Riassunto: Piuma

As societies change shape, novels change form. Because the novel is such a deeply mimetic and attentive host, it begins to sound like its guests. A hierarchical society that placed faith in marriage reproduced itself in stable novels that end securely in imagined marriage, gently offstage. But a society in which women were chafing at the limits of domestic harness reproduced itself in turbulent novels that begin with an inquiry into such marriages rather than ending with the promise of them. The novel of adultery, which dominates the second half of the European nineteenth century, might also be called the novel of unhappy marriage, its formal restlessness driven by the trapped restlessness of its heroines.”

https://www.newyorker.com/magazine/2019/10/14/an-omani-novel-exposes-marriage-and-its-miseries

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Secondo noi, Piuma (L. Pirandello) racconta la storia d’un matrimonio fallito, cioè un matrimonio complicato dalla malattia terminale sconosciuta dalla moglie e anche dall’adulterio del marito.

La storia è sottile e complessa: ogni protagonista (moglie, marito, cugina zitella) sembra aver un punto di vista ragionevole … uno, tuttavia, che contraddice direttamente i punti di vista degli altri. Ad esempio, moglie: sembra rassegnata al fatto che la malattia causerà la sua morte, ma, al tempo stesso, sembra risentita del tradimento di suo marito; marito: sembra sinceramente rattristato dalla malattia devastante di sua moglie, ma, al tempo stesso, è un giovane uomo, con sogni ed aspirazioni, qualcuno la cui vita è stata profondamente sconvolta dalla malattia di sua moglie … quindi sembra aver scelto di ripristinare ciò che ha perso; cugina zitella: sembra anche rattristata dalla malattia della moglie, ma nonostante ciò, sembra aver perseguito aggressivamente l’opportunità inaspettata d’aver una famiglia tutta sua.

Tuttavia … riteniamo che potrebb’esserci un altro modo d’interpretare Piuma. A questo proposito, ce ne sono solamente due protagoniste (invece di tre): moglie e cugina zitella. (Il marito è invece un ‘premio’ per il quale le due donne combattono … in altre parole, è ridotto lui ad esser una fonte d’affetto e d’appagamento, cioè, lui rappresenta semplicemente i mezzi per la fine della procreazione.) Vista in questo modo, la lotta tra le due donne è affacinante, basato com’è su le loro personalità. Moglie: sembra raffinata e ben istruita, cioè, sembra aver l’inteletto di valutare e comprendere le situazioni della vita sua; sembra anche aver una ‘bussola morale’ e, infine, la capacità di usare il suo intelletto per adattarsi alle avversità, cioè, di fronte al fallimento del suo corpo e del suo matrimonio, utilizza un suo intelletto per stabilire una ricca vita interiore … una vita interiore che le permette di ‘compartimentare’ ciò che è doloroso e anche trovare tutto il conforto e il piacere che è possibile … che c’è. Cugina zitella: sembra esser, più o meno, l’esatto contrario della moglie, cioè, non raffinata e scarsamente istruita; sembra anche esser primitiva — una, cioè, che manca una ‘bussola morale’, e infine, non sembra essere razionale o pensierosa invece la sua caratteristica principale sembra esser la furbizia … in breve, la consideriamo essser una ‘street-fighter’.

La domanda, dunque, per tutti i lettori di Piuma è: come interpretereste il significato della novella?

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Già s’era accorta che la pietà dei parenti non era tanto a costo delle sue sofferenze, quanto di quelle che ella dava loro, senza volerlo, col suo male inguaribile; e che insomma nasceva da un certo goffo rimorso quella loro affannata pietà.

Effettivamente, la prima frase della storia ci informa di tutto ciò che dobbiamo sapere. Una moglie sfortunata soffre d’una cronica malattia non diagnosticata ed incurabile che, alla fine, causerà la sua morte prematura. Lei è costretta a letto e richiede cura più o meno costante. Impariamo anche, tuttavia, che i parenti che procurano questa cura (cioè, il marito e la cugina zitella) vogliono esser altrove: sembrano aver altre priorità … in breve, per loro, è diventato un onere enorme prendersi cura della moglie — una fonte di tristezza, sì, ma anche di rimorso e, forse, di grande frustrazione.

Come impareremo, il nome della moglie è Amina Berardi, e suo marito è Francesco Vismara. (La zitella rimarrà innominata.) Ci viene detto, senza mezzi termini, che il Vismara e la cugina sono poco attraenti (grandi, obesi) … e, sospettiamo, anche poco sofisticati.

