Riassunto: “Superior stabat lupus”

Corrado Tranzi, fino a ventiquattr’anni disprezzatore implacabile di tutte le donne, implacabile derisore di tutti gli uomini che se n’innamoravano, appena presa la laurea di dottore in medicina, chiamato per un caso d’urgenza mentre di buon mattino stava a concertare una partita di caccia nella farmacia d’un amico – (il bel cielo? il tepore della primavera imminente? qualche sogno della notte?) – s’innamorò anche lui tutt’a un tratto, proprio in quella sua prima visita di medico.

Inizia così “Superior stabat lupus” (L. Pirandello). (Il titolo è una locuzione latina che di solito vuole indicare la situazione in cui uno — forte dei propri mezzi, ma senza giustificazione e semplicemente per il proprio bene — impiega qualsiasi scusa per agire.) All’inizio della novella, il lettore viene presentato ad un giovanotto, Corrado Tranzi, chi è, a dir lo meno, pieno di sè: è giusto dire che sua vita sembra essere piena delle possibilità (è appena laureato da una scuola di medicina), e Corrado non vuole altro che approfittare di ognuna di loro! Corrado sembra supremamente autocentrante: è molto energico (lui è descritto così: “tutto scatti e schizzi tra sprezzature sbrigative”, cioè, pieno di fiducia / sicurezza di sé.

Un giorno Corrado è chiamato per fare una ‘chiamata di emergenza’ alla casa di una signora che è diventata gravemente malata. (Ci è stato detto che ha subito un embolia cerebrale che ha causato un infarto emorragico severo del cervello.) Quando arriva, Corrado viene accolto da una ragazza di circa 12 anni. È sconvolta, ciònonostante il suo aspetto non impedisce a Corrado di innamorarsi.

Che pregi straordinarii e doti scoprisse in quella fanciulla che venne ad aprirgli la porta, spettinata, mezzo discinta, tutta affannata tra le lagrime, l’avrà saputo lui che li scoperse. Certo è che, fin dal primo vederla, restò abbagliato a guardarla in bocca, mentr’ella affollatamente gli parlava della zia trovata a letto, un quarto d’ora addietro, rantolante e senza conoscenza.

Corrado è mostrato nella stanza della moribonda. Presente al capezzale sono suo figlio, Marco Perla, ei suoi suoceri, i De Vitti. La ragazza sconvolta, Ebe, è la figlia dei De Vitti (è anche la cugina di Marco Perla e la nipote della moribonda).

Introdotto nella camera della colpita, vide accanto al letto un giovinotto che forse, anzi certo, era il figlio, e un uomo e una donna che forse erano il padre e la madre della fanciulla. Il Tranzi notò subito che questa, mentr’egli dichiarava il male (caso indubbio e irrimediabile d’embolia cerebrale), s’era messa a carezzare i capelli del giovinotto, del cuginetto che piangeva con la faccia affondata nel guanciale proprio accanto al capo della madre agonizzante, e se ne stizzí tanto, che improvvisamente s’interruppe per ordinare che, perdio, quel figliuolo se ne poteva andare a piangere di là. Aria! aria! un po’ d’aria attorno al letto!

Infatti la signora muore poco dopo la visita. Corrado ha mantenuto contatti con la famiglia nei pochi giorni che hanno portato alla sua morte. Ha appreso che Marco Perla si è innamorato di Ebe e che ha proposto di sposarla, ma che lei ha rifiutato l’offerta. Ebe e Marco erano cresciuti insieme, come cugini, ma infatti Ebe è venuta a pensare a Marco come un fratello… come tale, non può concepirlo adesso come un marito.

L’inferma morí tre giorni dopo. In quei tre giorni Corrado Tranzi riuscí a sapere tante cose: che la fanciulla si chiamava Ebe; che era figliuola d’un tal De Vitti, professore di fisica al Collegio Nautico; che la defunta era cognata del professore, vedova da tanti anni e accolta in casa col figliuolo che si chiamava Marco Perla; che questi, già impiegato modestamente alla Dogana, aveva chiesto col piacere dei parenti la mano della cuginetta, la quale però aveva rifiutato con molto dolore, confessando candidamente che le sarebbe stato impossibile sposarlo, perché, fin da bambina cresciuta con lui, lo amava come fratello, e solamente come tale e non altrimenti avrebbe potuto amarlo.

Corrado agisce decisamente: ha raggiunto un punto nella sua carriera in cui il successo è appena all’orizzonte e crede lui di aver qualcosa da offrire a una donna! Nonostante le preoccupazioni dei suoi genitori, Corrado convince Ebe a sposarlo.

Sapute queste cose, Corrado Tranzi si fece avanti, senza perder tempo. Tra pochi mesi si sarebbe deciso il concorso a tre posti di assistente nell’ospedale maggiore della città, a cui egli aveva preso parte: era sicuro di vincere; sicurissimo; aveva poi qualcosa di suo e la professione di medico: poteva sposare.

Il professor De Vitti rimase dapprima costernato di tanta furia e della stranezza dei modi e del dire del giovine medico, ricciuto e barbuto, tutto scatti e schizzi tra sprezzature sbrigative; esitò; si provò a prender tempo con la scusa del lutto recentissimo; ma Corrado Tranzi, che giusto per questo lutto recentissimo temeva che l’amor fraterno della fanciulla per il cugino potesse da un momento all’altro cangiar natura col lievito della pietà, or che lo sapeva orfano anche di madre e bisognoso di conforto, tenne duro: o sí o no, subito! Ebe accettò e in pochissimo tempo si fecero le nozze.

