Riassunto: Lo storno e l’Angelo Centuno

Sud Italia… la campagna… prestissimo la mattina (prima dell’alba!). E quattro uomini hanno già camminato per tre ore! Ora, tutt’e quattro sono affamati e anche frustrati: hanno cercato, ripetutamente, di abbreviare il loro viaggio attraverso una serie di scorciatoie suggerite da Stefano Traína (uno dei quattro uomini). Senza successo! Le false iniziazioni ei ritorni hanno sprecato tempo… e adesso un profondo senso della fatica ha cominciato svilluparsi.

Ci eravamo levati a bujo e camminavamo da tre ore con una fame da lupi, per certe scorciatoje scellerate che, a dire di Stefano Traína, ci avrebbero fatto risparmiare un terzo di cammino: ma già tre o quattro volte ci era toccato di tornare indietro, non trovando l’uscita, e non so quanto tempo avevamo perduto a scavalcar muricce, e cercare il passo tra fitte siepi di àgavi e di rovi, a traversar rigagnoli sui ciottoli: fatiche da bestie,

Il narratore, il cui nome non è mai stato scritto, sembra avere la presenza della mente di ‘trovare una fodera d’argento in ogni nuvola scura’: qui per esempio, lui, nonostante la sua frustrazione, menziona come la bellezza naturale della campagna compensa per il perduto di sonno, la stanchezza estrema.

che ci avevano tolto l’unico compenso al sonno perduto: quello di godere, camminando per vie piane, l’ilare freschezza dell’aria mattutina in campagna.

In un primo momento, non sappiamo niente della ragione del viaggio, ma ci viene dato un indizio: gli uomini sono pesantemente armati.

E gli scarponi e le munizioni da caccia ci pesavano e la cinghia del fucile ci segava le spalle.

Stefano Traína ha assunto una posizione di comando / guida / direzione. Gli uomini sono cacciatori (hah!), e la loro preda è un tipo di uccello, uno storno, che tipicamente migrano in enormi greggi in questo periodo dell’anno. È l’autunno, cioè, il periodo dell’anno in cui le olive sono mature e pronte per il raccolto. Appariamo che gli storni sono naturalmente attratti dalle olive… quindi, ogni anno ci sarà una concorrenza feroce tra uomini e uccelli per gli olivi!

Chi di noi tre, in tali condizioni, poteva aver animo da contraddire Stefano Traína e da difendere gli storni ch’egli ci dipingeva come una vera calamità per le campagne, peggio assai delle cavallette, vero flagello di Dio?

Ma Stefano Traína era fatto cosí: parlando aveva bisogno di credere che qualcuno lo contraddicesse; e accalorandosi sempre piú, volle far sapere a noi tre poveri innocenti, che gli storni vanno a nugoli cosí fitti che, se passano davanti al sole, l’oscurano;

Perché sono una tale minaccia gli storni? Stefano Traína spiega che uno storno è in grado di catturare e portare tre olive alla volta: un’oliva in ogni artiglio e un terzo nel suo becco. Inoltre, sono capaci di deglutire un intero olivo!

…se calano su un bosco d’olivi, in un batter d’occhio lo stèrminano. Perché ogni storno si porta via con sé nientemeno che tre ulive, una per zampa e una nel becco; e questa del becco se la ingoja sana sana e la digerisce come niente.

– Con tutto l’osso? – domandò Bartolino Gaglio, sgomento.

– Con tutto l’osso.

E Sebastiano Terilli esclamò:

– All’anima del ventricolo!

– Gli storni? Ma se vi dico… – seguitò Stefano Traína.

Eventualmente lo scopo del viaggio diventa chiaro. I quattro uomini sono in viaggio a Montelusa… in particolare ad un oliveto di proprietà d’un prete, il Celestino Calandra. Quest’anno il Calandra spera di massimizzare il suo raccolto, e ha chiesto l’aiuto del suo amico, Stefano Traína, cioè, di mantenere gli uccelli lontani dagli alberi… cioè, sparando a loro!

Stefano Traína ha concordato, e ha reclutato gli altri tre (cioè, il narratore, Bartolino Gaglio e Sebastiano Terilli).

