Riassunto: La mano del malato povero

La mano del malato povero (L. Pirandello) è una novella che per noi è provocatoria e profondamente commovente. È interessante notare che la storia sembra contenere due messaggi. Un messaggio, della parte prima della storia, è fornito dalla narrazione (la capacità per ‘storytelling’) del protagonista, un vecchio articolato, molto intelligente, che offre un’opinione su quelle cose che siano più importanti nella vita sua, cioè, quelle cose che offrano il maggior valore per la propria vita quotidiana. Il secondo messaggio riguarda il potere e valore dell’osservazione… qui, il punto di vista sembra essere che le nostre espressioni facciali ed, in particolare, il modo in cui ci muoviamo possano fornire una ‘finestra’ nelle nostra anime, nelle nostre vite emotive. I nostri movimenti, in altre parole, possano riflettere i nostri sentimenti, le nostre preoccupazioni interiori e le nostre opinioni nascoste.

***

Una volta sola? Ci sarò stato almeno tre volte! Tre? Cinque… non so. Perché vi fa tanta impressione l’ospedale?

All’inizio dela novella, un vecchio, il protagonista, che non consceremo mai, sta parlando ad un gruppo di persone che sono più giovani di lui. Come ci uniamo alla conversazione che è in corso, immaginiamo che il vecchio abbia appena spiegato che ha una malattia cronica, e che questa, grave, l’abbia causato il suo ricovero in ospedale. (Forse il vecchio sia stato dimesso di recente). In ogni caso, gli ascoltatori sembrino aver espresso le loro preoccupazioni, in particolare perché lui sia stato ricoverato in ospedale. Il vecchio però sembra essere disinvolto e sprezzante: sembra dire a loro che una malattia cronica sia una parte normale della vita dei vecchi, qualcosa cioè da aspettarsi.

Poi il vecchio spiega che è senzatetto e solo in questo mondo. È anche impoverito, ma aggiunge rapidamente che il denaro gli è poco preoccupato al momento… che ciò che gli piace non può in alcun modo essere ‘acquistato’ …semplicemente non è in vendita.

Non ho casa. Non ho nessuno.

E poi, scusate, spendere denaro, ad averne, per un piacere (lasciamo che io non lo farei mai, perché i piaceri miei non li compro a denari)

Il vecchio poi spiega che comprende il rapporto tra il denaro ei piaceri terreni,

ma via, potrei ammetterlo.

…ma che anche se avesse soldi, sarebbe stato consumato dal costo delle sue cure mediche;

Non ammetto dopo il malanno, dopo le sofferenze d’una malattia, per giunta pagar le medicine, il medico.

…e poi spiega che qualsiasi discussione sulle spese mediche è infatti discutibile / teorico / accademico: in sostanza non ha soldi, e come risultato la sua cura medica è fornita gratuitamente dal governo.

Del resto, non ne ho mai avuti per prendermi i così detti piaceri della vita, come li intendono gli altri: dunque, diritto d’aver gratis la cura dei malanni che mi dà.

Lui continua spiegando che la sua malattia è grave… così grave che si qualifica per cura indigente, senza la necessità d’ulteriore giustificazione.

Parecchi, credo; anzi, senza dubbio. Sono la tessera d’entrata: senza, non m’avrebbero ricevuto. E devo anche averli buoni, a quanto sembra: intendo, non passeggeri: qua, non so, al cuore; al fegato, ai reni, non so. Dicono che ho guasto tutto l’organismo.

Il vecchio spiega inoltre che la sua malattia e le sue implicazioni sono di scarsa importanza, nel senso che è ben conosciuto / stabilito che la sua prognosi è grave,

Sarà vero; ma non me n’importa, perché dopo tutto, se mai – dico, se questo fosse vero – non sarebbe un gran guajo.

…e poi suggerisce / insinua / accenna qualcos’altro… cioè, una cosa che lo preoccupa più della sua malattia,

Il vero guajo è un altro.

…e questo in particolare sembra catturare l’attenzione dei suoi ascoltatori.

– Quale?

