Riassunto: Lumiè di Sicilia

Cari lettori,

Abbiamo pensato di iniziare questo riassunto con un commento generale:

uno dei grandi piaceri della lettura delle novelle di Pirandello è che, più e più volte, le storie richiamano alla mente un aneddoto personale o un ricordo della propria vita. Incidenti, emozioni, sentimenti… cioè, ricordi che, per anni,  erano ‘fuori di testa’, ma che ‘arrivano’ di corsa, finendo per sopraffare il lettore. (Se posso, vi suggerisco di leggere le novelle come faccio io, cioè, con un’altra persona, una che ammir molto, una che rispetto per la sua intelligenza, una che mi fido — riderà con me quando racconterò i miei riccordi e mi permetterà di ridere quando condividerà i suoi ricordi con me.)

***

Quindi… questo è un ricordo che è venuto a uno di noi mentre leggendo Lumiè di Sicilia.

Ero un bambino (alle elementari) e sono entrato a far parte della mia famiglia in vacanza estiva a Green Bay, in Wisconsin. Green Bay era (ed è tuttora) ‘la casa’ del Green Bay Packers, una squadra di football americano professionista; all’epoca, era la migliore squadra del mondo (e l’oggetto del fascino e della fantasia d’un bambino). Green Bay era anche ‘la casa’ d’un ristorante di proprietà del cugino di mio padre che, durante la vacanza, abbiamo visitato per pranzare. Il cugino di mio padre ci ha accolto calorosamente alla porta del ristorante, poi ci ha subito ‘ridimensionato’ (cioè, ci ha ‘squadrato da capo a piedi’). E poi ci ha invitato a mangiare in una stanza sul retro del ristorante, dove non c’erano nessun altro cliente.

Dopo, nulla è mai stato detto in mia presenza, ma ho sospettato che il cugino di mio padre abbia pensato che siamo stati vestiti in modo inappropriato (non raffinato, troppo casuale, ecc.) e quindi siamo stati un imbarazzo, cioè, ‘pesci fior d’acqua’! (Dunque, ci ha messi nella stanza sul retro per sequestrarci dagli altri clienti.)

***

— Teresina sta qui?

 

Il cameriere, ancora in maniche di camicia, ma già impiccato in un altissimo solino, squadrò da capo a piedi il giovanotto che gli stava davanti sul pianerottolo della scala: campagnolo all’aspetto, col bavero del pastrano ruvido rialzato fin su gli orecchi e le mani paonazze, gronchie dal freddo, che reggevano un sacchetto sudicio di qua, una vecchia valigetta di là, a contrappeso.

Comincia così Lumiè di Sicilia(L. Pirandello), una novella sul tema del ‘pesce fuor d’acqua’, cioè, quanto ci possiamo esser scomodi quando ci troviamo in un posto strano, con norme di comportamento e costumi impreviste.

All’inizio della novella ci viene presentato il protagonista, Micuccio Bonavino. Impariamo che ha viaggiato lui per arrivare a una casa elegante (in una grande città non identificata). È salutato da un cameriere. (Non ci viene detto mai il nome del cameriere, ma durante la nostra ricerca della novella abbiamo trovato un’altra risorsa che ha identificato il cameriere come Fernando.)

Il Bonavino è un giovanotto della campagna siciliana (vive a Messina). È poco sofisticato e, con ogni probabilità, scarsamente istruito. Soprattutto, arriviamo a capire che il Bonavino è una ‘creatura della campagna’: è intriso di costumi, valori e atteggiamenti che sono di Messinae quindi molto diversi da quelli che si trovano comunemente in una grande città.

Il Pirandello sembra utilizzare le personalità dei suoi personaggi per esprimer a noi la sua opinione. Il contrasto tra i due uomini non potrebb’esser più grande. Il cameriere è l’opposto del Bonavino, lui è intriso dei valori dell’alta società, cioè, è un professionista, qualcuno che ha sempre una facciata d’esser educato, rispettoso e felice.

(Dall’inizio della novella sospettiamo che il Bonavino abbia ‘superato il limite’ per così dire, cioè, si è avventurato dalla campagna alla grande città, e quindi è adesso un ‘pesce fuor d’acqua’.

I due uomini si misurano a vicenda. Come abbiamo visto il Bonavino ha viaggiato per incontrare il capo delle domestiche, Teresina Marnis.

— Teresina? E chi è? — domandò a sua volta, inarcando le folte ciglia giunte, che parevano due baffi rasi dal labbro e appiccicati lì per non perderli.

Il giovanotto scosse prima la testa per far saltare dalla punta del naso una gocciolina di freddo, poi rispose:

— Teresina, la cantante.

Il Bonavino sembra parlare di Teresina in termini molto informali, e questo è di preoccupazione per il cameriere… primo, perché, nel mondo del cameriere, è insolito parlare in questo modo, e, in secondo luogo, perché l’uso dell’informale possa indicare che il Bonavino è un amico intimo (o un parente) di Teresina, nel qual caso il cameriere lo tratterebbe in modo diverso

— Ah, — esclamò il cameriere, con un sorriso d’ironico stupore: — Si chiama così, senz’altro, Teresina? E voi chi siete?

