Riassunto: L’uccello impagliato

L’uccello impagliato (L. Pirandello) è una meravigliosa storia che esamina i concetti di destino e sorte. (Un lettore americano, dopo aver finito la novella, potrebb’esser tentato di dire che L’uccello impagliato è “off the chart” o “out of sight” o “tru dat”!)

Iniziamo oggi con le definizioni. ‘Destino’ si riferisce a uno ‘stato o risultato predeterminato o preordinato’. ‘Sorte’, che ha un significato simile, può implicare un ‘risultato inevitabile’, che può esser, e spesso è, di natura avversa o calamitosa. (Mirriam-Webster Online)

Naturalmente, il destino o la sorte d’una persona potrebbe riferirsi a vari aspetti della vita. Ad esempio, ‘destino’ potrebb’esser usato per spiegar gli eventi che necessariamente o ovviamente avverranno in futuro, (es.) “Lei credeva che sarà il suo destino sposarlo” e anche “Se la ribellione fallisce, il suo destino è quasi certo.”

Il destino o la sorte potrebbe anche riferirsi alla salute d’una persona, e questo, pensiamo, sia il contesto in cui il Pirandello abbia scelto di esaminare i concetti di destino e sorte in L’uccello impagliato.

A questo proposito, vorremmo immaginare un neonato che, dopo un’analisi del sangue di routine, è scoperto d’avere la talassemia, una forma ereditaria di anemia. Infatti, prima della nascita, i genitori del neonato hanno capito il rischio che il neonato potrebbe avere ereditato talassemia poiché molti altri membri della famiglia, sia dalla parte materna che dalla parte paterna, erano stati precedentemente diagnosticati d’averla. Dato questo, è ragionevole presumere che i genitori, quando hanno appreso il risultato dell’esame del sangue, potrebbero aver commentato: “Era il destino / la sorte del nostro neonato nascere con la talassemia.” D’altra parte, il loro medico avrebbe detto in risposta: “La talassemia è una malattia genetica / ereditaria in cui il gene mutante può esser trasmesso da una generazione all’altra.”

Oggi, conosciamo di molti malattie ereditarie umane che creano dilemmi significativi (e complessi) per i familiari d’un individuo affetto. Ad esempio, si può considerare la ‘malattia di Huntington’ (MH), una malattia rara, autosomica dominante, neurodegenerativa, progressiva e letale. (https://www.nature.com/scitable/topicpage/huntington-s-disease-the-discovery-of-the-851). I sintomi della MH si manifestano tipicamente di età compresa tra 30 e 45 anni, e quindi, molti dei pazienti, prima d’esser stati diagnosticati, hanno già avuto l’opportunità di dare a luce i figli. (Loro hanno avuto, in altre parole, l’opportunità di trasmettere il gene mutante alla generazione successiva.) Infatti, le persone che portano il gene mutante hanno il 50% di possibilità di passare questo a ciascuno dei loro figli… quindi nelle famiglie numerose con una storia di MH, la malattia apparirà probabilmente in ogni generazione. (Ovviamente, sebbene le manifestazioni di MH quasi sempre appariranno tardi nella vita, il gene mutante è presente sin dalla nascita.)

Allora… immaginiamo adesso una famiglia di cinque persone (due genitori e tre figli adolescenti) in cui al padre è appena stata diagnosticata la presenza di MH. Per il padre, dato che le generazioni precedenti della famiglia erano conosciute per aver individui con MH, il rischio di trasmissione della malattia è stato ben compreso (ma, certamente, un po’ ‘teorico’). Adesso tuttavia, dato che il padre è stato diagnosticato, il rischio d’aver passato il gene mutante a uno o più dei suoi figli è diventato ‘reale e significativo’ e dev’esser affrontato.

Per continuare con la nostra famiglia di cinque persone, una volta stabilita la diagnosi, un consulente genetico visita separatamente ciascuno dei figli: spiega la malattia, discute la prognosi e poi offre l’opzione d’un test genetico per la presenza del gene mutante. Naturalmente, nessuno dei figli mostra in questo momento qualche manifestazione di MH.