Entro un anno Ebe rimane incinta, ma poi colpisce una tragedia: muore durante il parto. Corrado è superato con dolore. Certo non è preparato per una tragedia di questo tipo, e non è capace di pensare chiaramente. Accusa la neonata, che ha sopravissuta, per la morte di Ebe, e non può farsi stare vicino a lei. Irrazionalmente, fugge l’Italia per l’America.

Fu una furia, una frenesia d’amore, che durò appena un anno. Ebe morí di parto. La sera stessa della sciagura, Corrado Tranzi, senza voler neanche vedere la bambina che, nascendo, aveva ucciso la madre, scappò via di casa come un pazzo; scomparve. Si venne poi a sapere che, incontrato per caso un giovane collega, il quale quella sera stessa doveva imbarcarsi come medico di bordo su un transatlantico, ne aveva preso il posto col piacere di lui, ed era rimasto in America, senza lasciar tracce di sé.

I De Vitti prendono cura della neonata, e le danno il nome della madre (l’infante è conosciuta come Bebè). Mentre matura, Bebè mostra una notevole somiglianza con sua madre — nel suo aspetto fisico, ma anche nel suo modo. Bebè diventa una fonte di conforto ai suoi nonni — la considerano come la risurrezione della figlia — in un momento di profondo sconvolgimento.

La bambina, orfana di madre e abbandonata cosí dal padre, crebbe in casa dei nonni, che la chiamarono Ebe come la loro figliuola. E sembrò ad essi che veramente la loro Ebe ricominciasse a vivere in quella bimba, dapprima tra le loro braccia, custodita con l’anima e col fiato, poi tra le loro cure piene di palpiti e di sgomenti.

A mano a mano, crescendo, Bebè somigliò sempre piú alla mamma: ne ripeté tutte le grazie infantili, le mosse, i sorrisi, i primi giuochi, tra lo stupore accorato de’ due vecchi che credevano d’assistere a una prodigiosa resurrezione.

Siamo ora spiegati sulle emozioni di Marco Perla. Apprendiamo che era vero e sincero il suo amore di Ebe; imprendiamo anche che la presenza di Bebè inevitabilmente evoca i suoi sentimenti della madre… sentimenti che Marco non può né controllare né sopprimere.

Il nipote, Marco Perla, nel vederla anche lui crescere cosí simile in tutto alla cuginetta ch’egli avrebbe voluto far sua, cominciò a provare di tratto in tratto, o per il guizzo di uno sguardo o per il suono d’una risata o d’una parola o per un capriccetto o una bizza della piccina, l’impressione curiosa quasi d’un arresto in sé, d’un ritorno misterioso a tante cose, non già riviventi, ma ancor vive dentro di lui; non già ai ricordi della sua infanzia trascorsa insieme con un’altra bimba, di cui questa era il ritratto preciso, ma agli stessi sentimenti onde quei ricordi erano animati e che si rifacevan vivi, della vita stessa della piccina.

La quale, ecco, come quell’altra, voleva giocare con lui; voleva – senza saperlo – far ripetere a lui quegli stessi giuochi già fatti con quell’altra se stessa, ch’era stata la sua mamma piccina.

E lui ripeteva quei giuochi.

Di ritorno dall’ufficio, si nascondeva dietro l’uscio dello stanzino bujo, ov’erano due vecchi armadi. L’odore che covava in quel luogo attufato, senz’aria, senza luce, era come il respiro stesso dell’infanzia lontana. Gridava con la voce d’allora cu-cu, e stava ad aspettare che quella, quell’altra, ma viva, viva ancora in questa piccina, venisse a scoprirlo, a scovar lui anche piccino lí dietro quell’uscio; e, appena dallo spiraglio la intravedeva tutta ansiosa e vibrante e perplessa, ecco, come allora, tratteneva il fiato e trepidava e, potendo, scappava via da quel nascondiglio e si metteva a correre, a girare per non farsi prendere, attorno alla tavola apparecchiata, e si cacciava tra le seggiole sotto la tavola per riuscir dall’altra parte, finché, caduto a sedere per terra, non si lasciava acchiappare dalla bimba accesa in volto e inferocita.

Ma per dove lo acchiappava? Oh! per i baffi ch’egli allora non aveva; o gli ghermiva le lenti, ch’egli allora non portava. E di questo improvviso ripiombare su se stesso restava in prima sbalordito, a lisciarsi sul labbro i baffi scomposti, a stropicciarsi gli occhi miopi smarriti. Qualche volta la zia lo sorprendeva ancor lí seduto per terra e gli domandava che facesse.

– Niente, – le rispondeva con un sorriso vano. – Giuoco con Bebè.

Tra tante ricordi, uno in particolare ha coinvolto la prima volta che Marco ha baciato Ebe. Lei aveva 12 anni, lui 15. Il bacio, uno immagina, era spontaneo ed innocente. Per Ebe il bacio non sembrava di avere un significato particolare: nella sua mente, Marco era, dopotutto, suo fratello. Per Marco, tuttavia, il bacio era indimenticabile: è stato superato emotivamente, si era innamorato.