Il grosso marito calvo e accigliato, quella grossa cugina povera, corazzata da due poppe prepotenti sotto il mento, i capelli che parevano un casco di ferro su la fronte bassa e quel pajo di spaventosi occhiali sul fiero naso, anche un po’ baffuta, poverina;

Poi, impariamo che entrambi i parenti vogliono che la Berardi muoia il prima possibile.

volevano soffrire per lei perché intendevano di pagare così il sollievo, il bene che sarebbe loro venuto dalla sua morte.

La malattia della Berardi può esser gravemente dolorosa, ma il dolore è intermittente: la malattia sembra manifestarsi (‘flair up’) sporadicamente ed imprevedibilmente. Quando il dolore è intenso, la Berardi griderà, e ci viene spiegato che il Vismara e la zitella siano attenti ai suoi bisogni. D’altra parte, quando attenua il dolore, la Berardi viene lasciata da sola ai suoi dispositivi.

E difatti, quand’ella soffriva, le erano a torno ansanti e premurosi; ma poi, appena il male le dava requie e sul letto poteva gustare per ogni nonnulla una lieve gioja innocente, una dolcezza di respiro nuovo tra il candor fresco del letto rifatto, né l’uno né l’altra partecipavano alla sua gioja; si staccavano anzi dal letto e la lasciavano sola.

Come tale, esiste un patto di sorta tra tutt’e tre. Il Vismara e la cugina hanno accettato di prendersi cura della Berardi fino alla sua morte (e specialmente quando lei è in agonia); hanno anche accettato di consentire alla Berardi, ogni volta che la sua malattia è in remissione, di vivere come desidera (cioè in loro assenza).

Dunque, patti chiari: non le concedevano il diritto di star bene; le concedevano in cambio il diritto di tormentarli col suo male, quanto più potesse, quanto più sapesse.

Per questi sforzi e sacrifici, i parenti credono che debbano esser ringraziati.

E pareva che di questo cambio volessero proprio essere ringraziati.

(A questo punto, la nostra impressione è che il Vismara e la cugina, mentre loro aspettano la morte della Berardi, abbiano messo da parte o rimandato qualcosa molto importante. Anzi, sembrano frustrati perché la Berardi è stata malata da molto tempo, cioè da anni, e non è chiaro quando loro saranno liberi dei proprii obblighi a lei.)

Poi, il narratore sottolinea che questa situazione è quasi impossibile.

Non era troppo?

(Questo può significare molte cose, vero? (es.) che la sofferenza interminabile della Berardi sia stata troppo per lei da sopportare … che la malattia della Berardi finalmente abbia rovinato il suo matrimonio … che sia stato prevedibile che il marito sarebbe commesso adulterio … che Francesco Vismara e la cugina siano stati spinti al punto di rottura.)

Poi, ci vengono forniti ulteriori dettagli sulla vita della Berardi quando la sua malattia è in remissione: impariamo che lei è relativamente indipendente ai questi tempi e che ha sviluppato un metodo che le permette di sperimentar piacere. Impariamo anche che il marito e sua cugina sono ‘ignari’, cioè, loro non vogliono sapere nulla della vita della Berardi quando lei è libera dal dolore.

Tormentarli, doveva tormentarli per forza; non poteva farne a meno: non dipendeva da lei. Che poi la lasciassero sola nei momenti di requie, non solo non le importava nulla, ma le faceva anzi un gran piacere, perché sapeva bene che quei due non avrebbero potuto neppure lontanamente immaginare di che cosa ella godesse, di che vivesse.

A poco a poco arriviamo a capire che sta fallendo il corpo della Berardi, che la sua vita è diventata progressivamente più circoscritta. Non ne consegue però che lei è distaccata dal mondo che la circonda, cioè, priva d’emozione, priva del pensiero razionale. Infatti, impariamo che gli occhi della Berardi raccontano una storia diversa: cioè, la storia d’una donna che, quando possibile, coinvolge il mondo che la circonda con emozione intensa ed intelligenza incessante. 

Pareva di nulla. E veramente non viveva più di ciò che agli altri bisogna per vivere. Così anche poteva credere di non toglier nulla agli altri rimanendo lì in attesa della morte che non veniva. Ma spesso gli occhi, che avevano ancora il limpido brillio dello zaffiro, vivi essi soli nella sparuta magrezza del visino diafano, le ridevano maliziosi.