Allora… perché offre l’opzione d’un test genetico predittivo? (Anzi, la necessità di decidere se sottoporsi o rinunciare un test come questo è spesso angosciante.) Sappiamo oggi che quelle persone che preferiscono un test genetico spesso citano come le loro motivazioni: il desiderio d’aver una maggiore capacità di pianificare il futuro e prendere decisioni riproduttive informate o il sollievo dall’incertezza e dalla preoccupazione d’aver MH o il desiderio d’apprendere lo stato di rischio dei propri figli o la capacità di partecipare alla ricerca e alle sperimentazioni cliniche. D’altra parte, quelle persone che non preferiscono un test genetico spesso dicono che temono la possibilità d’un risultato positivo alla mutazione o che sono preoccupati dalla possibilità della discriminazione genetica o che preferiscono vivere in modo normaleil più a lungo possibile, con la speranza che non svilupperanno la malattia. (http://www.aboutgeneticcounselors.com/Genetic-Conditions/Huntingtons-Disease-and-Predictive-Genetic-Testing)

La domanda, cara lettore, è ciò che sceglierebbe di fare? Sceglierebbe il test genetico? E se il test fosse positivo — in altre parole, il suo destino è che morirà prematuramente da MH — come sceglierebbe di vivere prima dell’inizio delle manifestazioni della malattia?

Pensiamo che la premessa di L’uccello impagliatosia legato alla discussione di cui sopra in quanto la novella presenta la storia d’una famiglia con una suscettibilità ereditaria alla tubercolosi. I membri della famiglia colpiti, che sono tutti dalla parte della madre del pedigree, vengono infettati dalla tubercolosi in tenera età e poi muoiono. Il difetto genetico preciso in questa famiglia è sconosciuto: può essere, per esempio, che il gene mutante predisponga un individuo affetto all’infezione o, d’altra parte, possa interferire con la capacità dell’individuo di combattere l’infezione.

La storia si concentra su due giovani (sono fratelli) la cui madre, e molti dei parenti di lei, sono morti dopo l’infezione da tubercolosi. Il padre dei giovani ha vissuto fino all’età di ciquant’anni, quando è morto per un disordine non correlato, cioè, non per la tubercolosi.

La storia esamina come i due giovani reagiscono / si adattano al loro apparente destino genetico condiviso, cioè, al loro rischio ereditario d’esser inevitabilmente infettati dalla tubercolosi e poi morire prematuramente.

***

Tranne il padre, morto a cinquant’anni di polmonite, tutti gli altri della famiglia – madre e fratelli e sorelle e zie e zii del lato materno – tutti erano morti di tisi, giovanissimi, uno dopo l’altro.

Una bella processione di bare.

All’inizio della novella, veniamo a sapere di una famiglia che, da parte materna, sembra soffrire di una devastante predisposizione ereditaria alla tubercolosi, una predisposizione che è uniformemente fatale in tenera età.

(Potrebb’esser utile sottolineare nuovamente che la natura precisa del difetto genetico in questa famiglia sia sconosciuta, come spesso accade nelle famiglie con una predisposizione ereditaria alla tubercolosi: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles / PMC4024222 /).

Accade così che ci siano due giovani, Marco e Annibale Picotti, che, per ragioni che non sono state capite, sono sopravvissuti poco oltre l’età in cui la loro morte prematura si sarebbe aspettata.

Resistevano loro due soli ancora, Marco e Annibale Picotti;

L’infezione da tubercolosi è causata da un bacillo nell’ambiente che, per esempio, può esser inalato nei polmoni e poi causare un’infezione lì. Ci è stato spiegato che, per anni, sia Marco che Annibale hanno adottato uno stile di vita scelto a minimizzare le possibilità di infezione.

e parevano impegnati a non darla vinta a quel male che aveva sterminato due famiglie.

Scopriamo che i fratelli hanno imparato a guardarsi l’un l’altro, sempre all’erta, sempre attenti / vigili per i comportamenti o le situazioni ‘a rischio’.

Si vigilavano l’un l’altro, con gli animi sempre all’erta, irsuti

Cosa c’è di più, i fratelli seguono coscienziosamente il consiglio dei medici,

e punto per punto, con rigore inflessibile seguivano le prescrizioni dei medici, non solo per le dosi e la qualità dei cibi e i varii corroboranti da prendere in pillole o a cucchiai,

…e hanno adottato uno stile di vita autoimposto e straordinariamente prudente.

ma anche per il vestiario da indossare secondo le stagioni e le minime variazioni di temperatura e per l’ora d’andare a letto o di levarsene, e le passeggiatine da fare, e gli altri lievi svaghi compatibili, che avevan sapore anch’essi di cura e di ricetta.

Anzi, per anni, Marco ed Annibale hanno cercato assiduamente ogni vantaggio possibile che avrebbe permesso loro di vivere il più a lungo possibile.

Così vivendo, speravano di riuscire a superare in perfetta salute, prima Marco, poi Annibale, il limite massimo d’età raggiunto da tutti i parenti, tranne il padre, morto d’altro male.

Quando ci riuscirono, credettero d’aver conseguito una grande vittoria.

(In effetti, Marco ed Annibale hanno adottato uno stile di vita che sperano attenueranno il loro destino genetico, permettendo loro di vivere più a lungo del previsto.)