— C’è o non c’è? — domandò il giovanotto, corrugando le ciglia e sorsando col naso. — Ditele che c’è Micuccio e lasciatemi entrare.

Sembra che il cameriere sia frustrato, tuttavia, perché i suoi tentativi di scoprire ciò che vuole sapere sono vanificati.

— Ma non c’è nessuno a quest’ora, — rispose il cameriere, col sorriso rassegato su le labbra. — La signora Sina Marnis è ancora a teatro e…

(Pensiamo che la frustrazione del cameriere sia dovuto al fatto che il Bonavino, in primo luogo, non ha nessun idea del motivo della domanda!)

Il Bonavino interrompe il cameriere per chiedere se la madre di Teresina è in casa. Si riferisce a sua madre come ‘zia Marta’.

— Anche zia Marta? — lo interruppe Micuccio.

Questa rivelazione ha naturalmente aiutato il cameriere, suggerendo che sono cugini il Bonavino e la Marnis! Il cameriere si comporta di conseguenza.

— Ah, lei è il nipote?

E il cameriere si fece subito cerimonioso.

— Favorisca allora, favorisca. Non c’è nessuno. Anche lei a teatro, la Zia. Prima del tocco non ritorneranno. È la serata d’onore di sua… come sarebbe di lei, la signora? cugina, allora?

Ma con questo, il Bonavino viene preso alla sprovvista. Non sembra aver una ‘struttura di riferimento’ per affrontar un linguaggio così espansivo e formale. Lui è descritto come ‘impacciato’.

Micuccio restò un istante impacciato.

Il Bonavino chiarisce,

— Non sono… no, non sono cugino, veramente. Sono… sono Micuccio Bonavino; lei lo sa. Vengo apposta dal paese.

…e il cameriere esegue l’appropriata ‘correzione del corso’.

A questa risposta il cameriere stimò innanzi tutto conveniente ritirare il leie riprendere il voi; introdusse Micuccio in una camerette al buio presso la cucina, dove qualcuno ronfava strepitosamente, e gli disse:

— Sedete qua. Adesso porto un lume.

Il cameriere chiede al Bonavino d’aspettare momentaneamente in una stanza buia dove dorme Dorina, un’altra delle domestiche. Scopreremo che Teresina ha anche impegato un cuoco e un guattero. Veniamo anche a capire che la trama è ambientata in inverno; è notte, molto freddo e il Bonavino ha viaggiato 36 ore in treno da Messina… quindi è esausto, affamato, sporco e freddo.

Micuccio guardò prima dalla parte donde veniva quel ronfo, ma non poté discernere nulla; guardò poi in cucina, dove il cuoco, assistito da un guattero, apparecchiava da cena. L’odor misto delle vivande in preparazione lo vinse: n’ebbe quasi un’ebbrietà vertiginosa: era poco men che digiuno dalla mattina; veniva dalla provincia di Messina; una notte e un giorno intero in ferrovia.

A questo punto veniamo presentati a Dorina, che è descritta in termini franchi e poco lusinghieri.

Il cameriere recò il lume, e quello che ronfava nella stanza, dietro una cortina sospesa a una funicella da una parete al l’altra, borbottò tra il sonno:

— Chi è?

— Ehi, Dorina, su! — chiamò il cameriere. — Vedi che c’è qui il signor Bonvicino.

— Bonavino, — corresse Micuccio, che stava a soffiarsi su le dita.

— Bonavino, Bonavino, conoscente della signora. Tu dormi della grossa: suonano alla porta e non senti. Io ho da apparecchiare, non posso far tutto io, capisci?, badare al cuoco che non sa, alla gente che viene.

(Il cameriere ha dimenticato il cognome di Bonavino: sembra ovvio che il cameriere si abbia stabilito che il Bonavino sia un ospite di poca importanza, qualcuno che possa esser ignorato tranquillamente).

Dorina si addormenta di nuovo mentre il cameriere si dà da fare i preparativi per la festa della sera.

Un ampio sonoro sbadiglio, protratto nello stiramento delle membra e terminato in un nitrito per un brividore improvviso, accolse la protesta del cameriere, il quale s’allontanò esclamando:

— E va bene!

Micuccio sorrise, e lo seguì con gli occhi, attraverso un’altra stanza in penombra, fino alla vasta sala in fondo, illuminata, dove sorgeva splendida la mensa, e restò meravigliato a contemplare, finché di nuovo il ronfo non lo fece voltare a guardar la cortina.

Il Bonavino sente d’esser trattato in modo irrispettoso dal cameriere. Poi, leggiamo una rivelazione sorprendente / inaspettato: Micuccio si considera il fidanzato di Teresina! Il Bonavino sembra capire che la sua rivelazione causerebbe il cameriere d’esser più rispettoso, ma il suo impaccio gli impedisce di parlare.