Per concludere che se da un canto noi dovevamo ringraziare Celestino Calandra – il piú giovane e il piú bello dei canonici di Montelusa – per averci invitati a passare una settimana nelle sue terre di Cumbo, dall’altro Celestino Calandra doveva restar grato a noi del segnalato servizio che gli avremmo reso, salvandogli il raccolto delle ulive con la nostra caccia agli storni.

Infatti nessuno dei quattro è un cacciatore esperto. (Le loro armi sono state acquistate poco prima del viaggio a Montelusa.)

È vero che non eravamo mai stati a caccia, né io né Sebastiano Terilli né Bartolino Gaglio, come si poteva vedere dai nostri fucili nuovi fiammanti, comperati il giorno avanti.

I reclutatori hanno espresso una preoccupazione per la loro mancanza di esperienza, ma Stefano Traína li ha rassicurato che non ci sarà un problema… ci saranno tanti storni che potranno sparargli con ‘occhi chiusi’!

Ma questo non voleva dir nulla. Agli storni – sosteneva Stefano Traína – si spara anche con gli occhi chiusi.

Tuttavia, certo, non tutto va secondo il piano: gli uomini sparano gli ulivi invece degli uccelli!

Ecco, forse fu perché sparammo con un occhio chiuso e l’altro aperto, ma il fatto è che, dopo quattro giorni di caccia accanita nell’oliveto di Cumbo, non uno storno, che si dice uno, riuscimmo a far cadere, neppure per combinazione; ulive sí, invece, oh, a ogni scarica, giú come grandinare;

Il Calandra, buono e generoso, tollera l’ineguaglianza dei cacciatori,

tanto che il buon Celestino Calandra (giovane e santo) cominciò a dire tra bellissime risate che una consolazione cosí non gliela poteva mandare altri che Dio.

…ma era un’altra cosa quando — invece degli storni ed invece degli olivi — i cacciatori uccidono dei polli del Calandra!

Lo sterminio ci fu, ma nel pollajo di Cumbo. Una fame pantagruelica si sviluppò in tutti noi quattro giovani cacciatori. Ma era forse la rabbia che ci divorava per tutti gli storni falliti, che se ne volavano via pian pianino, senza fretta, come se volessero dirci: “Uh, come siete nojosi, con codeste schioppettate!”

La governante del Calandra, la vecchia donna Gesa, era infelice / arrabbiata / dispiaciuta!

La vecchia donna Gesa, casiera di Celestino Calandra (vecchia e santa), con due mazzi di pollastrelli, uno per mano, dai colli tirati e ciondolanti, ci fulminava con gli occhi ogni mattina al ritorno dalla caccia;

(Domanda: Come mai possibile, eh?, uccidere i polli a terra quando cercano uccidere gli uccelli nel cielo?!?)

Di notte i ‘cacciatori’e il Calandra prendono un pasto insieme, e questi pasti sono le occasioni per vivaci dibattiti intensi, soprattutto per l’istigazione di uno dei cacciatori, Sebastiano Terilli, che, come risulta, si dimostra particolarmente feroce ed insopportabile… ci viene detto che la maggior parte della sera, il Calandra era il suo avversario.

…fulminava piú di tutti Sebastiano Terilli, il quale, non contento dello sterminio delle ulive e dei polli, faceva poi, a tavola, arrabbiare Monsignore con certe discussioni che non stavano né in cielo né in terra.

Quel buon odore di casa campestre perduta in mezzo agli olivi e ai mandorli, quelle camere patriarcali, nude ampie sonore, dai pavimenti avvallati, che sapevano di antiche granaglie e di mosto e del sudore di chi fatica al sole e del fumo che esalano la paglia e la legna dei rozzi focolari, non erano riusciti a disarmare l’acre spirito di Sebastiano, filosofo dilettante e materialista convinto. È vero ch’egli ficcava l’anima in tutte le sue esclamazioni molto frequenti: – “All’anima di questo! all’anima di quello!” – ma quell’anima non era un’anima: era un modo d’intercalare.