Il vecchio risponde in modo un po’ criptico. In primo luogo, accusa i suoi ascoltatori di voler sapere troppo o d’essere troppo curioso — in senso negativo, vuol dire che gli ascolatori sono troppo invadente. Poi spiega che lui stesso è diverso, e con ciò intende dire che non è affatto curioso, che non fa mai domande. Alla fine, accusa ancora una volta i suoi ascoltatori d’esser insensibili — cioè, né perspicaci né attenti — e per questo sarebbe uno spreco del tempo se dovesse spiegare qualcosa di più.

Eh, voi, cari amici, volete saper troppo! Al contrario di me che non voglio saper mai nulla. Se debbo dirvelo io, qual è il vero guajo, è segno che voi non l’avvertite. E allora perché dovrei dirvelo io?

Naturalmente, ci siamo fortunati perché il vecchio sceglie di ignorare i ‘difetti / limiti’ dei suoi ascoltatori… procede a rispondere alla loro domanda, “Quale?”

Il vecchio inizia spiegando il suo atteggiamento nei confronti dei suoi medici: non chiede mai della natura della sua malattia.

Ai medici che m’hanno avuto in cura io non ho mai chiesto di che male fosse afflitto il mio corpo.

Dopotutto, è ovvio a lui (anzi, a tutti) che il suo corpo ha raggiunto un punto d’esaurimento e che la sua malattia è allo stadio finale.

So che questo povero asino che mi porta l’ho fatto trottar troppo, e per certe vie che non sarebbe mai venuto in mente a nessuno d’infilare.

Poi il vecchio spiega che non gli piace il tempo che trascorre in ospedale. Quindi per passare il minor tempo possibile, non chiede mai sulla sua prognosi; conosce già la risposta e per far una domanda solo prolungherebbe la sua permanenza.

Solo m’ha seccato d’esser tenuto dai medici, per questo, in conto di malato intelligente.

I suoi medici sembrano essere, in qualche modo, arroganti… erroneamente, loro pensano che il atteggiamento ‘disinvolto’ del vecchio significhi ‘passività ed accettazione’, cioè, che il vecchio abbia una fiducia completa nelle loro capacità e nei loro giudizi. Infatti i suoi medici significa poco per lui, dato che c’è quasi nulla che loro possano fare per aiutarlo.

La noncuranza da parte mia di sapere di che male fossi afflitto, è stata presa dai medici per fiducia nella loro scienza, capite?

Il vecchio fornisce alcuni esempi di come si comporta di fronte ai suoi medici. Lui semplicemente obbedirà loro:

— se gli chiedono, durante un esame fisico, di dire e ripete la parola ‘trentatre’ ad alta voce,

M’han veduto sempre obbediente cacciar fuori la lingua a ogni loro richiesta; gridare: – tren-tatré-trentatré – quattro, cinque, dieci volte, sopportando pazientemente il ribrezzo d’una loro orecchia fredda applicata alle mie terga;

(Qui, i medici stanno controllando la qualità del fremito, una vibrazione trasmessa attraverso il corpo che viene evocata dalla parola parlato. Ad esempio, un aumento del fremito può indicare un tessuto polmonare più denso o infiammato, che può essere causato dalle malattie come la polmonite.)

— e quando lo palpano (con mani che sono state esposte a Dio sa cosa),

abbandonare le membra, come se non fossero mie, ai palpeggiamenti troppo confidenziali delle loro mani ben lavate, sì, ma Dio mio adibite allo schifoso servizio pubblico di tutte le piaghe umane;

— e anche quando gli colpono (fanno la percussione), quando gli iniettano e quando gli chiedono d’ingoiare la medicina.

e sopportare i picchi sodi delle loro dita a martello, le punture delle loro siringhette, e ingollarmi tutte le loro porcherie liquide o in pillole, senza mai gemere per nausea o per fastidio: – Oh Dio, dottore, cos’è? E amaro, dottore?

