Riassunto: Un ritratto

Un ritratto (L. Pirandello) è una novella che, secondo noi, esplora il potere, la durabilità e la tenacia d’un tradimento … cioè, descrive come si sente uno ad esser tradito, e anche quanto è difficile affrontare efficacemente questo sentimento.

Nella novella, Stefano Conti, il protagonista, presenta quello che consideriamo un caso straordinario: crede lui che era stato tradito da sua madre quando era bambino eppure, da adulto, questa credenza rimane ostinatamente invariata … cioè fresca ed infiammata, confusa ed angosciante come sempre.

Allora … un caso straordinario? È trascorso così tanto tempo (circa 30 anni, secondo la nostra calcolazione) tra il tempo del tradimento e l’inizio della novella … eppure il Conti sembra ancora esser incapace di credere o accettare il punto di vista di sua madre. Inoltre, non dimostra lui la capacità (perlomeno che possiamo discernere) di simpatia / empatia per il suo punto di vista (di sua madre). 

Insomma, per quanto riguarda il tradimento, a noi, il Conti sembra avere ‘blinders on’ … in altre parole, sembra aver perso una prospettiva matura così come la capacità di pensare in modo sfumata / sottile.

***

– Stefano Conti?

– Sì, signore… Venga, s’accomodi.

E la servetta m’introdusse in un ricco salottino.

All’inizio della novella il narratore, che rimarrà innominato, ha appena viaggiato da casa sua in campagna alla città per visitare il suo caro amico Stefano Conti. Una serva lo il narratore (lui sembra esser previsto) e poi lo introduce in un salottino, riccamente arredato, dove aspetta.

La serva si riferisce al narratore come un ‘signore’, che sembra catturarlo alla sprovvista.

Che effetto curioso, quella parola «signore» rivolta a me su la soglia di casa di quel mio amico della prima giovinezza! 

(Può darsi che, per il narratore, una formalità del genere fosse meno comune nella campagna che in città. Tuttavia, la designazione, ‘signore’ serve ad evidenziare quanto tempo è trascorso da quando lui e il Conti erano amici d’infanzia.)

Impariamo che entrambi gli uomini hanno all’incirca la stessa età, cioè, 35-36 anni.

Ero un «signore» adesso: e Stefano Conti, di certo un «signore» di trentacinque o trentasei anni anche lui.

Abbastanza bruscamente, tuttavia, l’umore sembra cambiare: primo impariamo che il salottino è buio ed isolato, quasi abbandonato, e poi che l’interno è decorato in uno stile ‘urbano moderno’ … uno stile, immaginiamo, freddo e distante anziché accogliente.

Nel salottino, tenuto in una triste penombra, restai in piedi a guardare con un senso indefinibile di fastidio i mobiletti nuovi, disposti in giro, ma come per non servire.

Non stavano certo ad aspettar nessuno quei mobiletti in quel salottino appartato e sempre chiuso. E il senso di pena, con cui li guardavo, me li faceva ora sembrare intorno come stupiti di vedermi tra loro; non ostili, ma neppure invitanti.

Ci viene spiegato che il narratore gradualmente sperimenta un misto delle emozioni (es.) fastidio, tristezza, pena. Inoltre lui paragona sfavorevolmente il salottino del Conti con il modo confortevole e funzionale in cui è decorata casa sua in campagna.

Ero ormai abituato da un pezzo agli antichi mobili delle case di campagna, comodi, massicci e confidenziali, che dalla lunga consuetudine e da tutti i ricordi d’una vita placida e sana hanno acquistato quasi un’anima patriarcale che ce li rende cari. Quei mobiletti nuovi mi stavano attorno rigidi e come compresi di tutte le regole della buona società. Si capiva che avrebbero sofferto e si sarebbero offesi d’una trasgressione anche minima a quelle regole.