Intendiamo che infatti i dibattiti più spiritosi avvegono dopo cena, in un momento in cui la Gesa prepara di solito a letto. I dibattiti sembrano sia affascinarla che infastidirla. È provocata sopratutto dalle osservazioni ed azioni del Terilli: ci è stato detto che il comportamento di lui è spesso arrogante, impudente ed irrispettoso. Ciònonostante la Gesa non dice nulla.

Le discussioni piú calorose avvenivano la sera, dopo cena, e disturbavano donna Gesa, la casiera, la quale prima d’andare a letto si rincantucciava, tutta raffagottata, in un angolo a recitare il rosario di quindici poste. La disturbavano, perché di continuo ella si sentiva tentata a interloquire e rintuzzare, come si scorgeva chiaramente dagli atti che faceva, dalle smusate che dava, da quel dito che di tratto in tratto si passava rapidamente due o tre volte sotto il naso arricciato.

Poi ci viene fornita una descrizione della Gesa.

Era una donnetta piccola magra e viva, sempre un po’ irritata. Tra le lunghe labbra sottili la saliva le friggeva. Batteva di continuo le palpebre su gli occhietti neri e furbi, da furetto. Giú dalle tempie, per le gote, fino al naso, le si allungava a fior di pelle un’intricata diramazione d’esilissime venicciuole violette.

Infine… una mattina, a colazione, la Gesa decide di ‘parlare la sua mente’ (come dicono gli Americani) o ‘esprimere la sua opinione’ (come dicono gli Italiani): gli uomini stanno discutendo il matrimonio ed, in particolare, i problemi legati ai ‘suoceri’. L’oggetto del più disprezzo intenso sembra chiaramente essere le suocere.

Una mattina finalmente, dopo colazione, non poté piú reggere. Si parlava di donne e di prender moglie e di suocere e di nuore. Stefano Traína, che aveva in casa una suocera demonio, s’era scagliato in una invettiva furibonda contro tutte le suocere.

La Gesa controproduce quello che sente con l’opinione che, a volte, una nuora creerà i più problemi.

– Ma tante volte, – uscí allora a dire donna Gesa, con le mani levate e le narici frementi, – sono vipere le nuore! Vipere, sí, vipere, vipere! E voce di cattive intanto hanno sempre le suocere.

Il suo commento sembra sconvolgere Stefano Traína che poi lascia improvvisamente, in rabbia apparente!

Stefano Traína la guardò un tratto come basito; balzò in piedi, corse in camera a prendere il fucile, e scappò via.

…provocando gli altri uomini a ridere!

Rompemmo tutti in una risata fragorosa.

La Gesa non sembra capire, guardando a Celestino Calandra per il sostegno.

Donna Gesa aggrottò le ciglia, e aspettò che finissimo di ridere; poi si volse verso Monsignore e, tentennando il capo in segno di commiserazione, domandò:

– Era buona la Poponè? Vossignoria lo sa: quella del miracolo dell’Angelo Centuno.

Gli uomini sembrano comprendere che la Gesa ha una storia interessante da raccontare. Le implorano di spiegare il suo punto di vista.

– Raccontate! raccontate! – le gridammo io e Bartolino Gaglio.

Prima di cominciare, tuttavia, il Terilli mette in dubbio la premessa della sua storia.

Ma Sebastiano Terilli, facendo campana:

– Un momento! Aspettate! Come avete detto? Centuno? C’è l’angelo cento e l’angelo centuno?

Bartolino Gaglio oppone rapidamente all’interruzione,

– Mi pare! – gli gridò subito in faccia Bartolino Gaglio, temendo che l’interruzione indignasse la vecchia e le facesse passar la voglia di raccontare. – Centuno, centodue, centotré… Che maraviglia? Ci sono gli angeli e Dio assegna il numero a ciascuno.

…ed il Calandra fornisce qualche spiegazione.

Celestino Calandra (giovane e santo) sorrise bonariamente e ci spiegò che quel centuno, non era, a dir proprio, un numero progressivo; ma che si trattava invece di un angelo particolare, per cui la gente del paese aveva una special divozione, come quello che aveva in custodia cento anime del purgatorio e le guidava ogni notte a sante imprese.

– Un angelo centurione? – fece il Terilli.