Tra tutti i ricordi, piú vivo e piú preciso aveva quello del giorno e dell’ora che per la prima volta in un bacio della cuginetta aveva sentito d’improvviso, lui solo, il sapore e il calore d’un amor nuovo, diverso dal solito, per cui s’era tutto turbato e acceso, quasi che da quelle rosee e fresche labbra ignare gli fosse venuto un fuoco delizioso per tutte le vene. Ebe aveva dodici anni; lui quindici; ed era stato un giorno d’aprile, nelle prime ore del mattino. Lei si era accorta subito, allora, che egli in quel bacio aveva colto per la prima volta un sapor nuovo, e se n’era avuta per male e non aveva piú voluto che lui la baciasse a quel modo.

Naturalmente Bebè non sa nulla di questa storia. Per lei, è naturale l’idea d’essere affettuosa con Marco Perla, che lei considera suo zio. Non è affatto così però per Marco Perla.

Ma non s’accorgeva, non si poteva accorgere di nulla, ora, questa piccola Bebè già pervenuta a quell’età della madre, e ogni giorno, nel vederlo ritornare dall’ufficio, gli buttava le braccia al collo e lo baciava con ardente furia infantile.

Lui si restringeva tutto in sé e strizzava gli occhi e serrava i denti sotto quella furia per impedire con tutte le forze che anche da queste rosee e fresche labbra ignare, le quali per lui ancor piú che per i vecchi nonni erano pur quelle medesime della prima Ebe, gli venisse lo stesso fuoco per tutte le vene.

– Non mi baci? Oh, come sei buffo! Che hai? – gli domandò una volta Bebè, dopo averlo baciato, guardandolo in faccia e scoppiando a ridere. – Perché ti fai cosí brutto? Perché non mi baci?

Lui scappò via e, davanti allo specchio, si mise a piangere.

A questo punto della storia il professor De Vitti muore. Di conseguenza Marco Perla diventa, in effetti, il solo mezzo di sostegno per la signora De Vitti e Bebè. Marco assume questa responsabilità, ma la responsabilità è descritta come un sacrificio associato ad un rischio: a questo punto Marco si è innamorato di Bebè e teme che lei comincerà a pensare a lui, nel suo ruolo di ‘mezzo di sostegno’, come suo padre. Se ciò accade, Bebè potrebbe rifiutare l’offerta del matrimonio che le intende fare.

La morte quasi improvvisa del professor De Vitti venne a strappare violentemente Marco Perla da quell’ibrido e atterrito stato d’animo.

Il professore, entrato tardi nell’insegnamento, non aveva compiuto gli anni di servizio per la pensione, sicché alla vedova toccavano poche migliaja di lire: circa otto, che furono messe da parte per la nipotina.

Restò lui, ora, Marco Perla, unico sostegno della famigliuola. Ne fu lieto, da un canto; ma dall’altro, l’idea che Bebè cominciasse a vedere in lui un altro, il capo di casa, quasi il padre, e a considerarlo come tale, lo sconcertò profondamente.

La possibilità di perdere la “Ebe”, in effetti per una seconda volta, è profondamente sconvolgente. Marco teme che, in realtà, la storia possa ripetersi!

Da un pezzo la zia notava in lui curiose assenze di memoria, strane smanie, improvvise tristezze; e lo vedeva dimagrire e fissarsi sempre piú in una ispida e squallida bruttezza. Sospettava che fosse innamorato; che quella morte dello zio gli avesse troncata la speranza di farsi una casa; che gli pesasse il debito di gratitudine per i benefizii ricevuti da bambino.

Marco Perla invece, nel vedere Bebè di giorno in giorno sbocciare come un fiore, era invasato dalla paura che un altro d’un tratto venisse a strappargliela, come già gli era stata strappata la madre di lei, senza ch’egli potesse opporsi in alcun modo, pur sentendosi amato. Ma sí! una volta da fratello; ora forse da padre.

Subito dopo, la signora De Vitti informa Marco che Bebè ha un corteggiatore, cioè, un artista si è stato innamorato di lei, e ha informato la signora che desidera sposarla. L’artista sta per partire a Roma per un’opportunità professionale.

Questa notizia, per dir lo meno, è sconvolgente a Marco.

E presto venne infatti il giorno che la zia, tutta esultante, credendo di dargli un gran piacere, gli confidò che quella mattina stessa aveva ricevuto una lettera da un giovane, che si vedeva spesso passare per istrada, bello come un angiolo, diceva, biondo, coi capelli lunghi; un giovine pittore che presto sarebbe partito per Roma pensionato, e che… Non poté proseguire, la zia; tanto il volto del nipote s’era alterato.

– Ah, questo per Roma? come quell’altro per l’America? – sghignò orribilmente. – Ma non vi basta una? Due eh? volete buttarne via due, cosí, al primo che capita?

Diceva: volete, come se fosse ancor vivo lo zio e volesse anche lui infliggergli il supplizio dell’altra volta. Delirando, confondendo il primo strazio con questo d’ora, il primo amore per la cugina con questo per la figliuola di lei, ch’era per lui lo stesso amore superstite, lo stesso amore due volte vivo, egli gridò alla zia tutta la sua passione.