– Viva il mio divanaccio, pensavo, – il mio vecchio divanaccio di juta, ampio e soffice, che sa i miei sonni saporosi dei lunghi pomeriggi d’estate, e non s’offende del contatto delle mie scarpacce cretose e della cenere che cade dalla mia vecchia pipa!

Il narratore continua ad aspettare, quando i suoi occhi sono attratti da un ritratto ad olio d’un giovinetto che appende a una parete. Lui stima che al momento della creazione del ritratto, il giovinetto avesse 16-17 anni. Impariamo che l’espressione del giovinetto sembra rispecchiare, in qualche modo, la sensazione di disagio del narratore (il suo misto delle emozioni) a quel momento.

Ma nell’alzar gli occhi a una parete, all’improvviso e con stupore misto a uno strano turbamento, mi parve di scorgere in un ritratto a olio, che raffigurava un giovanetto dai sedici ai diciassette anni, il mio stesso disagio e la mia stessa pena; ma molto più intensa, quasi angosciosa.

(Come impareremo, il ritratto effigia un giovinetto che non solo era gravemente malato ma sarebbe presto morto. Come tale, l’angoscia che il giovinetto sembrava provare è, comprensibilmente, più intenso di quello del narratore.)

Ci viene spiegato che il narratore è trafitto dal ritratto del giovinetto. Cosa c’è di più, lui, sconcertato dall’espressione del giovinetto, sembra immaginare ‘il peggio’ … è quasi come se lui allucinasse!

Restai a mirarlo, come colto in fallo a tradimento. Mi parve come se a mia insaputa, zitto zitto, mentr’io facevo quelle considerazioni sui mobiletti del salottino, uno avesse aperto lì in alto nella parete una finestretta e si fosse affacciato a spiarmi di là.

Anzi, l’arredamento, adesso antropomorfizzato, sembra parlare al narratore, ‘informandolo’ dell’effetto del ritratto su coloro che lo guardano.

– Lei ha ragione: è proprio così, signore! – mi dissero, per togliermi subito d’impaccio, gli occhi di quel giovinetto. 

Adesso, ci sembra chiaro che il salottino, a tutti gli effetti, è stato chiuso ed isolato dal resto della casa del Conti.

– Noi siamo qua tanto tristi d’esser lasciati così soli, senza vita, in questo stanzino privo d’aria e di luce, esclusi per sempre dall’intimità della casa!

(Ci chiediamo se il salottino funzioni attualmente più come un ripostiglio.)

Poi, il narratore specula sul ritratto stesso, chiedendo, Qual è la storia? e Potrebbe il Conti averlo portato con sé quando si è trasferito dalla casa di nascita in campagna alla città?

Chi era quel giovinetto? Come e dond’era venuto in quel salottino questo ritratto? Forse era prima nell’antico salottino dei genitori di Stefano Conti, nella casa dov’io andavo, tanti e tanti anni fa, a trovarlo. In quel salottino non ero mai entrato, perché Stefano m’accoglieva nella sua stanzetta da studio o nella sala da pranzo.

(Qua, il narratore ci ricorda che, in gioventù, ha visitato molte volte la casa dei genitori del Conti.)

Lui anche ipotizza che, dal suo aspetto, il ritratto fosse creato circa 30 anni fa.

Il ritratto appariva d’una trentina d’anni fa.

(Come tale, sospettiamo se fosse vivo oggi, il giovinetto nel ritratto avrebbe 46 – 47 anni.)

Poi, il narratore, forse per ragioni sconosciute, assume che il giovinetto nel ritratto sia morto. In altre parole, sembra credere che l’angoscia abilmente effigiata nel ritratto sarebbe incompatibile con la vita.

Misteriosamente però, e pur nel modo più certo, la vista di quell’immagine escludeva che questi trent’anni, dal giorno ch’era stata fissata lì dal pittore, fossero stati comunque vivi per lei.

Doveva essersi fermato lì, quel giovinetto, alle soglie della vita. Negli occhi stranamente aperti, intenti e come smarriti in una disperata tristezza,

(Qua, la base per l’intuizione del narratore viene dall’apparenza degli occhi del giovinetto: in questo caso, loro son occhi afflitti / dolorosi che sembrano ‘parlare’ del suo spirito.)