– Dunque… dunque, la Poponè? – domandai io, infastidito, rivolto a donna Gesa.

Infine, la Gesa è ‘autorizzata’ a procedere: il protagonista della sua storia è la Poponè (cioè, Maragrazia Aiello): impariamo che la Poponè ha 60 anni ed è la madre d’un figlio che adora.

Questa si sedette e prese a narrare:

“Si chiamava veramente Maragrazia Ajello. Di soprannome, Poponè. Tutti gli Ajello, di padre in figlio, sono intesi cosí, chi sa perché.

Buona come il pane, sempre con gli occhi a terra, poverina, e con le labbra cucite. Il suo non era suo. S’era spogliata di tutto per il figlio, e stava dove la mettevano, senza dar fastidio neanche all’aria.

Tuttavia la moglie di suo figlio, Maricchia, è un incubo… figlia dell’Inferno!

La nuora, invece, che si chiamava Maricchia, dispetti sopra dispetti, dalla mattina alla sera. Facciaccia tosta, che non arrossiva di nulla, linguacciuta e cimentosa poi!

Non c’è peggio delle donne cimentose.

Non voleva portare la mantellina come tutte le villane, perché diceva che il padre era della maestranza: portava il manto di lana, a pizzo e con la frangia, e voleva esser chiamata ‘gnora e non comare.

La Poponè, zitta, per amore del figliuolo che abbozzava anche lui. Un po’ bestialotto era. Se fosse stato figlio mio! Basta.

Quante ne patí, povera creatura di Dio, la Poponè!

Ci viene fornita una descrizione della Poponè: ha invecchiato bene… è bella, giovane in apparenza e leggera a cuore!

A sessant’anni – bisognava vederla – non un pelo bianco. Pareva una madonnina di cera, linda linda, coi capelli gremiti e fresca nelle carni piú di una ragazza di quindici. Vestiva, come tutte le poverette, di baracane; ma ogni casacchina addosso a lei pareva di seta: tanto bel portamento aveva, con un che di civile. Tutti le davano passo appena la vedevano. Mi ricordo le mani, che finezza! Parevano un velo di cipolla. E sí che avevano faticato quelle mani!

Allora impariamo che la Poponè ha la Fede: in particolare, ha la capacità di comunicare con le anime nel Purgatorio e vedere il futuro!

Non c’era neanche da dire che la nuora si dispendiasse per lei, che pure aveva ceduto in vita al figliuolo tutto quanto possedeva: la casetta e una piccola chiusa, sotto le Fornaci. Campava ancora sul suo, facendo novene e recitando rosarii per conto dei divoti che venivano a trovarla fino a casa da miglia e miglia lontano, e la compensavano delle grazie che riusciva a impetrare dalle anime sante del Purgatorio, con le quali durante la notte era in comunione.

Se ne vedevano le prove ogni giorno.

Per esempio…

Una volta – consta a me – una povera madre venne a trovarla per un figliuolo ch’era in America e non le scriveva piú da tre mesi.

– Ritornate domani, – le disse la Poponè.

E il giorno appresso le annunciò che il figliuolo non le aveva piú scritto perché era in viaggio di ritorno, e che già era arrivato a Genova e tra pochi giorni lo avrebbe riabbracciato.

La Gesa allora offre questa valutazione.

Cosí fu. Guardate: lo dico, e mi s’aggricciano ancora le carni. Santa! santa! era proprio una santa la Poponè!

Un giorno, la Poponè decide di visitare sua sorella che vive nel paese di Favara. A questo fine, decide di chiedere a un amico, zi’Lisi, per un favore: vuole prendere in prestito la sua asina per il viaggio.

Ne chiese licenza al figliuolo e, avutala, andò da un compare del vicinato, che si chiamava zi’ Lisi, per chiedergli in prestito una vecchia asinella ch’egli aveva, un po’ tignosa, ma tranquilla come una tartaruga.

Zi’Lisi è un personaggio peculiare: fissa sulla salute ed il benessere dell’asina… (alla notevole fastidio dei suoi vicini).