Il cameriere, col tovagliolo sotto il braccio, passava e ripassava, borbottando or contro Dorina che seguitava a dormire, or contro il cuoco che doveva esser nuovo, chiamato per l’avvenimento di quella sera, e lo infastidiva chiedendo di continuo spiegazioni. Micuccio, per non infastidirlo anche lui, stimò prudente ricacciarsi dentro tutte le domande che gli veniva di rivolgergli. Avrebbe poi dovuto dirgli o fargli intendere ch’era il fidanzato di Teresina, e non voleva, pur non sapendone il perché lui stesso; se non forse per questo che quel cameriere allora avrebbe dovuto trattar lui, Micuccio, da padrone, ed egli, vedendolo così disinvolto ed elegante, quantunque ancor senza marsina, non riusciva a vincere l’impaccio che già ne provava solo a pensarci.

Dopo un po’ il Bonavino chiede,

A un certo punto però, vedendolo ripassare, non seppe tenersi dal domandargli:

— Scusi… questa casa di chi è?

…e arriva a capire che la casa appartiene a Teresina e che i domestici sono i suoi impiegati. La fortuna di Teresina sembra essere descritta come o una ‘profezia’ o una ‘scommessa’ o una ‘promessa’ (che ora si è avverata).

— Nostra, finché ci siamo, — gli rispose in fretta il cameriere.

E Micuccio rimase a tentennare il capo.

Perbacco, era vero dunque! La fortuna acciuffata. Affaroni. Quel cameriere che pareva un gran signore, il cuoco e il guattero, quella Dorina che ronfava di là: servi tutti agli ordini di Teresina. Chi l’avrebbe mai detto?

A questo punto, ci viene fornito un po’ del retroscena del Bonavino. Cinque anni fa, zia Marta, Teresina e il Bonavino erano conoscenti a Messina. Erano gravemente limitate le vite di zia Marta e Teresina dalla povertà estrema. Tuttavia, Teresina era ambiziosa; non solo voleva sopravvivere, osava sognare una vita prospera. Teresina era benedetta da una magnifica voce cantante, e cantava ogni giorno come mezzo per esprimere la sua frustrazione. Il Bonavino è stato il primo a riconoscere il suo dono; ha facilitato la sua introduzione ad altri che potevano insegnarle e anche assistere lo sviluppo della sua carriera. Il Bonavino ha pagato per tutto, nonostante le obiezioni forti della sua famiglia. Teresina era grata al Bonavino: i giovanotti hanno escogitato un piano per sposarsi… una volta che la sua carriera era lanciata.

Rivedeva col pensiero la soffitta squallida, laggiù laggiù, a Messina, dove Teresina abitava con la madre. Cinque anni addietro, in quella soffitta lontana, se non fosse stato per lui, mamma e figlia sarebbero morte di fame. E l’aveva scoperto lui, lui, quel tesoro nella gola di Teresina! Ella cantava sempre, allora, come una passera dei tetti, ignara del suo tesoro: cantava per dispetto, cantava per non pensare alla miseria a cui egli cercava di sovvenire alla meglio, non ostante la guerra che gli movevano in casa i genitori, la madre specialmente. Ma poteva abbandonai Teresina in quello stato, dopo la morte del padre? Abbandonarla perché non aveva nulla, mentre lui, bene o male, un posticino ce l’aveva, di sonator di flauto nel concerto comunale? Bella ragione! E il cuore?

Ah, era stata una vera ispirazione del cielo, un suggerimento della fortuna, quel far caso alla voce di lei, quando nessuno ci badava, in quella bellissima giornata d’aprile, presso la finestra dell’abbaino che incorniciava vivo vivo l’azzurro del cielo. Teresina canticchiava un’appassionata arietta siciliana, di cui Micuccio ricordava ancora le tenere parole. Era triste Teresina, quel giorno, per la recente morte del padre e per l’ostinata opposizione dei parenti di lui; e anch’egli – ricordava era triste, tanto che gli erano spuntate le lagrime, sentendola cantare. Pure tant’altre volte l’aveva sentita, quell’arietta; ma cantata a quel modo, mai. N’era rimasto così impressionato, che il giorno appresso, senza prevenire né lei né la madre, aveva condotto con se, su nella soffitta, il direttore del concerto, suo amico. E così erano cominciate le prime lezioni di canto, e, per due anni di fila egli aveva speso per lei quasi tutto il suo stipendio: le aveva preso a nolo un pianoforte, comperate le carte di musica e qualche amichevole compenso aveva pur dato al maestro. Bei giorni lontani! Teresina ardeva tutta nel desiderio di spiccare il volo, di lanciarsi nell’avvenire che il maestro le prometteva luminoso; e, frattanto, che carezze di fuoco a lui, per dimostrargli tutta la sua gratitudine, e che sogni di felicità comune!

 

Anche zia Marta nutriva preoccupazioni. Sfortunatamente, aveva visto altri in circostanze simili, cioè, quelli ambiziosi con il coraggio di sognare, ma in ogni caso hanno fallito e sono stati ‘schiacciati’ come risultato. Certo zia Marta non voleva che Teresina subisse lo stesso destino.

Zia Marta, invece, scoteva amaramente il capo: ne aveva viste tante in vita sua, povera vecchietta, che ormai non aveva più fiducia nell’avvenire: temeva per la figliola, e non voleva che ella pensasse neppure alla possibilità di togliersi da quella rassegnata miseria; e poi sapeva, sapeva ciò che costava a lui la follia di quel sogno pericoloso.