In precedenza il vecchio ha detto che i suoi dottori pensavano che fosse intelligente perché sembrava fidarsi di loro (“… in conto di malato intelligente”). Adesso lui spiega di più, ma questo tempo con ironia e sarcasmo.

– e dunque, chi più intelligente di me? Un malato che nutra una così cieca abbandonata fiducia nella scienza medica, dev’essere per forza, a loro giudizio, intelligentissimo.

(Per riassumere, il vecchio capisce bene che morirà presto e che non c’è nient’altro che può essere fatto. Tuttavia deve continuare a ricevere cure mediche, ma lui fa tutto possibile per rendere le sue visite i più brevi possibili. E perchè? Perché non ammira i suoi medici, perchè le visite sono dolorose e perchè vuole preservare quanto più tempo possibile in perseguimento di quelle cose che lo soddisfano di più.)

Impariamo che il suo punto di vista ironico ha soddisfatto i suoi ascoltatori.

Lasciamo questo discorso. Mi fa tanto piacere vedervi ridere. Buon prò’ vi faccia!

Poi, ricomincia daccapo spiegando che le sue opinioni sono proprio sue e che potrebbero non essere pertinenti per gli altri.

Ecco, sarà perché io propriamente non ho mai capito che gusto ci sia a rivolgere domande agli altri per sapere le cose come sono. Ve le dicono come loro le sanno, come pajono a loro. Voi ve ne contentate? Grazie tante! Io voglio saperle per me, e voglio che entrino in me come a me pajono.

Adesso il vecchio sembra rivolgere la sua attenzione alla domanda, “Qual è il vero guajo?” In breve, il vero guajo sembra essere la nostra necessità di conformarsi alle convenzioni della società moderna, cioè, alle norme e ai dettami della nostra società. Spiega che questo bisogno portaci ad una noiosa identicità, cioè, alla soppressione della nostra creatività e della nostr’espressione libera. Spiega anche che la necessità di conformare ci opprime, ristringe le nostra possibilità, contratta piuttosto che allarga i nostri orizzonti.

– E ben per questo, vedete, che ormai tutte le cose ci stanno sopra, sotto, intorno, col modo d’essere, il senso, il valore che da secoli e secoli gli uomini hanno dato ad esse. Così e così il cielo, così e così le stelle; e il mare e i monti così e così, e la campagna, la città, le strade, le case… Dio mio, che ne volete più? Ci opprimono ormai per forza col fastidio infinito di questa immutabile realtà convenuta e convenzionale, da tutti subita passivamente.

Mentre tenta di sedersi più comodamente, il vecchio spiega che il suo obiettivo è quello d’infrangere le convenzioni sociali.

Le fracasserei. Vi dico che sedere su una seggiola è divenuto per me un supplizio intollerabile. Per alleviarlo un poco, bisognerebbe per lo meno – permettete? – che la mettessi così, ecco, per lungo, e mi ci mettessi a cavallo. Tanto per dire!

Ammette che sarà difficile il suo obiettivo, in non piccola parte perché sia più facile per noi per conformarci, cioè, per semplicemente seguire la guida degli altri.

Ma quanti si sforzano di rompere la crosta di questa comune rappresentazione delle cose? di sottrarsi all’orribile noja dei consueti aspetti? di spogliare le cose delle vecchie apparenze che ormai per abitudine, per pigrizia di spirito, ponderosamente si sono imposte a tutti?

Il vecchio spiega ancora una volta che la libertà d’espressione è legata alla nostra creatività, alle nuove idee, al nostro progresso, al nostro cambiamento in meglio, allla nostra umanità.