La signora De Vitti è sorpresa dalla reazione di Marco… ma né oppone ai suoi sentimenti per Bebè. Lei assume la voce di ragione, di calma: spiega a Marco che c’è un bisogno di esprimere i suoi sentimenti in maniera diretta a Bebè, in modo che lei avrà l’opportunità di decidere per se stessa cosa farà.

La zia, dapprima sbalordita, poi quasi atterrita, cercò di calmarlo. Gli disse che mai e poi mai non avrebbe sospettato ch’egli avesse potuto prendersi cosí d’amore per quella piccina. Sí, la ragione c’era; ma difficile farla intendere a Bebè che non sapeva nulla. Come dirle: “Tu, cara, hai creduto di vivere per te tutti questi anni, e invece no: tu hai vissuto per rinnovare a me, nel mio cuore, la passione che io ebbi per tua madre!”.

Ebbene, impariamo di una cospirazione tra la signora De Vitti e Marco Perla. Comincia lentamente, come Marco cerca di convincere la signora che deve diventare il marito di Bebè. (Poi, come impariamo più tardi, la cospirazione diventerà qualcosa di molto più complicato e disonesto).

Oh, lei, la zia, sarebbe stata felice d’affidare a lui quella piccina sua; proprio felice. Ma Bebè? Promise ajuto: ma non bisognava aver fretta. Prima si doveva levar via dal cuore di Bebè quell’amoretto fatuo per il giovine pittore, dimostrandole che costui per l’età, per la professione, per tant’altre cose, non dava alcun serio affidamento; poi, a poco a poco… chi sa?

Dopo un po’, la signora De Vitti assume un ruolo più attivo nella cospirazione. Alla fine, lei (invece di Marco!) ha fatto l’argomento che la vita di Bebè sarebbe meglio se sceglia di sposare Marco invece di l’artista.

Furono per Marco Perla mesi d’angoscia e di disperazione.

Forse la zia non aveva saputo parlare. Lo argomentava dal contegno di Bebè verso di lui. Ma la zia lo assicurava che non le aveva ancor mosso alcun discorso di lui, neppure un cenno, e che Bebè era cosí, perché, indotta da lei, aveva troncato ogni corrispondenza con quel giovine già partito per Roma. Bisogna ancora aspettare, lasciarla quietare.

Aspettare? fino a quando? Piú tempo passava, e piú profondamente vedeva egli radicati nel cuore di lei il ricordo e il rimpianto di quel giovine già partito per Roma. O forse la zia non trovava il coraggio di parlare? Deperiva di giorno in giorno, povera vecchia, quasi rósa da quel segreto che egli le aveva confidato.

Lo trovò poco prima di morire, il coraggio di parlare a Bebè, la povera zia. Se la chiamò accanto al letto, e cominciò a domandarle se ella si rendesse conto della condizione in cui tra poco si sarebbe trovata: sola in casa, giovinetta, con un uomo che non le era né padre, né fratello, anche lui quasi giovane ancora, senz’alcun obbligo veramente verso di lei. Che cosa era egli per lei? Figlio d’una sorella della nonna. Ed ella per lui? Figlia d’un uomo, che un giorno era irrotto come una bufera in casa e l’aveva schiantata. Una pianticella quasi senza radici, era: la madre, morta; il padre, sparito. Non le restava altro sostegno che lui, Marco, il quale si era sacrificato per loro. Bisognava dargli un compenso, un premio per i tanti sacrifizii. Egli era buono e l’amava: le sarebbe stato padre e marito insieme. Se Bebè voleva ch’ella morisse tranquilla, le doveva dir sí.

Questa è la prima volta che Bebè apprende i sentimenti di Marco. La sua reazione iniziale è uno di repulsione.

Stupore, dolore, orrore, vergogna assaltarono e sconvolsero Bebè, a questa rivelazione inattesa. Si aggrappò al collo della nonna e, rompendo in singhiozzi, la scongiurò di non morire, per carità di lei. No no; ecco: la avrebbe tenuta stretta cosí, per sempre, e non le avrebbe permesso di morire, ecco, non glielo avrebbe permesso! Ora che sapeva questa cosa orribile, sola con zio Marco non voleva, non poteva piú restare. Per carità! per carità! Sarebbe morta lei, piuttosto.

A questo punto della storia, la signora De Vitti muore. Bebè è, infatti, a questo momento, da sola nel mondo, e per la prima volta inizia a considerare le azioni del padre, Corrado Tranzi, e come queste azioni l’hanno colpita.

Bebè non aveva mai pensato al padre scomparso; non aveva mai avuto per lui alcun sentimento, né rancore né curiosità: esso per lei non esisteva, non era mai esistito. Cominciò a esistere il giorno della morte della nonna, allorché, ritornata in casa dal camposanto, si vide insieme con Marco Perla: insieme e divisa, insieme e nemica, conoscendo in lui un sentimento al quale non sapeva e non voleva rispondere.