(Notiamo l’enfasi sugli occhi della Berardi, gli occhi che permette noi di ‘vedere’ lo suo spirito.)

Poi, il narratore ricorda la favola d’una formichetta. 

Forse si vedeva come quella formichetta dell’apologo nel suo libro di lettura di quand’era bambina: la formichetta che, attraversando una via, chiedeva ai passanti:

– Che vi fa, buona gente, quest mia pagliuzza?

Una pagliuzza? Niente! Ma pretendeva la formichetta che tutto il traffico della via, gente, veicoli s’arrestassero per lasciarla passare con quella sua pagliuzza.

E fosse almeno passata! Ma non passava mai: non poteva passare, perché veramente il tempo per lei non passava più.

Da una parte, la formichetta è descritta come una sorta di ‘maestra dell’universo’ mentre, in netto contrasto, la vita della Berardi è diventata sempre più vincolata / limitata dalla sua malattia.

In quella vana attesa di morte, la vita esterna s’era come assordita in lei.

E poi, ci viene ricordato che la malattia della Berardi è cronica, terminale e non diagnosticata,

Da anni e anni durava in quel suo male che nessun medico finora aveva saputo dichiarare; e non si capiva come. 

… è anche devastante / angosciante — il suo corpo è diventato straordinariamente fragile,

Nella luce di quella vasta camera bianca, su quell’ampio letto bianco, s’era ridotta più fragile di quegli insetti d’estate che, a toccarli appena, son lieve polvere d’oro tra le dita. Come faceva, così fragile, a resistere agli spasimi di quei fieri accessi del male, non rari? Non pareva un dolore umano, poiché le strappava dalla gola cupi gridi d’animale. Ma pure resisteva. Poco dopo, calma, era come se non fosse stato nulla.

… e che la Berardi, al momento, è emaciata … ridotto a ‘pelle ed ossa’, che paradossalmente le ha fatto apparire “a ritroso”, quasi infantile.

Diventava sempre più magra, questo sì; e più che a vederla, era uno spavento a immaginare a che punto di magrezza si sarebbe ridotta di qui a dieci, di qui a vent’anni, chi sa! perché forse per venti anni ancora, e più, avrebbe seguitato su quel letto a incadaverirsi viva; pur senza sformarsi, pur senza perdere, anzi acquistando sempre più una sua certa grazia infantile, per cui pareva non tanto dimagrisse, quanto si rimpiccolisse tutta a mano a mano che il tempo passava, quasi che, per prodigio, dovesse uscir di vita non già dalla vecchiaja, ma dall’infanzia, a ritroso.

Ci viene comunque ricordato il netto contrasto tra l’aspetto infantile della Berardi ei suoi occhi feroci e consapevoli … occhi adulti che rivelano la sua agonia fisica ed emotiva.

Gli occhi però, gli occhi nel brillio dell’azzurra luce, in quello sparuto visino di bimba, non erano infantili; si facevano anzi sempre più diabolicamente maliziosi; massime quando, dopo gli accessi del male, ancora aggruppata nel letto, con la testina arruffata giù dal guanciale, su la rimboccatura del lenzuolo scomposta, guardava i dorsi del grosso marito e della grossa cugina, che s’allontanavano curvi e mogi mogi dal letto.

Poi, ci viene spiegato che il Vismara e la cugina zitella hanno raggiunto un punto di disperazione,

Disperati, quei poverini! Chi sa che discorsi facevano tra loro di là, e che pensavano di qua, stando a vegliarla!

… e ci viene ricordato che loro sono ignoranti, e sembrano interessarsene ancora di meno, della vita interiore della Berardi.

Forse la vedevano come presa in uno strano impenetrabile incanto, che la rappresentava loro come lontana lontana, pur lì vicina, sotto i loro occhi. Ciò che ella chiamava «sole», ciò che ella chiamava «aria», quando con una voce che non pareva più umana diceva «sole», diceva «aria», forse a nessuno dei due pareva che fosse più lo stesso loro sole, la stessa loro aria.

A questo punto della storia ci vengono forniti ulteriori dettagli sulla vita interiore della Berardi. Scopriamo che, per sopravvivere, lei è arrivata a fare affidamento sui suoi ricordi, ricordi cioè di quando lei era più giovane, prima di sposarsi … d’un’epoca spensierata nella sua vita, prima che si ammalasse;

Era difatti come il sole d’un altro tempo, un’aria ch’ella chiedesse da respirare altrove, lontano; perché qui, ora, doveva loro sembrare ch’ella non avesse più bisogno né di sole né d’aria né di nulla.