I giovanotti si erano ribellati e perseverati nonostante tutte le probabilità. Alla fine Teresina era accettata da un conservatorio di Napoli per l’addestramento formale. Il Bonavino ha pagato per il suo addestramento.

Ma né lui né Teresina le davano ascolto, e invano essa si era ribellata quando un giovane maestro compositore, avendo udito Teresina in un concerto, aveva dichiarato che sarebbe stato un vero delitto non darle migliori maestri e una compiuta educazione artistica: a Napoli, bisognava mandarla al conservatorio di Napoli a qualunque costo.

E allora lui, Micuccio, senza pensarci due volte, l’aveva rotta coi parenti, aveva venduto un poderetto lasciatogli in eredità dallo zio prete, e mandato Teresina a Napoli a compiere gli studi.

Scopriamo che il Bonavino non ha visto Teresina da quando ha lasciato Messina. Scopriamo anche che Teresina ha avuto un enorme successo da quando ha completato la sua formazione formale.

Non l’aveva più riveduta, da allora. Lettere, sì… aveva le sue lettere dal conservatorio e poi quelle di zia Marta, quando già Teresina si era lanciata nella vita artistica, contesa dai principali teatri, dopo l’esordio clamoroso al San Carlo. A piè di quelle tremule incerte lettere raspate alla meglio su la carta dalla povera vecchietta c’eran sempre due paroline di lei, di Teresina, che non aveva mai tempo di scrivere: « Caro Micuccio, confermo quanto ti dice la mamma. Sta’ sano e voglimi bene ». Eran rimasti d’accordo che egli le avrebbe lasciato cinque, sei anni di tempo per farsi strada liberamente: erano giovani entrambi e potevano aspettare. E quelle lettere, nei cinque anni già trascorsi, egli le aveva sempre mostrate a chi voleva vederle, per distruggere le calunnie che i suoi parenti scagliavano contro Teresina e la madre.

Ad un certo punto Il Bonavino ha sofferto di una grave malattia. Per aiutarlo, Teresina gli ha mandato dei soldi. Una piccola parte del denaro potrebb’esser stata utilizzata per la sua cura, ma la gran parte è stata rubata dalla sua famiglia. Rimane solo una piccola quantità.

Poi s’era ammalato; era stato per morire; e in quell’occasione, a sua insaputa, zia Marta e Teresina avevano inviato al suo indirizzo una buona somma di danaro: parte se n’era andata durante la malattia, ma il resto egli lo aveva strappato a viva forza dalle mani rapaci dei suoi parenti e ora, ecco, veniva a ridarlo a Teresina. Perché, denari – niente! egli non ne voleva. Non perché gli paressero elemosina, avendo egli già speso tanto per lei; ma… niente! non lo sapeva dire lui stesso, e ora più che mai, lì, in quella casa… – denari, niente!

Veniamo a capire che il Bonavino è rimasto costante nel suo amore per Teresina, nonostante i notevoli ostacoli che ha dovuto affrontare… ha adesso viaggiato da Messina perché è giunto il momento, crede, di sposarsi.

Come aveva aspettato tant’anni, poteva ancora aspettare. Che se poi denari Teresina ne aveva d’avanzo, segno che l’avvenire le si era schiuso, ed era tempo perciò che l’antica promessa s’adempisse, a dispetto di chi non voleva crederci.

Eventualmente il Bonavino ‘si risveglia’ dalle sue riflessioni. Rimane ancora freddo dal viaggio. Il cameriere lo invita a venire in cucina per scaldarsi, ma il Bonavino rifiuta. È a disagio in presenza del cameriere.

Micuccio sorse in piedi, con le ciglia corrugate, come per raffermarsi in questa conclusione; si soffiò di nuovo su le mani diacce e pestò i piedi per terra.

— Freddo? — gli disse, passando, il cameriere. — Poco ci vorrà, adesso. Venite qua in cucina. Starete meglio.

Micuccio non volle seguire il consiglio del cameriere che, con quell’aria da gran signore, lo sconcertava e l’indispettiva. Si rimise a sedere e a pensare, costernato.

Suona una campana. Sono arrivati zia Marta, Teresina e molti ospiti. Ci sarà una grande festa in casa in onore di Teresina (un importante passo avanti nella sua carriera). Il cameriere entrano in azione.

Poco dopo, una forte scampanellata lo scosse.

— Dorina, la signora! — strillò il cameriere infilandosi in fretta e in furia la marsina, mentre correva ad aprire; ma vedendo che Micuccio stava per seguirlo, s’arrestò di botto per intimargli:

— Voi state qua; prima lasciate che la avverta.

Ohi, ohi, ohi… — si lamentò una voce insonnolita dietro la cortina; e, poco dopo, apparve un donnone tozzo, affagottato, che strascicava una gamba e non riusciva ancora a spiccicar gli occhi, con uno scialle di lana fin sopra il naso, i capelli ritinti d’oro.

Il Bonavino spiega a Dorina che Teresina è arrivata.

Micuccio stette a mirarla allocchito. Anche colei, sorpresa, sgranò tanto d’occhi in faccia all’estraneo.

— La signora, — ripeté Micuccio.

Allora Dorina riprese d’un subito coscienza:

— Eccomi, eccomi… — disse, togliendosi e buttando dietro la cortina lo scialle e adoperandosi con tutta la pesante persona a correr verso l’entrata.