Impariamo, tuttavia, che Annibale, il più giovane dei fratelli, ha di recente avuto un ‘cambiamento di cuore’. Ha apparentemente deciso che non meriti più lo sforzo il suo stile di vita autoimposto… vale a dire che la sua vita abbia diventato troppo austero e rigido di quanto lui può sopportare… molto semplicemente, Annibale sembra voler vivere una vita normale!

Se non che, Annibale, il minore, se ne imbaldanzì tanto, che cominciò a rallentare un poco i rigidissimi freni che s’era finora imposti, e a lasciarsi andare a mano a mano a qualche non lieve trasgressione.

Marco cerca di convincere il fratello che dovrebbe riassumere uno stile di vita più cauto,

Il fratello Marco cercò, con l’autorità che gli veniva da quei due o tre annidi più, di richiamarlo all’ordine.

…ma senza risultato. Per Annibale la minaccia della morte ha sbiadito un po’ dalla vista: dopotutto, lui ha sopravvissuto appena oltre l’età in cui altri membri della famiglia sono morti.

Ma Annibale, come se veramente della morte avesse ormai da guardarsi meno, non avendolo essa colto nell’età in cui aveva colto tutti gli altri di famiglia, non gli volle dar retta.

(In effetti, Annibale sembra aver considerato attentamente, e poi accettato, la possibilità che il suo destino genetico differisca dai suoi parenti sfortunati. “Se sia così”, sembra dire, “perché non vivere in modo normale adesso?” o “Perché non godere di ciò che la vita abbia da offrire?”)

Poi, apprendiamo che Annibale ha preso in considerazione il fatto che è più fisicamente robusto del fratello maggiore, che è sopravvissuto anche più a lungo di lui. Per Annibale, questo sembra’esser ancora più prova che non abbia più bisogno di preoccuparsi della possibilità d’una morte prematura.

Erano, sì, entrambi della stessa corporatura, bassotti e piuttosto ben piantati, col naso tozzo, ritto, gli occhi obliqui, la fronte angusta e i baffi grossi; ma lui, Annibale, quantunque minore d’età, era più robusto di Marco; aveva quasi una discreta pancettina, lui, della quale si gloriava; e più ampio il torace, più larghe le spalle. Ora dunque, se Marco, pur così più esile com’era, stava benone, non poteva egli impunemente far getto in qualche trascorso di quanto aveva d’avanzo rispetto al fratello?

Dopo un po’, Marco arriva a credere di aver fatto uno sforzo in buona fede per convincere Annibale a tornare a uno stile di vita più prudente e conservatore. Sceglie quindi di lasciare Annibale… cioè, di permetterlo di scegliere il proprio stile di vita senza ulteriori interferenze.

Marco, dopo aver fatto il suo dovere, come la coscienza gli aveva dettato, lasciò andare i richiami e le riprensioni, per stare a vedere, senza suo rischio, gli effetti di quelle trasgressioni nella salute del fratello.

Curiosamente, Marco sembra capire che ‘l’esperimento’ di Annibale, cioè la sua decisione di vivere una vita normale, potrebb’esser informativo: se Annibale continua a prosperare, ad esempio, forse Marco dovrebbe anche prendere in considerazione un cambiamento nel proprio stile di vita!

Che se a lungo andare esse non avessero recato alcun nocumento, anche lui… chi sa! se le sarebbe forse concesse un po’ per volta; avrebbe potuto almeno provare.

Poi, passa un po’ di tempo ed Annibale annuncia la sua intenzione di sposarsi.

Ma che! no, no! orrore! Annibale venne a dirgli un giorno che s’era innamorato e che voleva prender moglie.

Marco è inorridito, dice che suo fratello è un imbecille, chiedendogli cosa avrebbe potuto pensare quando ha preso questa decisione? Dopotutto, Annibale ha un destino genetico con i suoi rischi connessi a se stesso e ai suoi figli. Marco definisce la decisione di Annibale di sposarsi come maleducato ed irresponsabile… cioè, un delitto contro tutti i membri della sua nuova famiglia.

Imbecille! Con quella minaccia terribile sul capo, sposare? Sposare… chi? la morte? Ma sarebbe stato anche un delitto, perdio, mettere al mondo altri infelici! E chi era quella sciagurata che si prestava a un simile delitto? a un doppio, a un doppio delitto?

Annibale risponde a questo assalto verbale in modo diretto,

Annibale s’inquietò. Disse al fratello che non poteva assolutamente permettere ch’egli usasse siffatte espressioni verso colei che tra poco sarebbe stata sua moglie;

…e poi afferma il punto cruciale della sua argomentazione.

che, del resto, se doveva conservare la vita così a patto di non viverla, tanto valeva che la perdesse; un po’ prima, un po’ dopo, che gl’importava? era stufo, ecco, e basta così.