Lontano lontano, nel tempo suo lieto, col sole e l’aria d’allora, quand’era bella e sana e gaja e i limpidi occhi di zaffiro avevano fremiti di desiderio o collere ridenti; e dove lucidi, precisi, con tutti i loro colori, quasi riflessi davanti a lei in uno specchio, le vivevano gli aspetti della sua vita, com’era allora.

… insomma, d’un’epoca in cui la Berardi era libera di provare piacere dal mondo naturale.

Si dondolava andando, ma così leggera! per quel traforo verde del lungo pergolato opaco, con in fondo il sole abbarbagliante; le manine rosee appese alle falde del gran cappello di paglia stretto ai lati da un nastro di velluto nero annodato sotto il mento. Oh quella paglia! Sul cristallo azzurro della fontana in fondo al pergolato, ove lei ora corre a specchiarsi, pare un cestello rovesciato.

In una di queste fantasticherie, una persona (sconosciuta) la chiama,

– Amina! Amina!

… ma il piacere della Berardi continua senza sosta.

Chi la chiama così? Scende la scalinata sotto il pergolato. Sulla spiaggia non c’è nessuno. E ora, in barca, sola, col mare agitato, si sente assalita dalle ondate che la sferzano, come di piombo. E si sente acqua, si sente vento; viva in mezzo alla tempesta. E ogni volta, a ogni sferzata, ah! è un divino imbevimento, che la fa quasi nitrire, ebbra. Una forza agile, prodigiosa, tremenda, la lancia, poi la culla spaventosamente. E in questo spavento vertiginoso, che voluttà!

Sfortunatamente, i suoi ricordi possono esser bruscamente, violentemente interrotti … ma ancora, appena la malattia attenua, lei ritorna ai suoi ricordi … per far fronte la vita, per sopravvivere.

Non bisogna abusarne; se no, è l’affanno di nuovo e il feroce morso di quei dolori al petto che la fanno urlare come una belva. No no – bisogna tenerla lontana – così – la sua vita, per viverla soltanto lì, nel ricordo.

Oh come le piacciono lì certe giornate di nuvole chiare, dopo le piogge, con l’odore di terra bagnata e nella luce umida l’illusione delle piante e degl’insetti che sia di nuovo primavera. La notte, le nuvole dilagano su le stelle e le annegano, per poi lasciarle riapparire su brevi profonde radure d’azzurro. Ed ella, con l’anima piena della più angosciosa dolcezza d’amore, ecco, affonda gli occhi in quel notturno azzurro, e si beve tutte quelle stelle.

Poi, veniamo a conoscenza perché la Berardi è emaciata: ha, a tutti gli effetti, smesso di mangiare.

Poche gocce d’acqua, qualche goccia di latte, ora, e nient’altro. Ma nel sogno così, anche a occhi aperti, dov’ella perennemente viveva, venivano a nutrirla in abbondanza i ricordi che per lei erano vita. Le recavano non più la materialità, ma la fragranza e il sapore dei cibi d’allora, di quelli che più le piacevano, frutta ed erbe, e l’aria d’allora e la gajezza e la salute.

La nostra impressione è che la Berardi abbia sofferto per così tanto tempo che si è stancata … in altre parole, lei ha accettato il destino e la schiacciante certezza della sua malattia … è pronta quindi a morire, e ha smesso di mangiare. Ma può anche essere vero, tuttavia, che la Berardi ha deciso di ritirarsi dal mondo … che è successo qualcosa che lei considera intollerabile, qualcosa che lei non può più sopportare. Se questo è vero, i suoi ricordi possano servire un duplice scopo: possano servire come una fonte di conforto nonché una fonte di rifugio. Come tale la Berardi potrebb’aver smesso di mangiare per accelerare la sua morte.

Notevolmente, il narratore chiede, Com’è possibile che la Berardi sia ancora viva? Dopotutto, pareva di nulla e la morte dev’esser a portata di mano, giusto?

Come poteva più morire? Dopo un lieve sonno, la sua anima era pienamente ristorata, e bastava al suo corpo, così com’era ridotto, che quasi non era più, una goccia d’acqua, una goccia di latte.

Ci viene ricordato che la Berardi vede tutto. S’accorge, ad esempio, del comportamento ambiguo del Vismara e della zitella.