Ancora una volta, vediamo che il Bonavino non riesce a capire cosa sta succedendo.

L’apparizione di quella strega ritinta, l’intimazione del cameriere diedero a un tratto a Micuccio, avvilito, un angoscioso presentimento.

Il Bonavino sente la voce di zia Marta. Lei ordina ai servi di portare ceste di fiori (ottenute dal teatro) al salone.

Sentì la voce stridula di zia Marta:

– Di là, in sala! in sala, Dorina!

E il cameriere e Dorina gli passarono davanti, reggendo magnifiche ceste di fiori.

Il povero Bonavino si perde nella confusione. Chiude gli occhi e si ritira dentro di sé. Immagina di sentire la voce di Teresina, ma immagina che abbia uno strano carattere innaturale.

Sporse il capo a guardare, in fondo, la sala illuminata e vide tanti signori in marsina, che parlavano confusamente. La vista gli s’annebbiò: era tanto lo stupore, tanta la commozione, che non s’accorse egli stesso che gli occhi gli si erano riempiti di lagrime: li chiuse, e in quel bujo strinse tutto in sì, quasi per resistere allo strazio che gli cagionava una lunga squillante risata. Era di Teresina? Oh Dio, e perché rideva così, di là?

Qualcuna grida… il Bonavino è sorpreso, riconosce facilmente la voce di zia Marta.

Un grido represso gli fece riaprir gli occhi, e si vide davanti – irriconoscibile – zia Marta, col cappello in capo, poveretta! oppressa da una ricca splendida mantiglia di velluto.

(Pensiamo che l’uso qui del verbo ‘oppressa’ sia stato scelto con cura. Come vedremo, zia Marta, come il povero Bonavino, è un ‘pesce fuor d’acqua’).

I due vecchi conoscenti si scambiano convenevoli. Zia Marta lascia il Bonavino per un momento mentre lei prende accordi per accoglierlo.

— Come! Micuccio… tu qui?

— Zia Marta… — esclamò Micuccio, quasi impaurito, restando a contemplarla.

— Come mai! — seguitò la vecchietta, sconvolta. — Senza avvertire? Che è stato? Quando sei arrivato? Giusto questa sera… Oh Dio, Dio…

— Son venuto per… — balbettò Micuccio, non sapendo più che dire.

— Aspetta! — lo interruppe zia Marta. — Come si fa? come si fa? Vedi quanta gente, figliuolo mio? È la festa di Teresina, la sua serata… Aspetta, aspetta un po’ qua…

— Se voi, — si provò a dir Micuccio, a cui l’angoscia stringeva la gola, — se voi credete che me ne debba andare…

— No, aspetta un po’, ti dico, — s’affrettò a rispondergli la buona vecchietta tutta imbarazzata.

— Io però, — riprese Micuccio, — non saprei dove andare in questo paese… a questa ora…

Sembra che Zia Marta informi Teresina che il Bonavino è venuto a trovarci.

Zia Marta lo lasciò, facendogli con una mano inguantata segno d’attendere, ed entrò nella sala, nella quale poco dopo a Micuccio parve si aprisse una voragine: vi s’era fatto d’improvviso silenzio. Poi Udì, chiare, distinte, queste parole di Teresina:

— Un momento, signori.

Ancora una volta (sospiro!), povero Bonavino è commosso dal suono della voce di Teresina e dal pensiero di rivederla. Zia Marta ritorna.

E di nuovo la vista gli s’annebbiò, nell’attesa ch’ella comparisse. Ma Teresina non comparve, e la conversazione fu ripresa nella sala. Tornò invece, dopo pochi minuti che a lui parvero eterni, zia Marta senza cappello, senza mantiglia, senza guanti, meno imbarazzata.

Gli accordi sono fatti. Il Bonavino rimarrà con zia Marta, separata dagli altri ospiti. Zia Marta ammette d’esser un ‘pesce fuor d’acqua’. Comprendiamo che il fatto di trascorrere del tempo con un vecchio amico di Messina è tanto per lei quanto per impedirlo d’esser visto dagli ospiti.

— Aspettiamo un po’ qua, sei contento? — gli disse. — io starò con te… Adesso si fa cena… Noi ce ne staremo qua. Dorina ci apparecchierà questo tavolino, e ceneremo insieme, qua; ci ricorderemo de’ bei tempi, eh?…

Non mi par vero di trovarmi con te, figlietto mio, qua; qua, appartati… Lì, capirai, tanti signori… Lei, poverina, non può farne a meno… La carriera, m’intendi? Eh, come si fa! Li hai veduti i giornali? Cose grandi, figlio mio! Ma io… io, come sopra mare sempre… Non mi par vero che me ne possa star qua con te, stasera.

E la buona vecchietta, che aveva parlato parlato, istintivamente, per non dar tempo a Micuccio di pensare, alla fine sorrise e si stropicciò le mani, guardandolo, intenerita.

Dorina venne ad apparecchiare la tavola, in fretta, perché già di là, in sala, il pranzo era cominciato.