E poi, il narratore offre un’analogia tra il giovinetto nel ritratto e un soldato che è stato abbandonato nel territorio nemico, senza alcun speranza di sopravvivenza e per il quale la morte è ovviamente imminente.

aveva la rinunzia di chi resta indietro in una marcia di guerra, estenuato, abbandonato senza soccorso in terra nemica, e guarda gli altri che vanno avanti e sempre più s’allontanano portandosi con loro ogni romor di vita, così che presto nel silenzio che gli si farà vicino, intorno, sentirà certa e imminente la morte.

Il narratore continua a speculare: è più sicuro che mai che il giovinetto sia morto e che non abbia mai visto il ritratto.

Nessun uomo di quarantasei o quarantasette anni di sicuro, avrebbe mai aperto l’uscio di quel salottino per dire, indicando nella parete il ritratto:

– Eccomi, quand’io avevo sedici anni.

Poi, il narratore immagina che il ritratto sia stato sequestrato in questo particolare salottino perché lo rappresentava un doloroso promemoria … come diremmo, il ritratto è ‘out of sight, out of mind’ (‘lontano visto, lontano cuore’).

Era senza dubbio il ritratto d’un giovinetto morto, e lo dimostrava chiaramente anche il posto che occupava nel salottino, come in segno di ricordo, ma non molto caro, se era lasciato lì, tra quei mobiletti nuovi, fuori d’ogni intimità della casa: posto più di considerazione, che d’affetto.

(Il narratore sembra credere che il ritratto fosse stato ‘lasciato indietro’, per così dire, proprio come il soldato abbandonato dell’analogia.)

A questo punto, il narratore si rivolge alla questione dell’identità del giovinetto. Primo, ricorda che il Conti non ha fratello, e poi esclude la possibilità che il ritratto fosse inteso a rappresentare il figlio d’una delle sorelle del Conti (erano entrambe sposate solo di recente). Inoltre, il narratore non crede che il giovinetto abbia ereditato delle caratteristiche dei Conti, quindi sia improbabile che lo rappresenti un parente vivente. Infine, dato l’ipotesi che il ritratto sia stato realizzato solamente 30 anni fa, il narratore assume che sia improbabile che il giovinetto rappresenti un parente ‘perduto da tempo’ dei genitori del Conti.

Sapevo che Stefano Conti non aveva né aveva avuto mai fratelli; né del resto quell’immagine aveva alcun tratto caratteristico della famiglia del mio amico; neppure un’ombra di somiglianza con Stefano o con le due sorelle di lui, già da un pezzo maritate. La data del ritratto, poi, e quel che si scorgeva del vestiario non potevano far pensare che fosse qualche antico parente della madre o del padre, morto nell’adolescenza lontana.

A questo punto della storia, le fantasticherie del narratore vengono interrotte quando, improvvisamente, il Conti arriva nel salottino. I vecchi amici si scambiano un saluto e vari ricordi, e loro anche scherzano sugli effetti del passaggio del tempo.

Quando, di lì a poco Stefano sopravvenne e, dopo le prime esclamazioni nel ritrovarci tanto mutati l’uno e l’altro, ci mettemmo a rievocare i nostri ricordi,

Ben presto però la loro conversazione si concentra sul ritratto; sfortunatamente, le domande e la curiosità del narratore rapidamente provano d’esser fastidiose, cioè, d’esser una notevole fonte di disagio per il Conti e, apparentemente, per il giovinetto nel ritratto.

provai, alzando gli occhi di nuovo a quel ritratto e domandandone al mio amico qualche notizia, lo strano sentimento di commettere una violenza, di cui mi dovessi vergognare, o piuttosto, un tradimento, che tanto più doveva rimordermi in quanto approfittavo che nessuno potesse rinfacciarmelo, se non lo stesso mio sentimento. Mi parve che il giovinetto lì effigiato, con la disperata tristezza degli occhi mi dicesse: “Perché chiedi di me? Io t’ho confidato che sento la stessa pena che tu, entrando qui, hai sentito. Perché esci ora da questa pena e vuoi da altri intorno a me notizie che io, qui muta immagine, non posso correggere o smentire?”.