La grossolanità goffa dei corpi, non solo del marito e della cugina, ma di quanti le s’accostavano al letto era ormai ai suoi occhi, a tutti i suoi sensi acutissimi, d’una gravezza insopportabile, e cagione di ribrezzo e qualche volta anche di terrore. La diafana gracilità delle pinne del suo nasino fremeva, spasimava, avvertendo i nauseanti odori di quei corpi, la densità acre dei loro fiati; e quasi avevan peso per lei anche i loro sguardi quando le si posavano addosso per commiserarla. Sì, sì questa commiserazione, come tutti gli altri sentimenti e desiderii, in quei corpi, avevan peso per lei e anche cattivi odori. Nascondeva perciò spesso la faccia sui guanciali, finché non si fossero allontanati dal letto. Da lontano, con più spazio attorno alla chiara, aerea levità del suo sogno, li guardava, e dentro di sé ne rideva, come di grosse bestie strane che non potevano vedersi, da sé, come le vedeva lei, condannate all’affanno di stupidi bisogni, di gravi e non pulite passioni.

Anzi, la Berardi considera suo marito d’esser ‘macchiato’ (cioè, “seminata di puntini neri” a causa del peccato della sua infedeltà).

Più che per tutti gli altri rideva tra sé per il marito, quando lo vedeva piantato fermo in mezzo alla camera con la pensosità pesante e lugubre dei buoi. Anche così da lontano, gli scorgeva la pelle spungosa, seminata di puntini neri. Certo egli credeva di lavarsi bene ogni mattina; bene come si lavavano tutti gli altri; ma anche a tutti gli altri, per quanto si lavassero, restavano sempre nella pelle tutti quei puntini neri. Poteva scorgerli lei sola, come lei sola scorgeva la granulosità dei nasi e tant’altre cose che, a guardar così da lontano, erano per lei divertentissime.

Inoltre, la Berardi nota che la cugina non è più in grado di ‘guardarla negli occhi’ (forse a causa della propria rabbia, imbarazzo e frustrazione).

La grossa cugina con gli occhiali, per esempio, non poteva fare a meno d’abbassar le palpebre, appena ella la fissava col capo di solito reclinato giù dal guanciale, sul bianco della rimboccatura del lenzuolo.

In quel bianco, il suo visino quasi spariva, e solo si vedevano, acuti e brillanti, i due grandi occhi di zaffiro, come due vive gemme posate lì.

Poi, è chiaramente rivelato a noi ciò che è apparso solo fino a questo punto nella storia: il Vismara e la cugina sono impegnati in una relazione adultera.

Ridevano però, ardevano diabolici di riso, non perché sotto gli occhiali della cugina scorgessero grossi e lunghi i peli della ciglia, quasi antenne d’insetto, ma perché ella sapeva bene che la cugina, venendo qua così pacifica, con l’aria di niente, ad assisterla, lasciava nelle altre stanze di là un dramma che più goffo nella sua grossolanità non si sarebbe potuto immaginare: il dramma della sua passione, povera grossa cugina con gli occhiali; il dramma, certo, della sua vergogna e del suo rimorso; ma anche – oh Dio, perdono! – anche de’ suoi segreti piaceri carnali col grosso cugino, attossicati da chi sa quante lagrime, poverina!

Impariamo che la Berardi sa tutto. Ci viene spiegato che non è disturbata dall’affare (lei chiede, Cosa posso fare? sto morendo, dopotutto) ma sospettiamo diversamente. Anzi, secondo noi, l’adultera potrebb’esser la seconda ragione per cui la Berardi ha smesso di mangiare … a noi, la Berardi sembra delusionata e piena di risentimento per il tradimento del Vismara.

Avrebbe voluto dirle che, via, non stesse a pigliarsene tanto, perché ella sapeva, aveva indovinato da un pezzo, e le pareva naturalissimo che tutti e due, cugino e cugina, visto che la morte non veniva di qua a liberarli, di là si fossero messi insieme maritalmente, con quei loro grossi corpi – oh Dio, si sa – tentati l’uno verso l’altro dalla vicinanza e dal bisogno d’un conforto reciproco. Naturalissimo. 

Impariamo che la relazione adultera è di lunga data: ci sono due bambine, nate durante i precedenti sei anni.

E già due volte, in sei anni, la poverina era stata costretta a sparire, la prima volta per tre mesi, la seconda per due. Perché – si sa, oh Dio – non è senza conseguenze, il più delle volte, questo cocente bisogno di conforto reciproco. Il marito le aveva detto che era andata in campagna a riposarsi un poco.