Eppure è raro che almeno una volta, in un momento felice, non sia avvenuto a ciascuno di vedere all’improvviso il mondo, la vita, con occhi nuovi; d’intravedere in una subita luce un senso nuovo delle cose; d’intuire in un lampo che relazioni insolite, nuove, impensate, si possono forse stabilire con esse, sicché la vita acquisti agli occhi nostri rinfrescati un valore meraviglioso, diverso, mutevole. Ahimè, si ricasca subito nell’uniformità degli aspetti consueti, nell’abitudine delle consuete relazioni; si riaccetta il consueto valore dell’esistenza quotidiana; il cielo col solito azzurro vi guarda poi la sera con le solite stelle; il mare v’addormenta col solito brontolio; le case vi sbadigliano di qua e di là con le finestre delle solite facciate, e col solito lastricato vi s’allungano sotto i piedi le vie. E io passo per pazzo perché voglio vivere là, in quello che per voi è stato un momento, uno sbarbaglio, un fresco breve stupore di sogno vivo, luminoso; là, fuori d’ogni traccia solita, d’ogni consuetudine, libero di tutte le vecchie apparenze, col respiro sempre nuovo e largo tra cose sempre nuove e vive.

Come termina la sua spiegazione, il vecchio ritorna a una descrizione d’una delle sue visite mediche… che fornisce un netto contrasto con le sue idee sulla libertà d’espressione.

Mi s’è guastato il cuore; mi si sono logorati i polmoni: che me n’importa? Sarò pazzo, ma io vivo. Non ho casa, non ho stato. Vado all’ospedale? Vi prego di credere che non ci sono mai andato da me, coi miei piedi: mi ci hanno sempre trasportato gli altri, in barella, privo di sensi. Mi ci sono ritrovato e mi son subito detto:

«Ah, eccoci qua! Ora bisogna cacciar fuori la lingua.».

E subito, volenteroso e obbediente, invece di lamentarmi, l’ho cacciata fuori a ogni richiesta per uscirmene presto.

La storia sembra cambiare a questo punto. In precedenza abbiamo visto che il vecchio aveva accusato i suoi ascoltatori d’esser ‘insensibili’ (“… è segno che voi non l’avvertite.”). Quello che lui sembra stia dicendo è che le norme della società sopprimano i nostri poteri d’osservazione. Chiede, in altre parole, “Perché perdere tempo riflettere su quello che osserviamo, se il nostro unico desiderio è semplicemente seguire gli altri ed accettare ciò che loro dicono?” Conseguentemente il resto della storia riguarda i piaceri associati all’osservazione del mondo che circonda il vecchio.

Nel suo primo esempio, il vecchio spiega cosa vuol dire osservare il suo medico sdraiato su un letto, mentre il suo medico si erge al capezzale, sopra di lui.

Che effetto curioso fa la faccia dell’uomo – medico o infermiere – guardata da sotto in su, stando a giacere su un letto, che ve la vedete sopra coi due buchi del naso che vengono fuori e l’arco della bocca che va in su, di qua e di là, dalla pallottola del mento. E quando questa bocca vi parla, e vedete sottosopra la chiostra dei denti, la puntina in mezzo del labbro superiore e il principio del palato.

Non importa ciò che il suo medico ha da dire o come lo dice. Quest’esperienza sembra disumanizzare il vecchio.

Anche senza sentire quello che la bocca vi dice, v’assicuro che si perde il rispetto dell’umanità.

Poi, in un secondo esempio, il vecchio descrive le sue osservazioni nel tempo (cioè, durante il suo ultimo ricovero in ospedale) del paziente nel letto accanto al suo. Il vecchio inizia questo aneddoto dicendo cosa non sa del paziente.

Ma io vi ho promesso di parlarvi della mano d’un malato povero.

La premessa è stata lunga, ma forse non del tutto inutile; perché voi almeno così, adesso, non mi domanderete nulla di quello che vi premerebbe più di sapere per commuovervi al modo solito, cioè le notizie di fatto:

a) chi fosse quel malato;

b) perché fosse lì;

c) che male avesse.

Niente, cari miei, di tutto questo. Io non so nulla di nulla; non mi sono curato di saper nulla, come forse avrei potuto domandandone notizie agl’infermieri. Io ho visto solamente la sua mano e non posso parlarvi d’altro.

(Questa mancanza di dettagli sembra essere coerente con l’abitudine del vecchio di non fare domande mentre si trovava in ospedale.)

Quindi, il vecchio gli assicura i suoi ascoltatori che questa sarà una bella storia, una storia felice.