Un odio cupo e feroce s’impossessò di lei per il padre sconosciuto che l’aveva messa al mondo e abbandonata senza neppure vederla; che dopo averle dato la vita, le aveva negato ogni diritto di esistere per lui, solo perché lei, senza sua colpa, nascendo, aveva ucciso la madre; come se questa non fosse stata una sciagura anche per lei, e anziché odio e orrore, la sua vista, la vista della figliuola orfana appena nata, non avrebbe dovuto suscitare in lui una maggiore pietà, il sentimento d’un doppio dovere! Era fuggito, scomparso, per orrore di lei, sottraendosi a ogni responsabilità per la vita che le aveva dato, e rovesciando questa responsabilità addosso ai due poveri vecchi, a cui aveva tolto la figlia, e ora addosso a uno, che non aveva alcun dovere di assumersela.

Bebè ignorava che anche a costui il padre aveva tolto qualche cosa; ignorava ch’egli aveva lasciato a costui il peso della figlia dopo avergli tolto l’amore della madre.

Dov’era il padre adesso? Viveva ancora? E come non pensava che, dopo tanti anni, potevano esser morti, com’erano difatti, i due vecchi, nelle cui mani aveva abbandonato la figliuola? Come non pensava a tutto ciò che sarebbe potuto accadere e che già accadeva a lei, cosí sola e senza ajuto? Forse egli aveva ora laggiú un’altra famiglia, altri figli, e pensando a questi che da vicino attendevano da lui amore e cure, si toglieva il rimorso di non aver mai pensato a lei lontana.

Ed ecco, uno adesso la raccoglieva, che di quanto aveva fatto per lei voleva esser pagato e in pagamento esigeva tutta lei stessa, tutta la sua vita che gli apparteneva, poiché colui, quell’altro, glien’aveva lasciato il peso.

I suoi pensieri hanno un effetto profondo: Bebè diventa malata… la sua salute ed il suo benessere sono in pericolo. Di sicuro Marco Perla è là per sostenerla: eventualmente Bebè si riprende la sua salute, e le azioni di gentilezza di Marco la convinceranno a sposarlo.

Per la violenza di questi pensieri e di questi sentimenti, Bebè, affogata di tristezza, con lo spirito sconvolto dalla iniquità della sua sorte, ammalò subito e cosí gravemente, che per parecchi giorni fu in pericolo di vita.

Lottarono a lungo e senza tregua la sua volontà di morire e l’amore di Marco Perla, che le si espandeva attorno, vigile, fervido a trattenerla, a sostenerla, con insistenti, ininterrotte premure, pronto sempre a darle il proprio alito per ogni respiro che ella non volesse piú trarre, e la propria vita per nutrire quell’atroce volontà di morte.

E alla fine vinse l’amore di lui; ed ella nel languido intenerimento e nell’abbandono della convalescenza, per gratitudine e per pietà, alla fine cedette e s’indusse a sposarlo.

Tuttavia il matrimonio non è senza i suoi problemi. In particolare c’è, tra Marco e Bebè, una significativa differenza di età che è fastidioso per lei e non può essere superato. Sembra essere un chiaro senso di perdita per Bebè.

Guarita, già donna, mirandosi il corpo fiorente, le carni ancor quasi acerbe e già offese e condannate a rimanere per sempre ignare d’ogni gioja d’amore, non poté sottrarsi alla riflessione che la misera, magra bruttezza di lui, già quasi vecchio, dava un valore inestimabile a quel suo corpo, e che perciò il pagamento che di esso egli aveva voluto farsi, rappresentava quasi un patto d’usura, solo in parte mitigato dall’adorazione di cui la circondava.

La carriera di Marco Perla avanza ed adesso ha l’opportunità di trasferirsi a Roma per lavorare presso il Ministero delle Finanze. Bebè, organizzando le cose per la partenza, incontra per caso un pacco delle lettere scritto dall’artista che la signora De Vitti aveva nascosto da lei. Le lettere hanno espresso il suo amore per lei; erano scritte però in un momento in cui la signora De Vitti ha suggerito altrimenti!

Dalle lettere, Bebè arriva a capire che è stata manipolata dalla signora e da Marco Perla. Avrebbe potuto sposarsi qualcuno di sua scelta!

Se non che, durante lo sgombero della casa per la partenza, avvenne a Bebè di scoprire in un vecchio stipetto della nonna, relegato in soffitta, un fascio di lettere di quel giovane pittore partito per Roma circa due anni addietro per il pensionato artistico, lettere che la nonna aveva intercettate e nascoste intatte, forse perché non aveva osato distruggerle o forse perché fino all’ultimo s’era ripromessa di darle alla nipote, se Marco si fosse convinto ch’era vano sperare d’indurla a cedere.

A questa scoperta, Bebè sentí strapparsi le viscere e il cuore. Allibí dapprima, poi l’ira, lo sdegno le fecero un tale impeto nello spirito ch’ella, con le mani tra i capelli e gli occhi sbarrati e ferocemente fissi, si vide quasi impazzita nello specchio di quello stipetto.

Come, con quelle lettere sottratte, aveva potuto la nonna assicurarla che quel giovine, appena arrivato a Roma, s’era dimenticato di lei? Quelle lettere riboccavano di passione, gridavano e piangevano e scongiuravano. Ed ella aveva creduto alla nonna! E quel giovine aveva potuto pensar di lei tutto il male che ella aveva pensato di lui! Ma sí, ecco, nell’ultima lettera disperata, la dichiarava indegna del suo amore, e fatua e spergiura e civetta e senza cuore.