Il Bonavino chiede se sarà in grado di veder Teresina. Zia Marta, che sembra capire tutto, gli assicura che Teresina trascorrerà del tempo con lui.

— Verrà? — domandò cupo, Micuccio, con voce angosciata. — Dico, per vederla almeno.

— Certo che verrà, — gli rispose subito la vecchietta, sforzandosi di vincere l’impaccio. — Appena avrà un momentino di largo: già me l’ha detto.

Adesso i due vecchi conoscenti / amici sono liberi d’impegnarsi l’una l’altro. In un passaggio sorprendente, il povero Bonavino e zia Marta si scambiano occhiate consapevoli. Siamo convinti che zia Marta sappia tutto e che ciò che conosca sembra creare una profonda tristezza.

Si guardarono tutt’e due e si sorrisero, come se finalmente si riconoscessero. Attraverso l’impaccio e la commozione le loro anime avevano trovato la via per salutarsi con quel sorriso. « Voi siete zia Marta » – dicevano gli occhi di Micuccio. – « E tu, Micuccio, il mio caro e buon figliuolo, sempre lo stesso, poverino! » – dicevano quelli di zia Marta. Ma subito la buona vecchietta abbassò i suoi, perché Micuccio non vi leggesse altro. Si stropicciò di nuovo le mani e disse:

— Mangiamo, eh?

— Ho una fame, io! — esclamò, tutto lieto e raffidato, Micuccio.

Poi accade qualcosa di straordinario… zia Marta fa il segno della croce prima che lei inizi a mangiare. Pensiamo che sia qualcosa che non le è stato permesso di fare nel mondo di Teresina.

— La croce, prima: qua posso farmela, davanti a te, — aggiunse la vecchietta con aria birichina, strizzando un occhio, e si segnò.

Il cameriere viene a servirli. Il Bonavino guarda zia Marta mentre prende una porzione di cibo. Tuttavia, quando è il suo turno, il povero Bonavino esita … le sue mani sono sporche e lui esita a mostrarle, poverino, anche se è famelico. Il Bonavino cerca di segnalare al cameriere di aiutarlo, ma il cameriere o non capisce o è preoccupato. Zia Marta viene in soccorso!

Il cameriere venne a offrir loro il primo servito. Micuccio stette bene attento a osservare come faceva zia Marta a trarre dal piatto la porzione. Ma quando venne la sua volta, nel levar le mani, pensò che le aveva sporche dal lungo viaggio, arrossì, si confuse, alzò gli occhi a sogguardare il cameriere, il quale, compitissimo ora, gli fece un lieve inchino col capo e un sorriso, come per invitarlo a servirsi. Fortunatamente zia Marta venne a trarlo d’impaccio.

— Qua qua, Micuccio, ti servo io.

Se la sarebbe baciata dalla gratitudine! Avuta la porzione, appena il cameriere si fu allontanato, si segnò anche lui in fretta.

— Bravo figliuolo! — gli disse zia Marta.

Ed egli si sentì beato, a posto, e si mise a mangiare come non aveva mangiato mai in vita sua, senza più pensare alle sue mani, né al cameriere.

Il pasto continua. Il Bonavino scambia una seconda occhiata con zia Marta,

Tuttavia, ogni qual volta questi, entrando o uscendo dalla sala, schiudeva la bussola a vetri e veniva di là come un’ondata di parole confuse o qualche scoppio di riso, egli si voltava turbato e poi guardava gli occhi dolenti e affettuosi della vecchina, quasi per leggervi una spiegazione.

…che interpreta male.

Ma vi leggeva invece la preghiera di non chieder nulla per il momento, di rimettere a più tardi le spiegazioni. E tutt’e due di nuovo si sorridevano e si rimettevano a mangiare e a parlare del paese lontano, d’amici e conoscenti, di cui zia Marta gli domandava notizie senza fine.

Poi Teresina entra nella stanza. Povero Bonavino è completamente sopraffatto.

— Non bevi?

Micuccio stese la mano per prendere la bottiglia; ma, in quella, la bussola della sala si riaprì: un fruscio di seta, tre passi frettolosi, uno sbarbaglio, quasi la camerette si fosse d’un tratto violentemente illuminata, per accecarlo.

— Teresina…

E la voce gli morì sulle labbra, dallo stupore. Ah, che regina!

Teresina è essenzialmente irriconoscibile. Il suo modo di vestire e il suo comportamento sono stati trasformati. Il povero Bonavino è sbalordito.

Col volto in fiamme, gli occhi sbarrati, la bocca aperta, egli restò a contemplarla, istupidito. Come mai ella… così? Nudo il seno, nude le spalle, le braccia nude… tutta fulgente di gemme e di stoffe… Non la vedeva, non la vedeva più come una persona viva e vera davanti a sé. Che gli diceva? Non la voce, né gli occhi, né il riso: nulla, nulla più riconosceva di lei, in quell’apparizione di sogno.

La ‘nuova versione’ di Teresina è fredda ed emotivamente distaccata.

— Come va? Stai bene ora, Micuccio? Bravo, bravo… Sei stato malato, se non m’inganno… Ci rivedremo tra poco… Tanto, qui hai con te la mamma… Siamo intesi, eh?