Questa situazione sembra esser assurda! Impariamo che la Berardi ride per dimostrare il suo malcontento … cioè, forti risate sardoniche, amare e rauche; risate inutili; risate che condannano.

Glie lo aveva detto però con tale aria smarrita e vergognosa, che certo ella sarebbe scoppiata a ridergli in faccia, se veramente avesse ancora potuto ridere. Ma non poteva, altro che con gli occhi, ormai. Ridere, ridere forte, con la sua bocca rossa, coi suoi denti splendidi, ridere come una pazza, poteva là soltanto, nel sogno vivo in cui si vedeva, con la sua immagine rosea e fresca di salute; e là, sì, là aveva riso riso riso, ma tanto, come una pazza!

Cos’altro può fare la Berardi?

Avrebbe forse dovuto pentirsene, come d’un peccato, perché costava necessariamente lagrime agli altri questo suo inutile riso. Ma che poteva farci se non moriva? E del resto, che pentimento, se l’uno e l’altra, stanchi d’aspettare invano la sua morte, s’erano di là accomodati tra loro? Perché non potevano, con lei ancora lì, regolare la loro unione, la nascita dei due figliuoli? Avrebbero dovuto pensarci prima, ai figliuoli! Li avevano fatti e ora piangevano? Per fortuna, certo, i due piccini non potevano ancora prender parte a quel loro affanno, fuori come lei dalla goffaggine delle grossolane e complicate passioni.

Il tempo passa. Impariamo che un giorno, la cugina lascia la Berardi da sola anche se era sveglia.

N’ebbe la prova, un giorno.

Nell’ampia camera luminosa non c’era nessuno. Di tanto in tanto alla cugina faceva comodo credere ch’ella dormisse e che poteva perciò lasciarla sola, non ostante l’espressa raccomandazione del marito. 

Poi, è descritto il modo, goffo ed incerto, in cui il marito e la cugina hanno condiviso la loro intimità.

(S’erano messi insieme i due, ma certo in un modo molto curioso, salvando cioè nei loro cuori grossi ma teneri l’affetto per lei, un affetto che appariva tanto più comico quanto più si dimostrava sincero e commovente, ma che pur forse doveva dare alla cugina, qualche volta, una cert’ombra di gelosia, se egli, per esempio, nel sostenerla negli accessi del male, le ravviava con dita tremanti i lunghi capelli d’oro, ricordo d’intime carezze lontane.)

Incustodita (mamma mia!), una figlia della cugina si avvicina alla soglia della stanza della Berardi; incoraggia la figlia ad entrare, ma lei rifiuta.

Quel giorno, la cugina la aveva lasciata con tanto d’occhi aperti; ma non importa: doveva credere che dormisse, ed era uscita da un pezzo dalla camera, quando a un tratto l’uscio s’era schiuso ed era entrata una grossa bamboccetta con gli occhiali, che reggeva con un braccìno sul petto una bambola tignosa, in carnicino rosso e senza un piede, e nell’altra mano una mela sbocconcellata. Smarrita e titubante, pareva una pollastrotta scappata dalla stia e penetrata per caso in un salotto.

Ella, sorridente, le aveva fatto cenno con la mano d’accostarsi al letto; ma la bimba era rimasta come incantata a mirarla da lontano.

Genetica! Tratti ereditari! Non c’è dubbio che la bambina (poverina!) sia la figlia della cugina.

Con gli occhiali, povera mimma, chi sa qualcuno non volesse credere di chi era figlia; ma ben pasciuta poi, sana, placida e – si poteva giurare – perfettamente ignara dell’affanno che aveva dovuto costare alla madre il metterla al mondo illecitamente; ignara e beata de le belle rosse mele che si potevano intanto mangiare, così con tutta la buccia e col solo ajuto dei dentini, in questo illecito mondo, dove per lei forse solamente alle bambole poteva capitare la disgrazia di perdere un piede e il parrucchino di stoppa.

(La cugina, in un certo senso, non è più una zitella, vero?)

Terrorizzata dalla possibilità d’un’incursione, la cugina si precipita nella stanza della Berardi per raccogliere sua figlia. La Berardi (compassionevolmente, pensiamo) finge di dormire.