Ah, che infamia! che infamia! Si erano messi dunque d’accordo la nonna e Marco; d’accordo avevano commesso un tradimento cosí vile? Ma già! Non doveva pagare? Il sacrifizio della sua persona non bastava; anche col sacrifizio di quell’amore doveva pagare le cure, il mantenimento che le avevano dato. Oh, Dio, Dio, che cosa… oh Dio, che cosa…

Bebè promette di vendicarsi!

Ma a Roma – ah! a Roma, adesso, si sarebbe vendicata. Avrebbe rintracciato quell’altro, a ogni costo. Anche a costo di perdersi, si sarebbe vendicata.

A questo punto, tuttavia, la storia prende un turno inaspettato. Corrado Tranzi ritorna: ha viaggiato da America a Genova, e da lì a Palermo, dove ha imparato del matrimonio di Bebè e Marco. Il Tranzi arriva a casa sua a Roma… solo per scoprire che Marco è diventato acutamente malato.

A Roma, tre mesi dopo, una sera d’inverno, alla porta del vecchio quartierino preso a pigione da Marco Perla in un lugubre casone del viale solitario di Castro Pretorio al Macao, bussava un vecchietto ferrigno dalla barba crespa, già molto brizzolata, che si confondeva col grigio bavero della pelliccia. Corrado Tranzi.

Attendendo che venissero ad aprirgli, col capo chino, le ciglia aggrottate e gli occhi torvi che palesavano un’ansia spasimosa, s’affondava le unghie nel palmo delle mani e stropicciava convulsamente i pollici sul dorso delle altre dita serrate.

Quando alla fine la serva venne ad aprirgli, alla vista della casa in cui stava per introdursi, sentí mancarsi il respiro.

– Il signor Perla?

La serva lo guardò costernata, e disse esitante:

– Ma non so se il signore, in questo momento, possa ricevere. Non sta bene, e…

– La signora?

– Anche lei.

– Malata?

– Ha avuto… non so… aspetti: vado a sentire il padrone.

E la serva scappò via lasciandolo lí, davanti l’entrata, senza neppure invitarlo a varcare la soglia. Ritornò poco dopo a rispondere che il signor Perla si scusava, ma proprio non poteva riceverlo perché ammalato e che anche la signora era indisposta.

Il Tranzi fa strada nella loro casa,

– Io sono medico, – disse allora il visitatore. – Per tutti e due.

Ed entrò.

– Ma signore…

– Dite al signor Perla che c’è il dottor Corrado Tranzi. Andate.

…e i due uomini si incontrano. Una vasta gamma di ricordi ed emozioni inondano ciascuna delle loro anime. C’è stata tanta concorrenza, tante speranze, tante delusioni, tante perdite!

Marco Perla stava buttato, dalla sera precedente, su una poltrona in uno stanzino che voleva essere salotto e studiolo; vi aveva passata la notte; non se n’era levato neppure per prendere un po’ di cibo a mezzogiorno. Solo dalla serva, piú tardi, aveva accettato una tazza di caffè con dentro una buccia di limone. Al nome di Tranzi restò come esterrefatto. E due volte tentò di balzare in piedi, ricascando ogni volta su la poltrona. Ajutato dalla serva, poté alla fine mettersi in piedi e accorrere nella saletta.

– Corrado?

Restarono per un momento entrambi, di fronte, come precipitati l’uno verso l’altro a guardarsi dal tempo remoto, in cui per l’ultima volta si erano veduti. In un attimo, con tutte le memorie balenanti di quanto era loro accaduto, dovevano colmare il vuoto di tutto quel tempo per riconoscersi cosí cangiati.

Marco Perla suppone che il Tranzi ha portato i sentimenti duri — rabbia, odio — ma il Tranzi è compassionevole: si rende conto che Marco è malato.

Oppresso di stupore, ansimante, Marco Perla credette di scorgere negli occhi del Tranzi l’animo con cui questi gli si rifaceva incontro. Non doveva pensare il Tranzi ch’egli avesse voluto prendersi una rivincita sposando sua figlia, poiché da lui aveva avuto tolta la madre? E non doveva a un tal pensiero essere pieno d’odio e d’orrore?

Si sentí mancare, sprofondare.

Ma si ritrovò invece tra le braccia di lui, sorretto premurosamente; udí invece la voce di lui che gli diceva:

– Tu… cosí… Ma stai male davvero! Qua… che hai?… Ma tu scotti! Non ti reggi! Hai la febbre…

E provò un sollievo, un refrigerio, un conforto, tanto piú vivo e dolce, quanto piú inatteso e insperato. Prese a singhiozzare, a gemere tra singhiozzi, mentre quegli, insieme con la serva, lo riconduceva alla poltrona nello stanzino:

– Ti manda Iddio! ti manda Iddio!

Infatti, è vero che il Tranzi è venuto a Roma per rimproverare Marco per il matrimonio (desidera anche il suo perdono, il suo riscatto).

– Qua… qua… – riprese il Tranzi adagiandolo su la poltrona. – Che cos’è? Guardami… guardami bene in faccia… Vengo da Palermo… Sono sbarcato a Genova. Corro a Palermo, domando, mi informano di tutto… Tu… tu hai sposato mia figlia? Dov’è? dov’è?

Il Perla, accasciato, curvo, con le mani su la faccia, gridò rabbiosamente:

– Non l’avessi mai fatto!