(La argomentazione di Annibale è lo segueste: visto che è sopravvissuto così a lungo, preferirebbe vivere adesso una vita normale. Sembra che per Annibale la longevità in sé non sia così importante come sembra esser per Marco… Annibale è apparentemente arrivato a scegliere ‘la qualità della vita’ rispetto alla quantità (alla longevità), non importa i rischi che possano essere coinvolti.)

Mentre Marco arriva a capire la logica di quest’argomentazione, lo guarda il fratello con un misto di commiserazione (cioè, comprensione condivisa) e sdegno.

Il fratello rimase a guardarlo col volto atteggiato di commiserazione e di sdegno, tentennando appena appena il capo.

Apprendiamo che Marco sembra aver adottato il punto di vista opposto: per Marco, la longevità sia tuttociò che conta. Marco la considera come una grave ingiustizia la predisposizione ereditaria alla tubercolosi che ha devastato la sua famiglia… un’ingiustizia che intende vendicare.

Oh sciocco! Vivere… non vivere… Quasi che fosse questo! Bisognava non morire! E non già per paura della morte; ma perché questa era una feroce ingiustizia, contro alla quale tutto l’esser suo si ribellava, non solamente per sé, ma anche per tutti i parenti caduti, ch’egli con quella sua dura, ostinata resistenza doveva vendicare.

Ancora una volta, vediamo che Marco tollera la decisione di Annibale,

Basta, sì, basta. Non voleva inquietarsi, lui; gli dispiaceva anzi d’essersi in prima alterato e riscaldato. Non più! Non più!

Voleva sposare? Liberissimo! Sarebbe rimasto lui solo a guardare in faccia la morte, senza lasciarsi allettare dalle insidie della vita.

…tuttavia, questa decisione di Annibale provoca un’interruzione nel loro rapporto. I fratelli non si guarderanno più l’un l’altro, e non condivideranno più una difesa comune contro il loro destino genetico. Ad Annibale, vediamo che sì, sarà permesso d’andare per la sua strada, ma vediamo anche che Marco seguirà un percorso separato.

Patti chiari, però. Stare insieme – niente; noje, impicci – niente.

Per quanto riguarda l’ereditarietà, la casa di famiglia rimarrà con Marco, il primogenito.

Se voleva sposare – fuori! Fuori, perché il fratello maggiore, il capo di casa era lui; e la casa spettava dunque a lui.

…ma il contenuto della casa sarà condiviso equamente, senza l’accenno d’un conflitto,

Tutto il resto sarebbe stato diviso in parti uguali. Anche i mobili di casa, sì. Poteva portarsi via tutti quelli che desiderava; ma pian piano, con garbo, senza sollevar polvere, perché la salute, lui, se la voleva guardare.

Quell’armadio? Ma sì, e anche quel cassettone e la specchiera e le seggiole e il lavabo… sì, sì… Quelle tende? Ma sì, anche quelle… e la tavola grande da pranzo per tutti i floridi figliuoli che gli sarebbero nati, sì, e anche la vetrina con tutto il vasellame.

…fintanto che il contenuto della stanza di Marco rimanga intatto, cioè nel suo possesso.

Purché gli lasciasse intatta, insomma, la sua camera con quei seggioloni antichi e il divano, imbottiti di finto cuojo, a cui era affezionato, e quei due scaffali di vecchi libri e la scrivania. Quelli no, quelli li voleva per sé.

È a questo punto della storia che apprendiamo la presenza d’un uccello impagliato nella stanza di Marco. Gentilmente, Annibale prende in giro l’uccello;

– Anche questo? – gli domandò, sorridendo, il fratello.

E indicò tra i due scaffali, un grosso uccello impagliato, ritto su una gruccia da pappagallo; così antico, che dalle penne scolorite non si arrivava più a riconoscere che razza d’uccello fosse stato.

…e Marco risponde: scopriamo che per Marco l’uccello rappresenta sia i familiari che sono morti ingiustamente che una sorta di portafortuna.

– Anche questo. Tutto quello che sta qua dentro, – disse Marco. – Che c’è da ridere? Un uccello impagliato. Ricordi di famiglia. Lascialo stare!

Non volle dire che, così ben conservato, quell’uccello gli pareva di buon augurio e, per la sua antichità, gli dava un certo conforto, ogni qual volta lo guardava.

La separazione dei fratelli sembra essere completa. Marco si è rifiutato d’assistere al matrimonio di Annibale e, dopo questo, ha visitato il fratello solo in una occasione, per cinque breviminuti.