Volle avere pietà; e quando, poco dopo, la madre accorse tutta sossopra e quasi atterrita a ritirar di furia quella bimba dalla camera, ove certo s’era introdotta eludendo la rigorosa vigilanza, chiuse gli occhi e finse di dormire davvero. Finse di dormire anche quando la cugina, ancora tutta rimescolata, venne a riprendere il suo posto d’assistenza presso il letto; ma, Dio Dio, che tentazione d’aprire a un tratto gli occhi ridenti e di domandarle all’improvviso:

— Come si chiama?

Impariamo che la Berardi è consapevole dell’esistenza di due figli / figlie.

Sì, via, bisognava un giorno o l’altro venire a questa risoluzione. Chi sa quali disordini cagionava di là il mantenere ancora, qua, tutto questo inutile mistero! E poi anche si moriva dalla curiosità di sapere se l’altro figliuolo fosse un bamboccetto o un’altra bamboccetta, e se anche questa seconda, per non sbagliare, fosse con gli occhiali.

(Ahahahaha … la Berardi si chiede se la seconda bambina sia anche costretta usare gli occhiali!)

Migliori. Piani. Previsti! 

Il tempo passa, e pochi giorni dopo la ‘quasi incursione’, muore il Vismara — improvvisamente, inaspettatamente.

Ma s’infranse da sé il mistero, in un modo inopinato, pochi giorni dopo l’entrata furtiva di quella bimba nella camera.

Urli, pianti, fracasso di seggiole rovesciate, un gran subbuglio, quel giorno, venne dalle stanze di là, nell’ora del desinare. Ella indovinò che qualcuno era trascinato con molto stento, sorretto per la testa e pei piedi, da una stanza all’altra, dalla sala da pranzo a un letto. Il marito? Un colpo d’apoplessia? I pianti, gli urli erano disperati. Doveva esser morto.

Non per lei, che da tanto tempo stava qui ad aspettarla, sua preda accaparrata, ma per un altro che non se l’aspettava, la morte era entrata nella casa. Era entrata, forse passando innanzi all’uscio schiuso di quella camera bianca; forse s’era fermata un momento a guardarla sul bianco letto; poi s’era introdotta di là nella sala da pranzo per picchiar di dietro col dito adunco sul cranio lucido del grosso marito intento a divorare senza sospetto il suo pranzo quotidiano.

A tutti gli effetti, la Berardi non è in grado d’esser in lutto per il marito — forse a causa del tradimento, ma anche perché è preoccupata per se stessa.

Doveva ora piangere di questa disgrazia? Era per quelli che restavano in vita. Le feste, i lutti, le gioje, i dolori degli altri non erano più da gran tempo per lei, che dal suo letto li considerava solo come buffi aspetti di qualche cosa che più non la riguardasse. Era anche lei della morte. Quell’esile filo di vita che conservava ancora, serviva per condurla fuori, lontano, nel passato, tra le cose morte, in cui solo il suo spirito viveva ancora, non chiedendo altro di qua, alla vita degli altri, che una goccia d’acqua, una goccia di latte; non poteva dunque legarla più a questa vita degli altri, ormai estranea a lei, come un sogno senza senso.

Ci viene spiegato che la Berardi spera che nel tempo, la casa sarebbe tornare a una parvenza di ‘normalità’.

Chiuse gli occhi e aspettò che di là quel subbuglio a poco a poco si quietasse.

Questo non è il caso, tuttavia. In primo luogo la cugina, qualche giorno dopo la morte, arriva con le sue figlie nella stanza della Berardi. Lei sembra esser disperata, quasi completamente distrutta. Stranamente — dopotutto, lei è ovviamente in lutto — la sua preoccupazione principale sembra esser il benessere delle sue figlie. 

Dopo alcuni giorni vide entrare nella camera, vestita di nero, tra le due bambine vestite anch’esse di nero, la grossa cugina con gli occhiali, disfatta dal pianto. Le si piantò come un incubo lì davanti al letto; poi prese a sussultare, arrangolando; e infine stimò giustizia gridarle in faccia tra infinite lagrime la sua disperazione, mostrando le due piccine orfane, e il danno ormai irreparabile ch’ella aveva fatto loro non morendo prima. Come, come sarebbero rimaste adesso quelle due piccine?

(Ci chiediamo se lei si preoccupi per la loro legittimità agli occhi della legge? o per il loro benessere finanziario? Inoltre, ci chiediamo anche se la sua preoccupazione per le figlie sia semplicemente una preoccupazione per il proprio futuro?)

Dopo un po’ la Berardi trova difficile concentrarsi … sembra ‘tune out’ il torrente delle parole della cugina. La sua attenzione invece rivolge alle figlie.