– Non dovevi farlo, Marco! – rispose pronto il Tranzi, con una voce strana, che voleva parer di rimprovero e di rammarico soltanto, ma in cui vibrava un furore a stento contenuto. – Come, come hai potuto farlo?

Marco Perla ha una confessione da fare. Ha una lettera del pittore a Bebè, che ha tenuto con lui (cioè, a parte delle lettere salvate dalla signora De Vitti). Dà la lettera al Tranzi.

Marco dice che il Tranzi dovrebbe prendere Bebè, ma prima deve leggere la lettera.

– Te la puoi riprendere, ora! te la puoi riprendere… – disse allora affrettatamente il Perla, senza togliersi le mani dal volto. – Te la puoi portar via… via… via…

– Perché? dov’è, insomma? – domandò il Tranzi guardandosi attorno.

– Di là… S’è chiusa in camera… – rispose il Perla. – Aspetta… Aspetta…

Si voltò alla serva:

– Voi! andate ad avvertire la signora…

Poi, brancicando, si portò una mano nella tasca interna della giacca: ne trasse un logoro portafogli, ne cavò una lettera e la porse al Tranzi:

– Leggi prima… leggi…

A questo punto il Tranzi è affrontato da Bebè.

Ebe, su la soglia della camera in cui s’era chiusa, lo accolse spettinata, mezzo discinta, tutta affannata tra le lagrime, come già sua madre la prima volta lo aveva accolto in quel lontano mattino di primavera, quando lui, giovane medico, era stato chiamato per caso in una farmacia.

Era lei! Era lei! la sua Ebe che lo riaccoglieva cosí come si può accogliere un estraneo in un momento d’improvviso, supremo bisogno! E ben chiaramente nello sguardo ostile le si leggeva, che se ella non si fosse trovata in quel tremendo frangente, non lo avrebbe accolto, non avrebbe voluto vederlo.

– Ebe mia! Ebe mia!

Bebè è fredda e lontana. Il suo odio del padre e della cospirazione è evidente.

Conoscendola in sua madre, egli non poteva comprendere ch’ella, con quegli occhi stessi di sua madre, non potesse riconoscer lui. Si sentí con una mano respinto al petto dall’abbraccio.

– Non m’abbracci?… Oh, figlia mia! Lasciati almeno baciare sui capelli… Tu hai ragione. Ma tutto il male, tutto il male lo fece tua madre, con la sua morte!

– E chi l’ha scontato? – disse Ebe, guardandolo con dura freddezza negli occhi.

– Non tu sola! non tu sola! – replicò egli subito. – Che ne sai tu? Sí, sono stato colpevole verso di te… Ma non credevo… non credevo… Ora che ti vedo, comprendo tutto!

Ebe vide il volto del padre, nel proferir queste ultime parole, scomporsi d’improvviso in una espressione tra di stupore e d’orrore; gli udí soggiungere a bassa voce:

– Comprendo… comprendo perché lui t’ha sposata… Tu non sai, tu non puoi sapere…

Rabbrividí; comprese; domandò anche lei a bassa voce, inorridita:

– La mamma… Lui?

– Sí, sí…

E in questo riconoscimento provarono, l’uno, una rabbia feroce, come per un tradimento infame che colui, profittando vigliaccamente della sua assenza, gli avesse fatto con la madre; l’altra, il ribrezzo, l’abominazione come per un incesto che quegli avesse perpetrato su lei.

Il Tranzi tenta di spiegare l’abbandono. Spiega anche che ha fatto una fortuna in America e che ora vuole condividere questa con lei.

Si ritrassero tutti e due nella camera; ne serrarono l’uscio e parlarono a lungo tra loro. Egli le disse anche tutti gli stenti, tutte le lotte che aveva dovuto sostenere laggiú, pur disperato, divorato dal cordoglio. Il pensiero di lei, sí, gli era stato dapprima odioso, perché non riusciva a staccarlo da quello della morte della madre; gl’inacerbiva la piaga e lo rendeva feroce. Poi, quando poté cominciare a sentir pietà di lei abbandonata – (non rimorso veramente, mai, perché mai non immaginò che avessero potuto mancarle cure e affetto da parte dei nonni che supponeva ancora in vita) – pensò che, avendola abbandonata cosí, non essendosi fatto piú vivo con lei, avrebbe dovuto almeno farla ricca, per ricompensarla del lungo abbandono. E ricco difatti ritornava.

Bebè dà poi chiarezza che è stata tradita due volte — prima dal Tranzi e poi dalla signora De Vitti e Marco.

– Troppo tardi?

Troppo tardi, sí. Il tradimento – gli spiegò Ebe – non lo aveva commesso lei, lo avevano commesso la nonna e Marco, prima.

Egli aveva ancora in mano, appallottolata, la lettera che il Perla gli aveva dato da leggere.

– L’hai letta? – gli domandò Ebe.

– No, non ancora…

– Neanche io; ma ci dev’esser certamente la prova ch’egli non ha ancor nulla da rimproverarmi! Non ho ingannato né tradito. Non ho fatto altro che giustificarmi con questo… con questo giovine che mi ha scritto la lettera… Leggila… leggila pure…

E prese a parlargli di quel suo amore ingenuo, quando si credeva libera di disporre di sé, del suo cuore: delle lettere sottratte dalla nonna e scoperte per caso alla vigilia della partenza per Roma.