Quand’Annibale sposò, egli non volle prender parte alla festa nuziale. Solo una volta, per convenienza, era andato in casa della sposa, e non le aveva rivolto né una parola di congratulazione né un augurio. Gelida visita di cinque minuti. Non sarebbe andato di sicuro in casa del fratello, né al ritorno dal viaggio di nozze, né mai. Si sentiva venir male, un tremito alle gambe, pensando a quel matrimonio.

Per Marco, la decisione di Annibale di sposarsi rimane inspiegabile, un probabile disastro, una follia.

– Che rovina! che pazzia! – non rifiniva d’esclamare, aggirandosi per l’ampia stanza ben turata, intanfata di medicinali, con gli occhi fissi nel vuoto e tastando con le mani irrequiete i mobili rimasti – Che rovina! che pazzia!

La casa di Marco, adesso priva di quasi la metà dei mobili, sembra vuota e questa rafforza il suo senso d’isolamento.

Nella vecchia carta da parato erano rimaste e spiccavano le impronte degli altri mobili portati via dal fratello; e quelle impronte gli accrescevano l’impressione del vuoto, nel quale egli, quasi cancellato, vagava come un’anima in pena.

Via, via, no! non doveva scoraggiarsi; non doveva pensarci più a quell’ingrato, a quel pazzo! Avrebbe saputo bastare a se stesso.

E si metteva a fischiare pian piano, o a tamburar con le dita su i vetri della finestra, guardando fuori gli alberi del giardinetto ischeletriti dall’autunno, finché non avvistava lì sullo stesso vetro, su cui tamburellava, oh Dio, una mosca morta, intisichita, appesa ancora per una zampina.

(Infatti, Marco non può permettersi alcun ulteriore isolamento. Anzi, lui è quasi completamente isolato così com’è, dato che l’isolamento dagli altri è stato — e continua ad essere — una parte della sua strategia per minimizzare il rischio di esposizione alla tubercolosi.)

Passa quasi un anno;

Passarono parecchi mesi, quasi un anno dalle nozze del fratello.

…è la vigilia di Natale, ed Annibale e Lillina (sua moglie), ubriachi, decidono di far una visita a sorpresa a Marco.

La vigilia di Natale, Marco Picotti sentiva venire dalla strada il suono delle zampogne e dell’acciarino e il coro delle donne e dei fanciulli per l’ultimo giorno di novena davanti alla cappelletta parata di fronde; udiva lo schioppettio dei due grossi fasci di paglia che ardevano sotto quella cappelletta; e così angosciato, si disponeva ad andare a letto all’ora solita, allorché una furiosa scampanellata lo fece sobbalzare, quasi con tutta la casa.

Una visita d’Annibale e della cognata. Annibale e Lillina.

Irruppero imbacuccati, sbuffanti, e si misero a pestare i piedi per il freddo, e a ridere, a ridere… Come ridevano! Vispi, allegri, festanti.

Gli parvero ubriachi.

Marco, che era a letto quando sono arrivati, è inorridito a causa dell’interruzione della sua routine e anche a causa dell’apparente rischio d’infezione inerente alla visita. Marco dapprima si rifiuta di permettere ad Annibale e Lillina di entrare, ma Annibale, alla fine, inganna / bleffa la sua strada nel entrando in casa.

Oh, una visitina di dieci minuti, soltanto per fargli gli augurii: non volevano che per causa loro ritardasse neppure d’un minuto l’andata a letto. E… non si poteva intanto aprire, neppure uno spiraglietto, per rinnovare l’aria un tantino là dentro? no, è vero? non si poteva, neppure per un minuto? Oh Dio, e che cos’era là quella bestiaccia, quell’uccellacelo impagliato su la gruccia? E questa? oh, una bilancetta! per le medicine, è vero? carina, carina. E donna Fanny? dov’era donna Fanny?

Marco sceglie di fare niente di più che sopportare la visita.

Per tutti quei dieci minuti, Lillina non si fermò un attimo, saltellando così, di qua e di là, per la camera del cognato.

Marco Picotti rimase stordito come per una improvvisa furiosa folata di vento, che fosse venuta a scompigliargli non solo la vecchia camera silenziosa ma anche tutta l’anima.

– E dunque… e dunque… – si mise a dire, seduto sul letto, quand’essi se ne furono andati; e si grattava con ambo le mani la fronte: – E dunque…

Poi, dopo la visita Marco interroga le sue convinzioni. Si chede, “Sia possibile che Annibale fosse corretto?” e “In realtà non ci sia bisogno di uno stile di vita conservatore?” e “Possa vivere io una vita normale senza rischi significativi?”

Non sapeva concludere.