Adesso, il tumulto interiore del Conti ci viene rivelato dalla sua reazione fisica.

Stefano Conti, alla mia domanda, storse la testa e levò un braccio, come per ripararsi dalla vista di quel ritratto.

Poi, il Conti supplica il narratore di cambiare tema; il narratore si scusa rapidamente, spiegando che non aveva nessun idea di quanto sensibile sarebbe il tema.

– Per carità, non me ne parlare! Non posso neanche guardarlo!

– Scusami, non credevo… – balbettai.

Subito, il Conti tenta di calmare il suo amico, ammettendo le sue difficoltà con il ritratto.

– No! Non immaginare niente di male, s’affrettò a soggiungere Stefano. – Il male che mi fa la vista di questo ritratto è così difficile a dire, se sapessi!

Poi, il narratore chiede se il giovinetto sia un parente?

– È un tuo parente? – m’arrischiai a domandare.

E il Conti risponde che il giovinetto è il figlio di sua madre!

– Parente? – ripetè Stefano Conti, stringendosi ne le spalle, più forse per ritrarsi da un contatto ideale che gli faceva ribrezzo, che per non saper come dire. – Era… era un figliuolo della mamma.

Naturalmente, questa divulgazione potrebbe significare molte cose; il Conti aggiunge subito che il giovinetto non è nato fuori dal matrimonio.

Tal maraviglia afflitta e tanto imbarazzo mi si dipinsero in volto, che Stefano Conti, arrossendo improvvisamente, esclamò:

– Non illegittimo, ti prego di credere! Mia madre fu una santa!

Il narratore si rende conto che il giovinetto nel ritratto era il fratellastro del Conti. Era sgomento per questo: considerava il Conti il suo caro amico, eppure non sapeva nulla del giovinetto.

– Ma dici tuo fratellastro, allora! – gli gridai quasi con ira.

Il Conti, ovviamente in grande pena, si scusa,

– Me lo avvicini troppo, con questa parola, e mi fai male, – rispose Stefano, contraendo il volto dolorosamente.

… e poi spiega: il ritratto rappresenta infatti un ricordo davvero doloroso e pertanto è stato sequestrato nel salottino poco usato, quasi nascosto.

– Ecco, ti dirò, mi forzerò a spiegarti una difficilissima complicazione di sentimenti, che ha poi, come vedi, questo effetto, di farmi tener lì, come per un’ammenda, questo ritratto. La sua vista mi sconvolge ancora; e sono passati tanti anni!

Poi, viene rivelata la natura del doloroso ricordo: il Conti spiega che la storia associata al fratellastro aveva ‘avvelenato’ la sua giovinezza … aveva infatti distrutto crudelmente il rapporto del Conti con sua madre.

Sappi che io ebbi attossicata l’infanzia nel modo più crudele da questo ragazzo, morto di sedici anni. Attossicata, nell’amore più santo: quello della madre.

Il Conti promette fornire i dettagli della storia, ma sceglie prima di fornire un po’ di retroscena. Per i primi dieci anni della vita sua, il Conti è vissuto in campagna con suoi genitori e sue sorelle maggiori; era qui che suo padre è riuscito a guadagnare fama e fortuna. Inoltre, la famiglia sembrava accettare e godersi questa vita, anche se suo padre era fuori casa per gran parte del tempo e la terra in cui loro vivevano era isolata ed associata con avversità.

Sta’ a sentire.

Vivevamo allora nella campagna dove son nato e dove dimorai fino ai dieci anni, cioè fino a quando mio padre, disgraziatissimo, non abbandonò l’impresa della Mandrana, che poi ad altri fruttò onori e ricchezza.