Sapeva bene la Poponè, che a lei, zi’ Lisi, non l’avrebbe negata, quantunque per quella sua asina avesse tanto amore che non aveva piú pace per tutto un giorno se essa la mattina non beveva intero il suo solito bugliolo d’acqua. Era un vecchio curioso, questo zi’ Lisi. Tutti sparlavano di lui, nel vicinato, per via di quella sua asina. Ogni mattina, le reggeva con le mani davanti al muso il bugliolo, invitandola col fischio a bere per una o due ore, tante volte; e guaj se le vicine, infastidite da quel fischio lamentoso, persistente, gli gridavano che la smettesse!

Vedovo, zi’Lisi flirta con la Poponè, ma lei resiste.

Vedovo come la Poponè, da tanti anni le stava attorno desideroso di mettersi con lei.

– Statevi zitto, santo cristiano! – gli dava sempre su la voce la Poponè; e si faceva il segno della croce, ché le pareva una tentazione del diavolo.

La Poponè chiede favore, e zi’Lisi accetta la richiesta, di sicuro, senza esitazioni.

Quel giorno ella aspettò davanti al cortile acciottolato, dove zi’ Lisi aveva la casa e la stalla; aspettò un bel pezzo che il vecchio finisse di fischiare, tra gli sbuffi di tutte le vicine che la spingevano ad entrare, dicendole: “Sú, sú, se entrate voi, la smette!”.

Alla fine il vecchio la smise, ed ella entrò nel cortile.

L’asina? Ma subito! Anche per un mese l’avrebbe prestata a lei, anche per un anno, e magari gliel’avrebbe donata, e tutto le avrebbe donato, tutto quanto possedeva, se…

– Daccapo, vecchio stolido? statevi zitto! Mi bisogna per una settimana. Debbo andare da mia sorella, alla Favara.

Poi zi’Lisi impara che la Poponè intenda viaggiare a Favara ed offre di accompagnarla: a quanto pare, Favara è un posto pericoloso! Tuttavia, la Poponè insiste di fare il viaggio da sola.

Com’egli intese proferire quel nome di Favara, spiritò, e cominciò a dire che mai e poi mai avrebbe consentito ch’ella andasse sola a quel paese d’assassini, dove ammazzare un uomo era come ammazzare una mosca. E le raccontò che un favarese, una volta, per provare se la carabina era ben parata, fattosi all’uscio di strada, la aveva scaricata sul primo che aveva veduto passare; e che un carrettiere di Favara, un’altra volta, dopo aver fatto montare sul carretto un ragazzino di dodici anni incontrato di notte lungo lo stradone, lo aveva ucciso nel sonno, perché aveva inteso che gli sonavano in tasca tre soldi; lo aveva sgozzato come un agnello, povero piccino; s’era messi in tasca i tre soldi per comperarsene tabacco; aveva buttato il cadaverino dietro la siepe, e arrí! a passo a passo, cantando, aveva seguitato ad andare, sotto le stelle del cielo, sotto gli occhi di Dio che lo guardavano. Ma l’animuccia del povero ucciso aveva gridato vendetta, e Dio aveva disposto che lui stesso, il carrettiere, arrivato all’alba alla Favara, invece di recarsi alla carretteria del padrone, si fermasse davanti al posto di guardia e coi tre soldi nella mano insanguinata si denunziasse da sé, come se parlasse un altro per bocca sua.

– Vedete che può Dio? – gli disse allora la Poponè. – E perciò io non ho paura!

Zi’ Lisi insistette per accompagnarla; ma lei tenne duro; gli disse che avrebbe preso in affitto l’asino da qualche altro; e allora egli cedette e le promise che il giorno appresso, all’alba, l’asinella sarebbe stata davanti alla porta di lei, con la bardella e tutto.

Dopo un po’ zi’Lisi prepara l’asina,

Ora avvenne, che di notte zi’ Lisi, col pensiero dell’asina da approntare per l’alba, si svegliò. C’era un gran chiaro di luna, e gli parve giorno. Saltò dal letto, sellò l’asina in un amen e la condusse alla casa della Poponè. Bussò alla porta e disse:

– L’asina è qua, gna’ Poponè. L’ho legata all’anello. Il Signore e la bella Madre vi accompagnino.