Possibile? Aveva ritenuto per certo che il fratello, subito dopo la prima settimana dalle nozze, dovesse disfarsi, cascare a pezzi. Invece, invece, eccolo là – benone; stava benone; e come lieto! felice addirittura.

Ma dunque? Che non ci fosse più bisogno davvero, neanche per lui, di tutte quelle cure opprimenti, di tutta quella paurosa vigilanza? Che potesse anche lui sottrarsi all’incubo che lo soffocava; e vivere, vivere, buttarsi a vivere come il fratello?

Questi, ridendo, gli aveva dichiarato che non seguiva più nessuna cura e nessuna regola. Tutto via! al diavolo, medici e medicamenti!

– Se provassi anch’io?

Poco dopo, Marco decide di unirsi ai festeggiamenti di Annibale e Lillina,

Se lo propose, e per la prima volta andò in casa d’Annibale.

Fu accolto con tanta festa, che ne rimase per un pezzo balordo. Chiudeva gli occhi e parava le mani in difesa, ogni qual volta Lillina accennava di saltargli al collo. Ah che cara diavoletta, che cara diavoletta, quella Lillina! Friggeva tutta. Era la vita! Volle per forza che rimanesse a desinare con loro. E quanto lo fece mangiare e quanto bere! Si levò ebbro, ma più di gioja che di vino.

…ma non li tollera bene, e rimane al suo letto per alcuni giorni.

Quando fu la sera però, appena giunto a casa, Marco Picotti si sentì male. Una forte costipazione di petto e di stomaco per cui dovette stare a letto parecchi giorni.

Passa poco tempo… e quando i fratelli incontrano di nuovo, Annibale cerca di convincere Marco che non si ammalerà di nuovo fintantoché lui crede, ma veramente crede, che può aver una vita normale senza rischi significativi.

Invano Annibale cercò di dimostrargli che questo era dipeso perché se n’era dato troppo pensiero e non s’era buttato con coraggio e con allegria allo sproposito.

La conversazione termina bruscamente, tuttavia, quando Marco rileva gli inconfondibili segni della morte imminente di Annibale.

No, no! mai più! mai più! E guardò il fratello con tali occhi, che Annibale a un tratto… – no perché?

– Che… che mi vedi? – gli domandò, impallidendo, con un sorriso smorto sulle labbra.

Disgraziato! La morte… la morte… Già ne aveva il segno lì, in faccia, il segno che non falla!

Glielo aveva scorto in quell’improvviso impallidire.

I pomelli gli erano rimasti accesi. Spenta l’allegria ecco lì sugli zigomi, i due fuochi della morte, cupi, accesi.

Poi, come previsto Annibale muore poco dopo.

Annibale Picotti morì difatti circa tre anni dopo le nozze.

Questa perdita è stata per Marco un colpo tremendo / durissimo… supppone che la morte sia stata uno spreco terribile, qualcosa che avrebbe potuto esser evitato. La morte di Annibale, in altre parole, sembrava esser doppiamente ingiusta… fosse geneticamente determinata e avrebbe potuto esser evitata.

E fu per Marco il colpo più tremendo.

Lo aveva previsto, sì, lo sapeva bene che per forza al fratello doveva andargli a finire così. Ma, intanto, che terribile monito per lui, e che schianto!

Per vari motivi, Marco si rifiuta d’assistere al funerale di Annibale,

Non volle arrischiarsi neanche ad accompagnarlo fino al cimitero. Troppo si sarebbe commosso e troppo dispetto, anzi odio gli avrebbero mosso dentro gli sguardi della gente, che da un canto lo avrebbero compassionato e dall’altro gli si sarebbero fitti acutamente in faccia, per scoprire anche in lui i segni del male di che erano morti tutti i suoi, fino a quell’ultimo.

…e giura, ora più enfaticamente che mai, che vivrà… cioè, che sopravvivrà al suo destino! Scopriamo che in questo momento Marco ha 45 anni e che una durata della vita normale è considerata d’esser 60 anni d’età. Marco giura di sopravvivere a suo padre e di vivere almeno fino ai 60 anni.

No, egli no, non doveva morire! Egli solo, della sua famiglia, l’avrebbe vinta! Aveva già quarantacinque anni. Gli bastava arrivare fino ai sessanta. Poi la morte – ma un’altra, non quella! non quella di tutti i suoi! – poteva pure prendersi la soddisfazione di portarselo via. Non gliene sarebbe importato più nulla.

La vita di Marco diventa sempre più cauta, conservatrice e solitaria. Il suo impegno per questo stile di vita è totale.