Vivevamo lì, soli, come esiliati dal mondo.

Il Conti continua. Non ha mai considerato una volta la sua vita in campagna come una forma d’esilio — non importa quanto grandi possano esser state le difficoltà, non importa quanto fosse isolata la famiglia dal resto del mondo — perché lui era con la sua famiglia (padre, madre, sorelle, domestici). In breve, la sua famiglia era tutto per lui, tutto ciò di cui aveva bisogno, più che sufficiente per soddisfare i suoi bisogni.

Ma quest’esilio lo penso adesso: allora non lo sentivo, perché non immaginavo neppure che lontano da quella terra, da quella casa solitaria, ov’ero nato e crescevo, di là dai colli che scorgevo grigi e tristi all’orizzonte, ci fosse altro mondo. Tutto il mio mondo era lì, né c’era altra vita per me fuori di quella della mia casa, cioè di mio padre e di mia madre, delle mie due sorelle e delle persone di servizio.

Il Conti poi rivela che, nel senso emotivo, non ha mai voluto progredire oltre la sua giovinezza: era contento, dopotutto, soddisfatto … quindi perché cambiare?

Io sono per esperienza con coloro che stimano cattivo consiglio lasciare i fanciulli nell’ignoranza di tante cose che, scoperte alla fine improvvisamente per caso, sconvolgono l’animo e lo guastano talvolta irreparabilmente. Sono convinto che non c’è altra realtà fuori delle illusioni che il sentimento ci crea. Se un sentimento cangia all’improvviso, crolla l’illusione e con essa quella realtà in cui vivevamo, e allora ci vediamo subito sperduti nel vuoto.

Avendo fornito la retroscena, il Conti rivela gli eventi del tradimento della madre. Apprendiamo che all’epoca aveva solo sette anni e pertanto possiamo capire bene quando spiega di non esser in grado d’affrontare bene quello che è successo.

Questo avvenne a me a sette anni, per il cangiare improvviso d’un sentimento che, a quell’età, è tutto: quello, ripeto, dell’amor materno.

Il Conti chiarisce che sua madre era devota alla sua famiglia e che suoi figli non avevano nessun ragione per immaginare che lei avrebbe potuto aver una vita fuori casa, una vita segreta.

Nessuna madre, io credo, fu così tutta de’ suoi figli come la mia. Né io, né certo le mie sorelle, nel vederla dalla mattina alla sera attorno a noi, proprio dentro la vita nostra, nelle lunghe assenze di mio padre dalla villa, c’immaginavamo che potesse avere una vita per sé fuori della nostra. 

Era vero, spiega il Conti, che sua madre viaggiava in città ogni 2-3 mesi, ma lei ha spiegato che il motivo di questi viaggi era per fare lo shopping, cioè per ottenere provviste per la casa.

Andava, è vero, di tanto in tanto, una volta ogni due o tre mesi, in città col babbo per tutto un giorno; ma credevamo che non s’allontanasse affatto da noi con quelle gite, fatte come ci sembravano per rinnovar le provviste della casa di campagna. 

Anzi, i figli di tanto in tanto avevano incoraggiato questi viaggi perché la madre sarebbe spesso tornata con regali per loro.

Anzi, tante volte avevamo l’illusione d’averla spinta noi ad andare in città, per i regalucci, i giocattoli che ci recava al ritorno. 

Il Conti poi spiega che, a volte, quando sua madre è tornata a casa, sorgerebbe la preoccupazione che lei possa aver pianto. Tuttavia la preoccupazione era facilmente scontata … avrebbe spiegato la madre che il viso “pallida come una morta e con gli occhi gonfi e rossi” era il risultato d’un viaggio relativamente lungo attraverso le strade polverose e non asfaltate.

Ritornava qualche volta pallida come una morta e con gli occhi gonfi e rossi; ma quel pallore, seppure ce n’accorgevamo, era spiegato con la stanchezza del lungo tragitto in vettura; e quanto agli occhi, possibile che avesse pianto? Erano così rossi e gonfi per la polvere dello stradone.