Ella ascoltò da prima sbigottita; ma poi, protraendosi a lungo lo spettacolo un po’ teatrale di quella disperazione pur sincera, non ascoltò più; fissò l’altra bimba che ancora non conosceva e notò con piacere che questa era senza occhiali. Le parve un refrigerio sentirsi così esile, quasi impalpabile, tra il fresco delle lenzuola bianche, bianca, di fronte a tutto quel nero angoscioso tempestoso bagnato di lagrime, che involgeva e sconvolgeva la grossa cugina; e ben buffo le parve, che se lo fosse assunto lei, così, il lutto del marito, e lo avesse anche imposto a quelle due povere piccine che fortunatamente avevano l’aria di non ricordarsi più di nulla e una gran maraviglia avevano negli occhi spalancati d’esser penetrate finalmente in quella camera proibita e di veder sul letto lei che le guardava con curiosità affettuosa.

La Berardi comprende bene che le figlie non hanno capito niente di cos’è successo durante i sei anni precedenti.

Non comprendevano, certo, quelle due bambine ch’ella avesse loro fatto un gran danno, quel gran danno che la loro mamma gridava così disperatamente. Ma non c’era proprio rimedio? nessun rimedio? Lo chiese a nome delle due piccine, per risparmiar loro lo sbigottimento di tutto quel pianto e di tutte quelle grida. C’era? E dunque, perché quel pianto e quelle grida? di che si trattava? di lasciar tutto ciò che ella possedeva a quelle due piccine? Ma subito! ma pronta! Veramente, per sé, ella credeva di non possedere più altro che quell’esile filo di vita, il quale aveva soltanto bisogno di qualche goccia d’acqua, di qualche goccia di latte.

Ancora un volta, vediamo l’intelletto della Berardi, cioè, la sua capacità d’analizzare un problema con raffinatezza, considerando tutti i argomenti, e eventualmente di raggiungere una conclusione giusta ed equitabile. 

Che le importava di tutto il resto? Che le importava di lasciare agli altri ciò che non era più suo da tanto tempo? Era una faccenda difficile e molto complicata? Ah sì? e come? perché? Ma dunque davvero era una goffaggine insopportabile la vita, se una cosa così semplice poteva diventar difficile e complicata.

Il tempo passa. La cugina entra di nuovo nella stanza della Berardi, questa volta accompagnato da un notaio che ha portato un documento che richiede la sua firma.

E le parve di vedersela entrare in camera, alcuni giorni dopo, la complicata goffaggine della vita nella persona d’un notajo, il quale alla presenza di due testimonii, prese a leggerle un atto interminabile, di cui non comprese nulla. Alla fine, con molta delicatezza, si vide presentare un oggetto che non vedeva più da tanto tempo. Una penna, perché apponesse la firma a quell’atto, non solo in fondo, ma parecchie volte, in margine a ogni foglio di esso.

La Berardi, sfortunatamente, riceve né spiegazione né cortesia né rispetto né scelta. Eventualmente, firma il documento.

La sua firma?

Prese la penna; la osservò. Quasi non sapeva più reggerla tra le dita. E alzò poi in faccia al notajo i limpidi occhi di zaffiro con un’espressione smarrita e ridente. La sua firma? Aveva ancora dunque il peso d’un nome ella? un nome da lasciare là su quella carta?

Amina… e poi come? Il nome di zitella, e poi quello di maritata. Oh, e anche vedova bisognava mettere? Vedova… lei? E guardò la cugina. Poi scrisse: Amina Berardi del fu Francesco, vedova Vismara.

(Cos’altro possa fare?)

Alla fine, sebbene i dettagli di questo documento non siano chiari, sembra che il documento, con la firma della Berardi, permetterà, sì, la tenuta del Vismara esser ereditata dalle figlie (e dalla loro madre).

Rimase a contemplarla un pezzo quella sua incerta scrittura sulla carta. E le parve così buffo che si potesse credere che in quel rigo di scrittura lì ci fosse veramente lei, e che gli altri se ne potessero contentare, non solo, ma se ne beassero tanto, come d’un atto di grande generosità, che costituiva una vera fortuna per le due povere piccine vestite di nero, quella firma. Sì? E ancora, dunque! ancora… Amina Berardi del fu Francesco, vedova Vismara… Per lei era come uno scherzo, strascicare quel lungo nome goffo su per tutti quei fogli di carta bollata, come una bambina parata da grande, la lunga coda della veste di mamma.

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