La sua ambizione, a quanto pare, le permetterà solo di passare un minuto o due con Bonavino. Quindi Teresina torna dai suoi altri ospiti.

E Teresina scappò via in sala, tutta frusciante.

Il povero Bonavino è ‘schiacciato’. Ha combattuto così a lungo e duramente per Teresina, l’ha difesa, ha fatto sacrifici, ha sperato per il meglio. In questo momento, si rende conto di aver sbagliato a farlo. È veramente sconfitto.

— Non mangi più? — domandò timorosa, poco dopo, zia Marta per rompere lo sbalordimento di Micuccio.

Questi si voltò appena a guardarla.

— Mangia, — insistette la vecchina indicandogli il piatto.

Micuccio si portò due dita al colletto affumicato e spiegazzato e se lo stirò, provandosi a trarre un lungo respiro.

— Mangiare?

E agitò più volte le dita presso il mento, come se salutasse, per significare: non mi va più, non posso. Stette ancora un pezzo silenzioso, abilito, assorto nella visione di poc’anzi, poi mormorò:

— Come s’è fatta…

In questo momento, il povero Bonavino si rende conto di aver sbagliato a pensare che Teresina lo amerebbe ancora. È sconfitto.

E vide che zia Marta scoteva amaramente il capo e che aveva sospeso di mangiare anche lei, come se aspettasse.

— Ma neanche a pensarci più… — aggiunse poi, quasi tra sé, chiudendo gli occhi.

Vedeva ora, in quel suo buio, l’abisso che s’era aperto tra loro due. No, non era più lei – quella lì – la sua Teresina. Era tutto finito… da un pezzo, da un pezzo ed egli, sciocco, egli stupido, se n’accorgeva solo adesso. Glielo avevano detto là al paese, e lui s’era ostinato a non crederci… E ora, che figura ci faceva a star lì, in quella casa? Se tutti quei signori, se quel cameriere stesso avessero saputo che egli, Micuccio Bonavino, s’era rotte le ossa a venire di così lontano, trentasei ore di ferrovia, credendosi sul serio ancora il fidanzato di quella regina, che risate, quei signori e quel cameriere e il cuoco e il guattero e Dorina! Che risate, se Teresina lo avesse trascinato al loro cospetto, lì in sala, dicendo: « Guardate, questo poveretto sonator di flauto, dice che vuoi diventare mio marito! » Glielo aveva promesso lei stessa, è vero; ma come avrebbe potuto allora supporre che un giorno sarebbe divenuta così? Ed era anche vero, sì, che egli le aveva schiuso quella via e le aveva dato modo d’incamminarvisi; ma ecco, ella era ormai arrivata tanto, tanto lontano, che egli, rimasto lì, sempre lo stesso, a sonare il flauto le domeniche nella piazza del paese, come avrebbe più potuto raggiungerla? Neanche a pensarci… E che cos’erano poi quei pochi quattrinucci spesi allora per lei, divenuta adesso una gran signora? Si vergognava solo a pensare che qualcuno potesse sospettare che egli, con la sua venuta, volesse accampare qualche diritto per quei pochi quattrinucci miserabili.

In un notevole recupero, il povero Bonavino spiega a zia Marta che vuole restituire ciò che resta dei soldi che gli hanno mandato.

Gli sovvenne in quel punto di avere in tasca il denaro inviatogli da Teresina durante la malattia. Arrossì: ne provò onta, e si cacciò una mano nella tasca in petto della giacca, dove era il portafogli.

— Ero venuto, zia Marta, — disse in fretta, — anche per restituirvi questo denaro che mi avete mandato. Che ha voluto essere, pagamento? restituzione? Vedo che Teresina è divenuta una…, sì, mi pare una regina! vedo che… niente! neanche a pensarci più! Ma, questo denaro, no: non mi meritavo questo da lei… È finita, e non se ne parla più… ma, denari, niente! Mi dispiace solo che non sono tutti…

Zia Marta interrompe,

— Che dici, figliuolo mio? — cercò d’interromperlo, afflitta e con le lagrime agli occhi, zia Marta.

…ma il povero Bonavino le chiede di tacere e accetta la vita. Ha deciso d’andarsene.

Micuccio le fe’ cenno di star zitta.

— Non li ho spesi io: li hanno spesi i miei parenti, durante la malattia, senza ch’io ne sapessi nulla. Ma vanno per quella miseria che spesi io allora… vi ricordate? Non ci pensiamo più. Qua c’è il resto. E io me ne vado.

Zia Marta gli chiede di restare. Bonavino rifiuta di parlare.

— Ma come? Così di furia? — esclamò zia Marta, cercando di trattenerlo. — Aspetta almeno che lo dica a Teresina. Non hai sentito che voleva rivederti? Vado a dirglielo…

— No, è inutile, — le rispose Micuccio, deciso. — Lasciatela star li con quei signori; lì sta bene, al suo posto. Io, poveretto…

Poi, straordinariamente, il povero Bonavino spiega che il suo orgoglio non gli permetterà più d’esser un ‘pesce fuor d’acqua’. È giunto il momento di tornare a Messina.

L’ho veduta; m’è bastato… O piuttosto, andate pure… andate anche voi di là… Sentite come si ride? Io non voglio che si rida di me… Me ne vado.