C’era una volta però quando il padre del Conti è tornato dalla città da solo. Lui ha spiegato ai figli che la madre aveva sofferto d’una malattia minore … qualcosa che poteva esser curata meglio in città.

Se non che, una sera, vedemmo ritornare in villa, solo e fosco, nostro padre.

– La mamma?

Ci guardò con occhi quasi feroci. La mamma? Era rimasta in città, perché… perché s’era sentita male.

Ci disse così, dapprima.

S’era sentita male; doveva trattenersi per qualche giorno in città; niente di grave; aveva bisogno di cure, che in campagna non poteva avere.

Sebbene la verità non sia stata rivelata, la possibilità che fosse accaduto qualcosa di grave era dimostrata dall’irascibilità del padre e dal suo comportamento quasi abusivo.

Restammo in tale sbigottimento, che mio padre pur di scuotercene, ci maltrattò aspramente, con un’ira che non solo accrebbe il nostro sbigottimento, ma ci offese e ci ferì come una crudelissima ingiustizia.

Non avrebbe dovuto sembrargli naturale che restassimo così, a quella notizia inattesa?

Il Conti continua. È tornata a casa sua madre circa dieci giorni dopo il ritorno del padre, ma questa volta lei era accompagnata da un ragazzo gravemente ammalato (cioè, quasi inabile, come un bambino). Ci sembra chiaro che il padre era violentemente contrario al piano della moglie di portare questo nella casa loro.

Ma l’ira ingiusta e l’asprezza non erano per noi. Lo comprendemmo una decina di giorni appresso, allorché mia madre ritornò in villa: non sola.

Vivessi cent’anni, non potrei dimenticare l’arrivo di lei, in carrozza, davanti al portone della villa.

Il Conti spiega che lui e sue sorelle erano in casa quando si sono resi conto che la madre era arrivata dalla città. Correvano per salutarla, ma quando sono usciti, erano costretti a confrontarsi lo spettacolo del comportamento del padre così come la presenza del ragazzo … il figlio della madre!

Udendo dal fondo del viale l’allegro scampanellio dei sonaglioli, ci precipitammo giù, io e le mie sorelle, per accoglierla in festa: ma su la soglia del portone fummo bruscamente fermati da nostro padre, smontato allora allora da cavallo, tutto ansante e polveroso, per prevenir di qualche passo l’arrivo della vettura che conduceva la mamma.

Non sola! Capisci? Accanto a lei, sorretto da guanciali, tutto avvolto in scialli di lana, pallido come di cera; con questi occhi smarriti che tu gli vedi nel ritratto, c’era questo ragazzo: suo figlio!

Il Conti continua, dicendo che l’attenzione di sua madre sembrava esser occupata dall’altro suo figlio. Apparentemente, lei non è nemmeno riuscita a salutare il Conti e sue sorelle: all’arrivo, il suo unico obiettivo sembrava esser quello di spostare il ragazzo con cura dalla carrozza in casa.

Ed ella era così intenta a lui, così tutta di lui in quel momento, costernata tanto della difficoltà di calarlo giù in braccio dalla vettura senza fargli male, che neppure ci salutava – noi, suoi figli soli, fino a jeri – neppure ci vedeva!

Il Conti ammette, a questo punto, d’aver subito sia lo shock che lo sgomento.

Un altro figlio, quello? La mamma nostra, la mamma tutta di noi fino a jeri, aveva avuto fuori della nostra un’altra vita? fuori di noi un altro figlio? quello? e lo amava come noi, più di noi?

Ammette anche che questa svolta degli eventi ha avuto un impatto profondo e duraturo su di lui — afferma che a lungo termine, ha sperimentato l’angoscia, l’odio, la gelosia l’indignazione e un senso del tradimento.