Ve ne contentate? E allora, eccomi qua.

Fu nell’ospedale in cui sono stato l’ultima volta. Ma non fate codesta faccia afflitta, da imbecilli, perché non vi narro una storia triste. Tra me e l’ospedale – benché non possa soffrire i medici e la loro scienza – ho saputo sempre stabilire dolci e delicatissime relazioni.

Poi, il vecchio spiega gli sforzi dell’ospedale per mantenere una certa parvenza della privacy dei suoi pazienti. (Comprendiamo che l’ambientazione è una corsia ospedaliera per pazienti indigenti). Così, ogni letto è circondato da una tenda che copre il letto stesso… la tenda non si estende al pavimento, tuttavia, e se un paziente dovesse abbassare il braccio, la loro mano potrebb’essere visibile a un paziente vicino.

Figuratevi che, quest’ospedale di cui vi parlo, aveva la squisita attenzione verso i suoi ricoverati d’impedire che l’uno vedesse la faccia dell’altro, mediante un paraventino a una sola banda, o, piuttosto, un telajo a cui con puntine si fissava ai quattro angoli una tendina di mussolo, cambiata ogni settimana, lavata, stirata e sempre candida. Certi giorni, tra tutto quel bianco, pareva di stare in una nuvola, e, con la benefica illusione della febbre, di veleggiare nell’azzurro ch’entrava dalle vetrate dei finestroni.

Ogni lettino, nella lunga corsia luminosa, aerata, aveva accanto, a destra, il riparo d’un di quei telaj, che non arrivava oltre l’altezza del guanciale.

In questo caso, il vecchio occupa il letto sulla sinistra immediata del paziente di cui osserverà la mano.

Sicché io del malato che mi stava a sinistra veramente non potevo veder altro che la mano, quand’egli tirava il braccio fuori dalle coperte e l’abbandonava sul lettino. Mi misi a contemplare con curiosità amorosa questa mano, e da essa a poco a poco mi feci narrare la favola che vi dirò.

(Repetiamo: il vecchio può vedere solo la mano sinistra del suo vicino e nient’altro.)

La prima osservazione: i movimenti della mano sembrano rivelare che soffra il suo prossimo,

Me la narrò coi cenni, s’intende, forse incoscienti, che di tanto in tanto faceva; con gli atteggiamenti in cui s’abbandonava, macra, ingiallita, su la bianca coperta, ora sul dorso, con la palma in su e le dita un po’ aperte e appena contratte, in atto di totale remissione alla sorte che l’inchiodava come a una croce su quel letto; ora serrando il pugno, o per un fitto spasimo improvviso o per un moto d’ira e d’impazienza, a cui succedeva sempre un rilassamento di mortale stanchezza.

…poi il vecchio nota che la mano del vicino sembra esser itterica (gialla), forse a causa di malattia del fegato,

Compresi ch’era la mano d’un malato povero, perché, quantunque accuratamente lavata come l’igiene negli ospedali prescrive, serbava tuttavia nella gialla magrezza un che di sudicio, indetersibile; che non è sudicio propriamente nella mano dei poveri, ma quasi la patina della miseria che nessun’acqua mai porterà via.

…e che la mano sembra mostrare l’effetto di molti anni di lavoro, vale a dire gli effetti associati all’usura cronica del lavoro.

Si scorgeva questa patina nelle nocche aguzze e un po’ scabre delle dita; nelle pieghe interne cartilaginose delle falangi, che facevano pensare al collo della tartaruga; nei segni incisi sulla palma che sono, come si dice, il suggello della morte nella mano dell’uomo.

Successivamente (e in un’incredibile dimostrazione dei suoi poteri d’osservazione) i movimenti della mano, che possono essere involontari, sembrano rivelare al vecchio che il vicino sia un sarto!

E allora mi diedi a immaginare a che mestiere fosse addetta quella mano.

Non certo a un rude mestiere, perché era gracile e fina, quasi femminea, per nulla deformata o attrappita, se non forse un po’ nell’indice che appariva soverchiamente tenace nell’ultima falange, e nel pollice un po’ troppo ripiegato in dentro, e dal nodo alla giuntura eccessivamente sviluppato.