…nel frattempo la Poponè si sveglia… pensa che sia l’alba, ma presto si rende conto che è la metà della notte e che c’è una luna piena. Ciònonstante la Poponè decide di partire per Favara.

La Poponè, zitta zitta, per non svegliare la nuora, il figliuolo e i nipotini, prese a vestirsi. Ma solita di levarsi alla punta dell’alba, non si capacitava, col silenzio che regnava tutt’intorno, che quella fosse l’ora di partire.

– Sarà! – disse. – M’avrà gabbata il sonno.

E uscí col fagottello sotto la mantellina. S’accorse subito, guardando il cielo, che quella non era alba, ma chiaro di luna. Tutto il paesello dormiva tranquillo; dormiva anche l’asinella in piedi, legata lí, all’anello accanto alla porta.

All’inizio la Poponè esita del viaggio, esprimendo un dubbio / una preoccupazione per la propria sicurezza. Tuttavia, ritorna presto la sua compostezza / suo coraggio e parte per Favara.

– O Gesú mio, – disse la Poponè. – Che stolido, quello zi’ Lisi! Debbo mettermi in cammino, di notte? Mah! Sono vecchia, c’è la luna; e non ho niente da perdere. Le animucce sante del Purgatorio mi accompagneranno.

Montò su l’asinella, si fece il segno della croce e s’incamminò.

Sulla strada, perde nuovamente il suo coraggio,

Quando fu un buon tratto lontana dal paese, nello stradone, tra le campagne sotto la luna, andando lentamente su l’asinella, si mise a pensare a quel ragazzino sgozzato e buttato lí, dietro la siepe polverosa, povera creaturina di Dio; a tanti altri ammazzamenti e male vendette pensò, che si raccontavano della Favara, e intanto proseguiva con la mantellina in capo tirata fin su gli occhi per impedirsi di guardare le ombre paurose della campagna di qua e di là dello stradone, ove la polvere era cosí alta, che non faceva neanche sentire il rumore degli zoccoli dell’asinella.

Tutto quel silenzio e quel suo andare, e la luna e quella via lunga e bianca le parevano un sogno.

…e prega alle anime del Purgatorio.

– O Animucce sante del Purgatorio, – diceva tra sé, – a voi mi raccomando!

E non smetteva un momento di pregare.

Allora, succede qualcosa di molto strano… una visione? …un sogno? … un’allucinazione? Improvvisamente / inspiegabilmente, la Poponè si ritrova nel mezzo di due lunghe fila dei soldati.

Ma, o fosse la lentezza del cammino, o la sua debolezza, o che, o come, a un certo punto, forse la vinse il sonno. La Poponè non lo seppe mai dire; ma il fatto è che ai due lati dello stradone, a un certo punto, svegliandosi, si trovò due lunghe file di soldati. In testa, nel mezzo dello stradone, andava a cavallo il capitano.

Inizialmente prende conforto dalla loro presenza, supponendo che i soldati la proteggano dal male.

La Poponè, appena li vide, si sentí riconfortare, e ringraziò Dio, che proprio in quella notte del suo viaggio aveva disposto che quei militari dovessero recarsi anch’essi alla Favara. Le faceva però una certa meraviglia che tanti giovinotti di vent’anni non dicessero nulla vedendo in mezzo a loro una vecchia come lei, su un’asina vecchia piú di lei, che non doveva fare certamente una bella figura, per lo stradone a quell’ora.

Tuttavia, la Poponè nota che i soldati non fanno alcun suono e non riescono a riconoscere la sua presenza. Strano!

Perché cosí in silenzio, tutti quei soldati?

Non si sentivano nemmeno camminare e non sollevavano neanche un po’ di polvere. La Poponè ora li mirava sbigottita, non sapendo che pensarne. Le parevano ombre, sotto la luna; eppure erano veri, soldati veri, sí, col loro capitano là, a cavallo. Ma perché cosí silenziosi?

Poi la Poponè incontra il capitano dei soldati, …chi le spiega che è infatti l’Angelo Centuno e che il suo compito è quello di accompagnare le anime dal Purgatorio al Cielo.