Non so se le mie sorelle provarono quel che provai io, nella stessa misura. Io ero il più piccolo, avevo appena sette anni. Mi sentii strappare le viscere, il cuore, soffocare d’angoscia, occupar l’animo da un sentimento oscuro, violentissimo, d’odio, di gelosia, di ribrezzo, di non so che altro, perché tutto l’essere mi s’era rivoltato, stravolto allo spettacolo di quella cosa inconcepibile: che fuori di me mia madre potesse avere un altro figlio, che non era mio fratello, e che potesse amarlo come me, più di me!

Nella mente del Conti, sua madre lo aveva derubato della sua giovinezza. Mondo rovesciato! in altre parole, era stato ‘dis-ancorato’ dal momento del arrivo dell’altro figlio. Si potrebbe anche dire che tutto ciò su cui il Conti aveva fatto affidamento, in cui aveva creduto, cioè — sua famiglia, l’amore di sua madre — era stato portato via … rapidamente, violentemente, irreversibilmente. Inoltre, nella mente di lui, era sua madre di chi era la colpa, era lei che lo aveva privato del diritto di nascita.

Mi sentii rubare la madre… No, che dico? Nessuno me la rubava. Lei, lei commetteva davanti a me e in me una violenza disumana, come se mi rubasse lei la vita che mi aveva data, staccandosi da me, escludendosi dalla vita mia, per dare l’amore, che doveva esser tutto mio, quello stesso amore che dava a me a un altro, che come me ci aveva diritto, lo stesso diritto che ci avevo io.

A questo punto della storia, il narratore arriva a capire che il tradimento è ancora fresco nella mente del amico, che il ricordo rimane come una ‘ferita aperta’, qualcosa irrisolta.

Grido ancora, vedi? Risento, a pensarci, la stessa esasperazione d’allora, l’odio che non potè mai più placarsi,

Il narratore apprende che il ragazzo nella carrozza era il prodotto del primo matrimonio della madre e che questo matrimonio era travagliato: era concluso quando il marito era assassinato. Dopo essersi sposata una seconda volta (con il padre del Conti), sua madre era costretta di rinunciare a suo figlio (come impareremo, alla cura dei parenti del primo marito).

per quanto poi mi narrassero la storia pietosa di quel ragazzo, da cui mia madre aveva dovuto staccarsi quando passò a seconde nozze con mio padre. Non lo aveva preteso mio padre quel distacco. Lo avevano preteso i parenti del primo marito. Sembra che costui per gravi dissapori con mia madre, allora giovinetta, dopo quattro o cinque anni di tempestosa vita coniugale, si fosse ucciso.

Spiega il Conti: pertanto, le visite in città riguardavano sempre più dello shopping — sono stati progettati per consentire alla madre di visitare l’altro figlio.

Tu intendi ora: le rare volte che mia madre si recava dalla campagna in città, andava lì a vedere quel suo figliuolo, di cui noi non sapevamo nulla; che gli cresceva lontano, affidato a un fratello e a una sorella del primo marito.

Questa sistemazione, sebbene non perfetta, ha rimasto stabile per molti anni, ma poi le cose hanno cambiato … drasticamente e in peggio. Morirono i parenti che si erano presi cura del bambino, e anche l’altro figlio era sopraffatto dalla malattia. Di conseguenza, la madre ha deciso di portare il bambino in campagna e di ‘allattarlo’ di nuovo in salute: lo sforzo si è rivelato esser onnicomprensivo … qualcosa a cui la madre si è dedicata.

Ora questo fratello era morto; poco dopo il ragazzo s’era mortalmente ammalato e mia madre era accorsa al suo capezzale, lo aveva conteso alla morte, e appena convalescente se l’era portato con sé in campagna, sperando di fargli riacquistare la salute col suo amore, con le sue cure.

(Forse, oltre alle sue preoccupazioni per il benessere del bambino, la madre avesse nutrito un senso di colpa perché, dopo essersi risposata, era costretta di rinunciare a suo figlio.)