Notai che spesso questo pollice s’assoggettava da sé, come per abitudine, alla pressura della punta dell’indice, quasi che il malato inconsciamente con quella pressura si richiamasse a una realtà lontana e la toccasse lì, su quel pollice così premuto; la realtà della sua esistenza, da sano. Forse una bottega impregnata dal tanfo particolare delle stoffe nuove, disposte in pezze, con ordine, le une su le altre negli scaffali e su panche e nelle vetrine; un banco di vendita; una tavola da tagliatore con su distesa una stoffa segnata e un pajo di grosse cesoje sopra; un gattone bigio, sotto quella tavola; i lavoratori seduti in fila di qua e di là, intenti a imbastire, a passare a macchina, e lui tra questi. Non gli piaceva, forse, questa realtà; forse egli non era tutto in quel suo mestiere; ma il suo mestiere era pur lì in quelle due dita, in quel pollice che da sé ormai dopo tant’anni, per abitudine, s’assoggettava alla pressura dell’indice. E qua, adesso, per lui era una più triste realtà: il vuoto e l’ozio doloroso di quella corsia d’ospedale, la malattia, l’attesa stanca e piena d’angoscia, chi sa, forse della morte.

Sì; senza dubbio, quella era la mano d’un sarto.

(Si addormenta il vicino mentre si muove la sua mano? è in coma? in sogno? …non ne abbiamo idea.)

Quindi, i movimenti della mano sembrano rivelare che il vicino potrebb’esser di recente diventato un padre,

Da un altro cenno di essa compresi poi che quel sarto povero doveva esser padre da poco, aveva certo un bambino.

Levava di tanto in tanto sotto le coperte un ginocchio. La mano, dapprima inerte, si alzava con le dita tremolanti e quasi vagava su quel ginocchio levato, in una carezza intorno, che non era certo rivolta al ginocchio.

A chi poteva esser rivolta quella carezza?

Forse gli arrivava lì, al ginocchio, la testa del suo bambino, e lì quella mano soleva carezzare i capellucci freschi e morbidi come la seta, di quella testolina.

…e l’esistenza del bambino sembra essere la causa di intenso rimorso.

Certo, gli occhi del malato, mentre la mano illusa, vagellante, accennava sul ginocchio la carezza, stavano chiusi, vedevano sotto le palpebre la testolina, e le palpebre si gonfiavano di lagrime calde, che traboccavano alla fine sul volto ch’io non vedevo. Ecco, di fatti, la mano interrompeva la vaga carezza, spariva dietro il telajo, dopo aver sollevato la rimboccatura del lenzuolo. E, poco dopo, quella rimboccatura era rimessa in sesto e bagnata in un punto, dalle lagrime.

A questo punto, il vecchio fa una pausa per riassumere le sue osservazioni.

Dunque, aspettate: sarto e padre d’un bambino. Ora vedrete che la storia si complica un poco. Ma niente: son sempre i cenni e gli atteggiamenti di quella mano.

Poi continua, descrivendo un gruppo di persone al capezzale del vicino; questa sembra esser ovviamente un’occasione felice.

Una mattina, io mi riscossi tardi da uno dei letarghi profondi, di piombo, che sogliono seguire ai più forti accessi di quel male, ch’è forse il più grave tra i tanti di cui soffro.

Aprendo gli occhi, vidi attorno al letto del mio vicino molta gente, uomini, donne, forse parenti. In prima pensai che fosse morto. No. Nessuno piangeva, nessuno si lamentava. Parlavano anzi col malato e tra loro festosamente, quantunque a bassa voce per non disturbare gli altri malati.

È insolito la riunione tuttavia nel senso che questa non è una giornata di visita normale all’ospedale. Inoltre, un prete sembra esser tra le persone presente al capezzale. Il vecchio continua a cercare una spiegazione anche se la sua visione è perlopiù bloccata.

Non era giorno di visita. Come e perché, dunque, era stata ammessa tutta quella gente fino al letto del malato?