E raddoppiò le cure e la vigilanza. Non voleva però in pari tempo che la costernazione assidua, quello starsi a spiare tutti i momenti gli nocesse. E allora arrivò fino a proporsi di fingere davanti a se stesso che non ci pensava più. Sì, ecco, di tratto in tratto, certe parole, come: – Fa caldo – oppure: – Bel tempo –  gli venivano alle labbra, sole, non pensate, proprio sole; non che lui le volesse proferire per sentir se la voce non gli si fosse un poco arrochita.

E andava in giro per le ampie stanze vuote della casa antica, dondolando il fiocco della papalina di velluto e fischiettando.

Successivamente, apprendiamo il rapporto tra Marco e Fanny, la sua serva. Marci è scortese con lei, crudele infatti, ma sembra che non ci sia nulla che Fanny possa fare.

La piccola donna Fanny, la cameriera, che non si sentiva ancora tanto vecchia e in parecchi anni che stava lì a servizio non era per anco riuscita a levarsi dal capo che il padrone avesse qualche mira su lei e per timidezza non glielo sapesse dire; vedendolo gironzare così per casa, gli sorrideva e gli domandava:

– Vuole qualche cosa, signorino?

Marco Picotti la guardava d’alto in basso e le rispondeva, asciutto:

–  Non voglio nulla. Soffiatevi il naso!

Donna Fanny si storceva tutta e soggiungeva:

– Capisco, capisco… Vossignoria mi rimprovera perché mi vuol bene.

– Non voglio bene a nessuno! – le gridava allora con tanto d’occhi sbarrati. – Vi dico: soffiatevi il naso, perché pigliate tabacco! E quando uno piglia tabacco, non fa veder certe gocce che pendono dal naso.

Le voltava le spalle, e si rimetteva a fischiettare, dimenando il fiocco e gironzando.

Poi, un giorno Lillina torna a casa di Marco per una visita, ma si rifiuta di vederla,

Un giorno, la vedova del fratello ebbe la cattiva ispirazione di fargli una visita.

– Per carità, no! – le gridò lui, premendosi forte le mani sul volto per non vederla piangere, così vestita di nero. – Andate, andate via! Non v’arrischiate più a venire, per carità! Volete farmi morire? Ve ne scongiuro, andate via subito! Non posso vedervi, non posso vedervi!

…mentre, allo stesso tempo, riconosce lui il dolore associato alla morte di Annibale. La vita di Marco sembra essersi trasformata in uno di miseria e privazione.

Un attentato gli parve, quella visita. Ma che credeva colei, ch’egli non pensasse più al fratello? Ci pensava, ci pensava… Soltanto fingeva di non pensarci, perché non doveva, ancora non doveva!

Per tutto un giorno ci stette male. E anche la notte, nello svegliarsi, ebbe un furioso accesso di pianto, di cui la mattina dopo finse di non ricordarsi più. Ilare, ilare, la mattina dopo; fischiettava come un merlo, e ogni tanto:

– Fa caldo… Bel tempo…

E poi, il tempo continua a passare e Marco inizia a mostrare segni d’invecchiamento… questi sono infatti segni di longevità… e dunque di successo.

Quando i baffi, che gli s’erano conservati ostinatamente neri, cominciarono a brizzolarglisi, come già i capelli su le tempie, anziché affliggersene – ne fu contento, contentissimo. La tisi – poiché tutti i suoi erano morti giovanissimi – gli richiamava l’idea della gioventù. Più se n’allontanava, più si sentiva sicuro. Voleva, doveva invecchiare. Con la gioventù odiava tutte le cose che le si riferivano: l’amore, la primavera. Sopra tutte, la primavera. Sapeva che questa era la stagione più temibile per i malati di petto. E con sorda stizza vedeva rinverdire e ingemmarsi gli alberi del giardinetto.

Il tempo passa, adesso è primavera, una stagione che Marco detesta.

Di primavera, non usciva più di casa. Dopo il desinare rimaneva a tavola e si divertiva a far l’armonica coi bicchieri. Se donna Fanny accorreva al suono, come una farfalletta al lume, la cacciava via, aspramente.

Sfortunatamente, Fanny si ammala e viene mandata in ospedale, dove muore. Marco tenta, con poco entusiasmo, pensiamo, di sostituirla, ma non ha successo e decide di vivere da solo.

Povera donna Fanny! Era proprio vero che quel brutto padrone non le voleva bene. E se n’accorse meglio, quando ammalò gravemente e fu mandata via, a morire all’ospedale. Marco Picotti se ne dolse soltanto perché dovette prendere un’altra cameriera. E gli toccò di cambiarne tante, in pochi anni! All’ultimo, poiché nessuna più lo contentava e tutte si stufavano di lui, si ridusse a viver solo, a farsi tutto da sé.

Finalmente, ci è spiegato che sono passati 15 anni dalla morte di Annibale e che Marco ha raggiunto 60 anni d’età! Ha raggiunto il suo obiettivo!

