore, che proprio non sogno, non sogno, non ho mai sognato! – esclamò stizzito il signor Anselmo, notando il riso sardonico con cui la moglie aveva accolto la conclusione del giovane medico.

Tuttavia il medico non modifica/cambia l’opinione.

– Eh no, creda! Cosí le pare, – soggiunse questi, tornando a chiudere l’occhio giallo e ad ammiccare col verde. – Cosí le pare… Ma lei sogna. È positivo. Soltanto, non serba il ricordo de’ sogni, perché ha il sonno profondo. Normalmente, gliel’ho spiegato, noi ci ricordiamo soltanto dei sogni che facciamo, quando i veli, dirò cosí, del sonno si siano alquanto diradati.

– Dunque rido dei sogni che faccio?

– Senza dubbio. Sogna cose liete e ride.

Sulla strada di casa, il signor Anselmo fa beffe l’opinione del medico,

– Che birbonata! – scappò detto allora al signor Anselmo. – Dico esser lieto, almeno in sogno, signor dottore, e non poterlo sapere! Perché io le giuro che non ne so nulla! Mia moglie mi scrolla, mi grida: “Tu ridi!” e io resto balordo a guardarla in bocca, perché non so proprio né d’aver riso, né di che ho riso.

…ma poi vediamo (ancora una volta) la sua intelligenza, cioè, la sua capacità di usare la ragione per risolvere un problema. Alla fine il signor Anselmo conclude che il medico aveva ragione!

Ma ecco qua, ecco qua: c’era, alla fine! Sí, sí. Doveva esser cosí. Provvidenzialmente la natura, di nascosto, nel sonno lo ajutava. Appena egli chiudeva gli occhi allo spettacolo delle sue miserie, la natura, ecco, gli spogliava lo spirito di tutte le gramaglie, e via se lo conduceva, leggero leggero, come una piuma, pei freschi viali dei sogni piú giocondi. Gli negava, è vero, crudelmente, il ricordo di chi sa quali delizie esilaranti; ma certo, a ogni modo, lo compensava, gli ristorava inconsapevolmente l’animo, perché il giorno dopo fosse in grado di sopportare gli affanni e le avversità della sorte.

Il giorno successivo torna all’ufficio del medico il signor Anselmo, questa volta con Susanna, la quale chiede di dimostrare la sua risata. L’imitazione induce il signor Anselmo ad accettare il fatto che sogna di notte.

E ora, ritornato dall’ufficio, il signor Anselmo si toglieva su le ginocchia Susí, che sapeva imitar cosí bene la risatona ch’egli faceva ogni notte, per averla sentita ripetere tante volte dalla nonna; le accarezzava l’appassito visetto di vecchina, e le domandava:

– Susí, come rido? Sú, cara, fammela sentire, la mia bella risata.

E Susí, buttando indietro la testa e scoprendo il gracile colluccio di rachitica, prorompeva nell’allegra risatona, larga, piena, cordiale.

Il signor Anselmo, beato, la ascoltava, la assaporava, pur con le lacrime in pelle per la vista di quel colluccio della bimba; e, tentennando il capo e guardando fuori della finestra, sospirava:

– Chi sa come sono felice, Susí! Chi sa come sono felice, in sogno, quando rido cosí.

Siamo lasciati ad interrogare sulla natura dei suoi sogni, la fonte della sua risata. Il Pirandello ci fornisce un esempio.

Purtroppo, però, anche questa illusione doveva perdere il signor Anselmo.

Gli avvenne una volta, per combinazione, di ricordarsi d’uno dei sogni, che lo facevano tanto ridere ogni notte.

Ecco: vedeva un’ampia scalinata, per la quale saliva con molto stento, appoggiato al bastone, un certo Torella, suo vecchio compagno d’ufficio, dalle gambe a roncolo. Dietro al Torella, saliva svelto il suo capo-ufficio, cavalier Ridotti, il quale si divertiva crudelmente a dar col bastone sul bastone di Torella che, per via di quelle sue gambe a roncolo, aveva bisogno, salendo, d’appoggiarsi solidamente al bastone. Alla fine, quel pover’uomo di Torella, non potendone piú, si chinava, s’afferrava con ambo le mani a un gradino della scalinata e si metteva a sparar calci, come un mulo, contro il cavalier Ridotti. Questi sghignazzava e, scansando abilmente quei calci, cercava di cacciare la punta del suo crudele bastone nel deretano esposto del povero Torella, là, proprio nel mezzo, e alla fine ci riusciva.

Allora… il signor Anselmo ride delle sciocchezze! Ride gli sceni immaginari della sua vita che coinvolgono la sfortuna degli altri!

Il signor Anselmo è imbarazzato… non è sotto di lui a sognare delle cose insignificanti, banale e malspiritate?

A tal vista, il signor Anselmo, svegliandosi, col riso rassegato d’improvviso su le labbra, sentí cascarsi l’anima e il fiato. Oh Dio, per questo dunque rideva? per siffatte scempiaggini?

Contrasse la bocca, in una smorfia di profondo disgusto, e rimase a guardare innanzi a sé.

Per questo rideva! Questa era tutta la felicità, che aveva creduto di godere nei sogni! Oh Dio… Oh Dio…

Il Pirandello ha l’ultima parola … ci informa che ridere di cose irrilevanti è tutto a posto, cioè, un modo sano per uno adattare agli oneri della vita quotidiana.

Tali sogni in sé e per sé sono innocui… nessuno è ferito da loro. Infatti se gli permettono di far fronte, possono essere capito d’avere uno scopo, d’essere utile.

Se non che, lo spirito filosofico, che già da parecchi anni gli discorreva dentro, anche questa volta gli venne in soccorso, e gli dimostrò che, via, era ben naturale che ridesse di stupidaggini. Di che voleva ridere? Nelle sue condizioni, bisognava pure che diventasse stupido, per ridere.

Come avrebbe potuto ridere altrimenti?

 

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