Le parole di Bonavino risvegliano il dolore / la derisione / l’impacciato che zia Marta stessa ha provato.

Zia Marta interpretò nel peggior senso quella risoluzione improvvisa di Micuccio: come un atto di sdegno, un moto di gelosia. Le sembrava ormai, poverina, che tutti – vedendo sua figlia – dovessero d’un tratto concepire il più tristo dei sospetti, quello appunto per cui ella piangeva inconsolabile, trascinando senza requie il suo cordoglio segreto fra il tumulto di quella vita di lusso odioso che disonorava sconciamente la sua stanca vecchiaia.

— Ma io, — le scappò detto, — io ormai non posso più farle la guardia, figliuolo mio…

— Perché? — domandò allora Micuccio, leggendole a un tratto negli occhi il sospetto ch’egli non aveva ancora avuto; e si rabbujò in volto.

La vecchietta si smarrì nella sua pena e si nascose la faccia con le mani tremule, ma non riuscì a frenar l’impeto delle lagrime irrompenti.

— Sì, sì, vattene, figliuolo mio, vattene… — disse soffocata dai singhiozzi. — Non è più per te, hai ragione… Se mi aveste dato ascolto!

Il povero Bonavino tenta di confortarla.

— Dunque, — proruppe Micuccio chinandosi su lei e strappandole a forza una mano dal volto. Ma fu tanto accorato e miserevole lo sguardo con cui ella gli chiese pietà portandosi un dito su le labbra, che egli si frenò e aggiunse con altro tono, forzandosi a parlar piano: — Ah, lei dunque, lei… lei non è più degna di me. Basta, basta, me ne vado lo stesso… anzi, tanto più, ora… Che sciocco, zia Marta: non l’avevo capito! Non piangete… Tanto, che fa? Fortuna, dicono… fortuna…

E poi… il Bonavino ricorda d’aver portato un regalo per Teresina — lumiè di Messina. Il Bonavino decide invece di dar il frutto a zia Marta. Ad un certo punto, il Bonavino porta il frutto vicino a lei in modo che possa sentirne l’odore che, inconfondibilmente, è di Messina!

Prese la valigetta e il sacchettino di sotto la tavola, e s’avviava per uscire, quando gli venne in mente che lì, dentro il sacchetto, c’eran le belle lumìe ch’egli aveva portato a Teresina dal paese.

— Oh, guardate, zia Marta, — riprese.

Sciolse la bocca al sacchetto e, facendo riparo d’un braccio, versò quei freschi frutti fragranti sulla tavola.

— E se mi mettessi a tirare tutte queste lumìe, — soggiunse, — sulla testa di quei galantuomini là?

— Per carità, — gemette la vecchina tra le lagrime, facendogli un nuovo cenno supplichevole di tacere.

— No, niente, — riprese Micuccio, ridendo acre e rimettendosi in tasca il sacchetto vuoto. — Le avevo portate a lei; ma ora le lascio a voi sola, zia Marta.

Ne prese una e la accostò al naso di zia Marta.

— Sentite, zia Marta, sentite l’odore del nostro paese… E dire che ci ho anche pagato il dazio… Basta. A voi sola, badate bene… A lei dite così: « Buona fortuna! » a nome mio.

Il povero Bonavino se ne va. Tuttavia, prima di avventurarsi fuori, si rende conto d’esser perso in una strana città e che ora sta piovendo intensamente. Trova un posto in casa per sedersi. Da solo, singhiozza.

Riprese la valigetta e andò via. Ma per la scala, un senso d’angoscioso smarrimento lo vinse: solo, abbandonato, di notte, in una grande città sconosciuta, lontano dal suo paese; deluso, avvilito, scornato. Giunse al portone, vide che pioveva a dirotto. Non ebbe il coraggio d’avventurarsi per quelle vie ignote, sotto quella pioggia. Rientrò pian piano, rifece una branca di scala, poi sedette sul primo scalino e appoggiando i gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani, si mise a piangere silenziosamente.

Nel frattempo Teresina torna da sua madre, che singhiozza anche. Teresina si accorge a malapena che Bonavino non c’è più. Sua madre indica il regalo di Bonavino. Sopra l’obiezione di sua madre, Teresina porta la frutta nel salone per mostrarla (per prenderla in giro!) ai suoi ospiti.

Sul finir della cena, Sina Marnis fece un’altra comparsa nella cameretta. Vi trovò la mamma che piangeva anche lei, sola, mentre di là quei signori schiamazzavano e ridevano.

— È andato via? — domandò, sorpresa.

Zia Marta accennò di sì col capo, senza guardarla. Sina fissò gli occhi nel vuoto, assorta, poi sospirò:

— Poverino…

Ma subito dopo le venne di sorridere.

— Guarda, — le disse la madre, senza frenar più le lagrime col tovagliolo. — Ti aveva portato le lumìe…

— Oh, belle! — esclamò Sina, con un balzo. Strinse un braccio alla vita e ne prese con l’altra mano quanto più poteva portarne.

— No, di là no! — protestò vivamente la madre. Ma Sina scrollò le spalle e corse in sala gridando:

— Lumìe di Sicilia! Lumìe di Sicilia!

 

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