Sfortunatamente, erano vani gli sforzi per prendersi cura dell’altro figlio: impariamo che è morto 3-4 mesi dopo il suo arrivo in campagna.

Fu tutto invano; morì tre o quattro mesi dopo. 

Niente di tutto ciò sembrava importare al Conti. Anche se suo madre ha tentato di riconnettersi con lui e sue sorelle, dopo la morte dell’altro figlio, il suo odio per il tradimento della madre, per la malattia del giovinetto, per ciò che gli era stato tolto non poteva essere né placato né mitigato né risolto.

Ma né le sofferenze valsero mai a suscitare in me un moto di pietà, né la sua morte a placare il mio odio. Io avrei voluto ch’egli guarisse, anzi; ch’egli rimanesse lì, tra noi, per riempire con l’odio che la sua presenza m’ispirava il vuoto orrendo rimasto dopo la sua morte tra me e mia madre. Il vederla riattaccarsi a noi, dopo la morte di lui, come se ormai ella potesse ridivenir tutta nostra come prima, fu per me uno strazio anche maggiore, perché mi fece intendere ch’ella non aveva affatto sentito quel che avevo sentito io; e non poteva difatti sentirlo, perché quello per lei era un figliuolo, com’ero io.

Il Conti spiega al narratore che sua madre ha tentato di ragionare con lui: dopotutto, lei ha sostenuto d’aver condiviso il suo amore per lui con le sorelle … e come sarebbe diverso quello dal condividere il suo amore per lui con un quarto figlio?

Ella forse pensava: “Ma io non ti amo solo! Non amo anche le tue sorelle?”.

Poi, il Conti spiega perché ha respinto quest’argomento.

Senza intendere che nell’amore ch’ella aveva per le mie sorelle c’ero anch’io, mi sentivo anch’io, sentivo ch’era lo stesso amore ch’ella aveva per me: mentre lì, no, nell’amore che aveva per quel suo ragazzo, no! lì non c’ero, io, lì non potevo entrarci, perché quel ragazzo era suo, e quand’ella era di lui e con lui, non poteva esser mia, con me.

E poi, il Conti rivela ciò che l’ha disturbato più d’ogni altra cosa, ciò che non poteva né tollerare né perdonare né superare: il fatto che era costretto a condividere l’amore di sua madre con l’altro figlio.

Tu capisci: non mi offendeva tanto per me questa sottrazione d’amore; quanto m’offendeva il fatto che quel ragazzo era suo. Questo non sapevo tollerare! Perché la mamma ora non mi pareva più mia. Non mi pareva più la mamma ch’era stata per me prima.

Scopriamo, purtroppo, che prima della morte della madre, il Conti non è mai stato in grado di ristabilire il loro rapporto.

Da allora – credi – ti dico una cosa orrenda… da allora io non mi sentii più la mamma nel cuore.

Anzi, ritiene d’aver perso sua madre due volte. Una volta al momento del tradimento e poi al momento della sua morte.

L’ho perduta due volte, io, la madre. Ma ne ho anche avute quasi due. Questa che m’è morta di recente non era più la mamma, la mamma vera, la mamma di cui si dice che ce n’è una sola. La mia vera mamma, la mia sola mamma, mi morì allora, quand’avevo sett’anni. E allora la piansi davvero; lagrime di sangue, come non ne verserò mai più in vita mia, lagrime che scavano e lasciano un solco eterno, incolmabile.

La novella termina con l’ammissione del Conti che questi problemi rimangono irrisolti — confusi ed angoscianti. Questa, ci sembra, esser tragica (un disastro).

Me le sento ancora dentro, queste lagrime che m’avvelenarono l’infanzia; e le devo a lui. Perciò t’ho detto che non posso neanche guardarlo. Riconosco che fu un disgraziato anche lui. Ma ebbe almeno la fortuna di non vivere la sua disgrazia; mentr’io, non per colpa, ma certo per causa sua, vissi tant’anni accanto a mia madre senza più sentirmela nel cuore come prima.

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