Arrivò così ai sessant’anni.

Adesso Marco può rilassarsi, può essere meno vigile! Marco sembra esser liberato!

Allora la tensione, in cui per tanto tempo aveva tenuto lo spirito, d’un tratto si rilasciò.

Marco Picotti si sentì placato. Lo scopo della sua vita era raggiunto.

Ma… allora, adesso cosa?

E ora?

(Marco sembra chiedere, “Quale sia lo scopo della mia vita ora che ho raggiunto il mio obiettivo per tutta la vita, qualcosa che ho perseguito con totale devozione e impegno, cioè, ad esclusione di tutto il resto?”)

Sfortunatamente, Marco decide che la morte è tutto ciò che rimane,

Ora poteva morire. Ah, sì, morire, morire: era stufo, nauseato, stomacato: non chiedeva altro! Che poteva più essere la vita per lui? Senza più quello scopo, senza più quell’impegno – stanchezza, noja, afa.

Si mise a vivere fuori d’ogni regola, a levarsi da letto molto prima del solito, a uscire di sera, a frequentare qualche ritrovo, a mangiare tutti i cibi. Si guastò un poco lo stomaco, si seccò molto, s’indispettì più che mai della vista della gente che seguitava a congratularsi con lui del buono stato della sua salute.

L’uggia, la nausea gli crebbero tanto, che un giorno alla fine si convinse che gli restava da fare qualche cosa; non sapeva ancor bene quale; ma certamente qualche cosa, per liberarsi dell’incubo che ancora lo soffocava. Non aveva già vinto? No. Sentiva che ancora non aveva vinto.

…e poi suoi pensieri tornano al suo portafortuna, l’uccello impagliato, che è pieno, si rende conto, con fieno.

Glielo disse, glielo dimostrò a meraviglia quell’uccello impagliato, ritto lì su la gruccia da pappagallo tra le due scansie.

– Paglia… paglia… – si mise a dire Marco Picotti quel giorno, guardandolo.

In un momento frenetico, povero Marco distrugge l’uccello,

Lo strappò dalla gruccia; cavò da una tasca del panciotto il temperino e gli spaccò la pancia:

– Ecco qua, paglia… paglia…

…e poi i suoi mobili,

Guardò in giro la camera; vide i seggioloni antichi di finto cuojo e il divano, e con lo stesso temperino si mise a spaccarne l’imbottitura e a trarne fuori a pugni la borra, ripetendo col volto atteggiato di scherno e di nausea:

– Ecco, paglia… paglia… paglia…

…e poi si suicida.

Che intendeva dire? Ma questo, semplicemente. Andò a sedere davanti alla scrivania, trasse da un cassetto la rivoltella e se la puntò alla tempia. Questo. Così soltanto avrebbe vinto veramente.

Con grande ironia, apprendiamo che dopo la morte di Marco, i suoi vicini si sono rifiutati di credere che si fosse suicidato. Credevano invece loro che si trattasse d’una rapina-omicidio… nessuno poteva credere per un minuto che quell’uomo, che aveva dedicato la sua vita a vivere il più a lungo possibile, sarebbe stato capace di suicidarsi.

Quando si sparse in paese la notizia del suicidio di Marco Picotti, nessuno dapprima ci volle credere, tanto apparve a tutti in contradizione col chiuso testardo furore, con cui fino alla vecchiezza s’era tenuto in vita. Moltissimi, che videro nella camera quei seggioloni e quel divano squarciati, non sapendo spiegarsi né il suicidio né quegli squarci, credettero piuttosto a un delitto, sospettarono che quegli squarci là fossero opera d’un ladro o di parecchi ladri. Lo sospettò prima di tutti l’autorità giudiziaria, che si pose subito a fare indagini e ricerche.

Tra i numerosi reperti trovò un posto d’onore appunto quell’uccello impagliato e, come se potesse giovare a far lume al processo, un bravo ornitologo ebbe l’incarico di definire che razza d’uccello fosse.

***

Ci può essere un’altra grande ironia per L’uccello impagliato: la possibilità che Marco sia sopravvissuto fino all’età di 60 anni perché non ha mai ereditato il gene mutante da sua madre. Il suo destino, in altre parole, era sempre quello di vivere una vita normale!

Citazioni

“Non nasconderti, vivi, segui il sole, e troverai il domani.”

“È il pensiero della morte che, infine, aiuta a vivere.”

“There were people who went to sleep last night, poor and rich and white and black, but they will never wake again. And those dead folks would give anything at all for just five minutes of this… So you watch yourself about complaining. What you’re supposed to do when you don’t like a thing is change it. If you can’t change it, change the way you think about it.”

 

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