A questo punto della storia Marco Perla diventa gravemente malato.

Ma nel mezzo del racconto, la serva venne a picchiare all’uscio per avvertire che di là il padrone stava molto male, pareva soffocato.

Corrado Tranzi accorse. Perché, gli venne di domandare in prima, se non fosse stato già chiamato il medico?

– No, nessun medico ancora, – rispose la serva.

Con l’ajuto di questa, egli trasportò sul letto Marco Perla che, tra le vampe della febbre, delirava. Lo spogliò; prese a esaminarlo; gli ascoltò il cuore, a lungo, poi i polmoni, picchiando sul petto, su le terga. Marco Perla, sorretto dalla serva a sedere sul letto, col capo ciondoloni gemeva, rugliava, mormorava parole sconnesse. Finito l’esame, il Tranzi fe’ cenno alla serva di riadagiare sul letto l’infermo sotto le coperte, e si mise a passeggiare per la camera, assorto.

Non era provvidenziale, che lui, fin da quella sera, appena arrivato, si potesse avvalere della sua qualità di medico?

Un brivido gli corse per la schiena. Si raddrizzò sul busto, dolorosamente, si passò le mani tremanti sui capelli; poi si portò un dito tra i denti e stette un pezzo a guardar fisso innanzi a sé. Movendo gli occhi, scorse la serva, si voltò a guardar l’infermo; andò a sedere presso un tavolinetto, su cui appoggiò i gomiti, stringendosi la testa tra le mani.

– È grave? – domandò allora la serva.

Egli si riscosse e la mirò, come se non avesse inteso.

– Grave, sí, – poi disse. – Ma non c’è da dargli per ora alcun rimedio. Va’: nel caso chiamerò.

Il Tranzi, al letto di Marco, è da solo e ha tempo per riflettere sulle conseguenze delle sue azioni. È una valutazione onesta, e lui sperimenta il rimorso.

Da anni e anni gli erano abituali certi terribili dialoghi con se stesso, che non potevano avere altra conclusione che in un atto estremo. Conosceva il ribrezzo per questo atto, il tumulto di tutte le energie vitali insorgenti a impedirlo, la volontà che le domava, lo sfogo che allora si davano quelle, nell’immaginare la vita che sarebbe rimasta per gli altri, dopo la sua morte. Ma qui l’atto violento da compiere non era piú contro se stesso; e la vita che sarebbe rimasta per gli altri, non gli si rappresentava piú come in una triste inutile successione di casi press’a poco invariabili. Qui, gli altri non erano piú estranei indifferenti. Egli vedeva sua figlia; e la vita che gli si rappresentava, dopo l’atto violento da compiere, era quella di lei. Non avrebbe esitato un momento, se avesse dovuto agire contro se stesso. Ma agire contro un altro, e a tradimento, gli rendeva il ribrezzo invincibile.

Il Tranzi si rende conto che non ha diritto di entrare nella vita di Bebè. Decide di condividere la sua fortuna con lei, ma anche di dare a Bebè la sua libertà, cioè, la libertà di vivere sua vita come sceglie, senza o ulteriori interferenze o interazioni con lui.

Tutta la notte, dibattendosi in quella veglia spaventosa nella camera dell’infermo, cercò di radicarsi nell’orrenda decisione, che gli appariva di punto in punto sempre piú necessaria e quasi fatale.

Altri aveva allevato sua figlia, altri la aveva finora mantenuta, per altri ella era ancora in vita. Egli non aveva mai fatto nulla per lei.

Doveva far questo, ora. Non aveva piú altro da fare.

Le aveva portato la ricchezza; ma a che poteva valere per lei, ormai legata com’era a quel vecchio, dopo il sacrifizio del suo amore? Perché avesse valore per lei quella ricchezza, perché ella potesse dire di dover veramente la vita a suo padre, bisognava recidere, annientare quella che ella doveva agli altri; e il debito che aveva pagato con la propria persona. Sí, senza esitare, poiché cosí provvidenzialmente il caso lo favoriva, egli doveva sopprimere chi aveva fatto per la figlia tutto quello che avrebbe dovuto far lui; sopprimere chi aveva voluto in tutto sostituirlo, ripigliandosi anche la madre nella figlia. A questo solo patto poteva dirsi padre. Liberandola da tutti i legami contratti dal tempo in cui egli per lei non era esistito, le avrebbe ridato, con questa libertà e con la ricchezza, la vita.

Marco Perla muore. Bebè capisce ciò che il Tranzi ha deciso di fare.

Troppo chiaramente però, infine, parlò lo sguardo di lui, quando, disfatto, curvo sul letto a spiare l’ultimo respiro del moribondo, si rialzò e si volse verso di lei, che gli stava accanto convulsa, atterrita.

Le diceva con quello sguardo di non aver paura perché egli doveva fare cosí.

Se la strinse al petto; le sussurrò tra i capelli:

– Sei libera. Puoi vivere ora.

In un’ultima scena profondamente ambigua, Bebè usa il Tranzi per bloccare la sua visione di Marco.

Ma ella sentí che non poteva piú, ora, sapendo. E s’appoggiò a quel petto per non scorgere sul letto la vittima.

 

Leave a comment