Il perché lo seppe, quando fu in vista del paese, sul primo albeggiare. Il capitano a un certo punto fermò il cavallo e aspettò ch’ella lo raggiungesse.

– Maragrazia Ajello, – le disse allora, – io sono l’Angelo Centuno, di cui sei tanto divota, e queste che ti hanno scortata fin qui sono anime del Purgatorio.

Poi l’Angelo Centuno informa la Poponè che morirà presto.

Appena arrivata, mettiti in regola con Dio, ché prima di mezzogiorno tu morrai.

Disse e scomparve con la santa scorta.

Infine, la Poponè arriva alla casa della sorella. Lei è evidentemente turbata dalla premonizione. Spiega alla sorella che morirà presto… ed, infatti, lo fa!

Quando la sorella, alla Favara, si vide arrivare in casa la Poponè, bianca, come di cera, e stralunata:

– Maragrà, che hai? – le gridò.

E lei con un filo di voce:

– Chiamami un confessore.

– Ti senti male?

– Devo farmi le cose di Dio. Prima di mezzogiorno morirò.

E cosí fu, difatti. Prima di mezzogiorno morí. E tutto il popolo di Favara scasò a vedere la santa che l’Angelo Centuno e le anime del Purgatorio avevano scortata quella notte fino alle porte del paese”.

È, a questo punto, la Gesa ferma; gli altri sono silenziosi e sembrano tentare (rispettosamente) di comprendere la storia che hanno appena sentito.

Donna Gesa tacque. Tacemmo, ammirati, io e il Gaglio e Monsignore, suo padrone.

Improvvisamente però il Terilli esprime i suoi dubbi.

Ma Sebastiano Terilli, scrollandosi, esclamò:

– All’anima del miracolo! È questo il miracolo? E che miracolo è questo? Ma scusate… Miracolo? Perché miracolo? Ammettiamo tutto: ammettiamo che la poveretta non sia morta veramente di paura, e che quella non sia stata un’allucinazione spiegabilissima in una che credeva di parlare ogni notte con le anime del Purgatorio e con quest’Angelo Centuno; ammettiamo che l’angelo le sia apparso per davvero e le abbia parlato. Ebbene? Altro che miracolo! Questa è crudeltà feroce. Annunziare imminente la morte a una poverina! Ma noi tutti, scusate, noi tutti possiamo vivere solo a patto che…

Torna nuovamente il dibattito tra il Terilli e il Calandra. La domanda è questa: “C’è una base per la presenza della fede nelle vite degli uomini, e soprattutto, forse, nelle vite dei poveri che impegnano in una lotta continua per sopravvivere?

Il Terilli dice “No”! Il Calandra dice “Sì!”

Celestino Calandra protese le mani per rispondergli, e l’eterna discussione si riaccese piú calorosa che mai.

Ma la fede, la fede! non si doveva tener conto della fede, di cui si nutre e s’appaga la povera gente? Gli uomini cosí detti intellettuali non vedono, non sanno veder altro che la vita, e non pensano mai alla morte. La scienza, le scoperte, la gloria, il dominio! E si domandano come faccia a vivere senza tutte queste belle e grandi cose la gente del popolo, quella che zappa la terra e che appare loro condannata alle piú dure e umili fatiche; come faccia a vivere e perché viva; e la stimano bruta, perché non pensano che una ben piú grande idealità, di fronte alla quale diventano vane e ridicole miserie tutte le scoperte della scienza e il dominio del mondo e la gloria delle arti, vive come certezza irrefragabile in quelle povere anime e rende loro desiderabile come un giusto premio la morte.

E il Pirandello? Termina la sua storia su una nota ambigua ed umoristica, lasciando così una sorta di “spazio”; cioè, provocandoci di decidere questa domanda per se stessi!

Chi sa quanto si sarebbe protratta quella discussione sul miracolo dell’Angelo Centuno, se un altro miracolo, e questo vero, autentico, indiscutibile, non la avesse a un tratto troncata.

Stefano Traína, col fucile da caccia in pugno, si precipitò nella sala da pranzo tutto ansante, esultante, col volto paonazzo, congestionato, sgraffiato, affumicato.

Era riuscito finalmente a uccidere uno storno!

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