Non udivo, né volevo udire le loro parole. Anche la loro vista m’era grave agli occhi, nello stordimento lasciatomi dal lungo letargo. Socchiusi le palpebre.

Il corpo d’una vecchia grassa, che mi voltava le spalle, presso il paraventino, specialmente il suo sedere enorme, e la sua gonna rigonfia, tutta a fitte piegoline e a quadretti rossi e neri, m’ingombrava, mi pesava come un incubo intollerabile. Non mi pareva l’ora che tutti se n’andassero. Tra le palpebre socchiuse mi parve d’intravedere la figura alta d’un prete; non ci feci caso.

Il vecchio si addormenta. Qualche tempo dopo, dopo si sveglia, osserva di nuovo la mano del vicino e prende nota d’un anello, nuovo, sul suo anulare. Adesso, sembra chiaro che il popolo si fosse riunito per celebrare il matrimonio del vicino.

Forse ricaddi, anzi certamente ricaddi per lungo tempo nel letargo. I quadretti rossi e neri di quella gonna mi tesero come una rete, una grata di prigione con sbarre di fuoco e sbarre d’ombra, e quelle di fuoco mi bruciavano gli occhi. Quando li riaprii, attorno al letto di quel malato non c’era più nessuno.

Cercai la sua mano. Attorno all’anulare, un cerchietto d’oro: una fede. Ah, ecco, sposino. Le nozze! Quella gente era venuta per farlo sposare.

– Povera mano, tu così gialla, così macra, con quel segno d’amore? Eh no! Di morte. Su un letto d’ospedale, non si sposa che in previsione della morte.

Dunque, il male era inguaribile. Sì: me l’aveva detto chiaramente la mano, troppo incerta nel tatto, nei movimenti. Con che lenta tristezza, ora, faceva girar col pollice quell’anellino troppo largo attorno all’anulare!

Il vecchio poi si chiede: “Perché dovrebbe sposarsi adesso?” Due risposte si presentano a lui. Il primo è che suo bambino potrebb’esser nato fuori dal matrimonio quindi il matrimonio lo legittimerà agli occhi della società. Di conseguenza, un rimpianto potrebb’esser stato rimosso e il vicino possa riposare più facilmente.

E certo gli occhi guardavano lontano, pur fissi in quel cerchietto d’oro così vicino; e la mente forse pensava:

«Quest’anellino… Che vuol dire? Sto per sciogliermi da tutto, e m’ha voluto legare. A chi mi lega? per quanto? Oggi me l’hanno messo al dito; domani forse verranno a levarmelo».

La mano s’alzò e si tese ferma davanti al volto. Più davvicino volle esser guardata con quell’anellino d’un giorno, che avrebbe potuto dir tante cose e una sola ne diceva, triste, tanto triste.

Ma forse poi pensò che, sì, qualche cosa pure quell’anellino legava: legava il suo nome alla vita del suo figliuolo. Gli era nato prima delle nozze, quel figliuolo, e non aveva nome; ora l’avrebbe avuto. Gli levava dunque un rimorso quell’anellino.

La seconda risposta è che la malattia del vicino potrebb’esser stata allo stadio terminale quindi il matrimonio doveva esser eseguito in ospedale, prima che il suo vicino morisse.

Tornò col pollice ad accarezzarlo; poi la mano, stanca, ricadde sul letto.

La mattina dopo, non la vidi più: la indovinai appena da una piega del lenzuolo steso su tutto il letto a riparo da certe mosche che sentono la morte da un miglio lontano.

***

“E dimmi cosa c’è di meglio trovare qualcosa che ami, qualcosa che non hai osservato prima?”

“What amazed me was the order of things…the fact that we wear clothes, that an office has to look a certain way, the whole bit. It’s amazing how accustomed we have become to a certain order. And you become more aware of that order when you see something change it. Everybody turns around and stares. But why, really? Rules, orders. We have ordered things so long in a certain way, we are numb. Nobody dares question it. This is what is wrong…” Nina Simone

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