Riassunto: La carriola

La novella La carriola (L. Pirandello), secondo noi, è una meravigliosa sorpresa: nessuno muore! e nessuno contempla nemmeno la morte! Inoltre, nessuno è impoverito! e nessuno viene abusato! 

Invece, il protagonista della storia ha un problema più o meno unico — qualcosa, francamente, che pochi di noi dovranno mai affrontare: lui è troppo successo per il suo bene! Vedete, il protagonista è un avvocato che gode un’enorme reputazione per eccellenza in tutta l’Italia e, di conseguenza, i suoi servizi sono molto molto molto richiesti. Tutto ciò nonostante, tuttavia, l’avvocato è infelice: crede d’esser stato imprigionato dal suo successo, intrappolato cioè dalle esigenze della sua vita professionale e familiare, e questo l’ha portato a ‘seppellire’ il suo vero carattere e la sua vera personalità. In altre parole, l’avvocato è così impegnato che non ha tempo per se stesso … lui è costretto invece dai rigidi dettami degli altri ad adottar un’immagine pubblica consistente con le esigenze del suo lavoro. 

(L’avvocato sembra soffrire da una crisi di mezza età: è diventato, in un certo senso, un attore … qualcuno costretto a recitare un ruolo che è dettata interamente dalle persone che serve. Inoltre, le esigenze del suo tempo sono inesorabili e, come tale, l’avvocato è costretto d’esser ‘always on’ o ‘always in character’.)

Come vedremo, per l’avvocato il problema è che ha iniziato a riconsiderare il prezzo che è stato costretto a ‘pagare’ in cambio del suo successo, cioè, l’ha iniziato a mettere in discussione il valore di soggiogare il suo carattere e la sua personalità ai dettami degli altri. Può darsi che sia semplicemente esausto o che non trovi il suo lavoro più interessante come prima o che non creda più nel lavoro che gli viene chiesto di fare. Ciònonostante, chiaramente, non crede più lui nell’immagine pubblica che è stato costretto a diventare — nel ‘personaggio’ cioè che gli è stato affidato dagli altri … in breve, poi, non desidera più pagare il prezzo di soggiogare il suo carattere e la sua personalità per aver successo.

Il problema ‘in a nutshell’ sembra esser quello dell’equilibrio tra un lavoro e una vita privata: come riuscirà l’avvocato a trovare lo spazio e il tempo per ‘let his hair down’ … per esser semplicemente se stesso invece dell’immagine pubblica che deve presentar alla società per aver successo? A questo proposito, immaginiamo che l’avvocato non sia così diverso da, ad esempio, i membri di The Beatles circa 1968 che, a quel punto, erano arrivato a sentirsi imprigionato dal loro successo:

“I think that by 1968 we were all a bit exhausted, spiritually. We’d been The Beatles, which was marvelous. We’d tried to not let our success go to our heads, and we were doing quite well — we weren’t getting too spaced out or arrogant — but I think generally there was a feeling of: ‘Yeah, well, it’s great to be rich, but what’s it all for?’ ” (Paul McCartney)

***

Quand’ho qualcuno attorno, non la guardo mai; ma sento che mi guarda lei, mi guarda, mi guarda senza staccarmi un momento gli occhi d’addosso.

All’inizio della novella il protagonista (un avvocato, innominato, che narra la storia) è in casa, nel suo studio, dove conduce la sua pratica privata di legge: al momento, l’avvocato si occupa delle esigenze d’un cliente mentre, al tempo stesso, ci informa della sua vecchia cagna, che ha imparato a guardarlo costantemente mentre lavora, in previsione d’un gioco che loro due giocano ogni giorno.

Impariamo che l’avvocato cerca di distrarla: in silenzio, lui sembra dire, ‘Non aspettare così, stai calma!’ Impariamo anche che il gioco è privato … un segreto altamente custodito, cioè, rigorosamente, scrupolosamente nascosto alla vista. E infine impariamo che il gioco è estremamente importante per il protagonista — un ‘piacere colpevole’, o qualcosa che è liberatrice.

Vorrei farle intendere, a quattr’occhi, che non è nulla; che stia tranquilla; che non potevo permettermi con altri questo breve atto, che per lei non ha alcuna importanza e per me è tutto. Lo compio ogni giorno al momento opportuno, nel massimo segreto, con spaventosa gioja, perché vi assaporo, tremando, la voluttà d’una divina, cosciente follia, che per un attimo mi libera e mi vendica di tutto.

Successivamente, apprendiamo che l’avvocato crede che se il gioco dovesse mai esser rivelato, sarebbero danneggiati irreparabilmente la sua reputazione e il suo continuo successo. A questo proposito, la vecchia cagna rappresenta un partner ideale, giusto? cioè, una partner che si può fidare d’esser assolutamente discreta.

Dovevo essere sicuro (e la sicurezza mi parve di poterla avere solamente con lei) che questo mio atto non fosse scoperto. Giacché, se scoperto, il danno che ne verrebbe, e non soltanto a me, sarebbe incalcolabile. Sarei un uomo finito. Forse m’acchiapperebbero, mi legherebbero e mi trascinerebbero, atterriti, in un ospizio di matti.

Anzi, apprendiamo che l’avvocato viene ricordato ogni giorno — ogni volta che guarda la vecchia cagna — quanto pericoloso sarebbe se il gioco venisse mai scoperto dagli altri.

Il terrore da cui tutti sarebbero presi, se questo mio atto fosse scoperto, ecco, lo leggo ora negli occhi della mia vittima.

Poi, veniamo a conoscenza delle inesorabili travolgenti richieste pubbliche e private che consumano il tempo dell’avvocato,

Sono affidati a me la vita, l’onore, la libertà, gli averi di gente innumerevole che m’assedia dalla mattina alla sera per avere la mia opera, il mio consiglio, la mia assistenza; d’altri doveri altissimi sono gravato, pubblici e privati:

… e il modo in cui lui deve comportarsi, cioè l’immagine pubbliche rigida, spietata, rigorosa, esigente che lui deve adottare, al fine di mantenere il suo status quo.

ho moglie e figli, che spesso non sanno essere come dovrebbero, e che perciò hanno bisogno d’esser tenuti a freno di continuo dalla mia autorità severa, dall’esempio costante della mia obbedienza inflessibile e inappuntabile a tutti i miei obblighi, uno più serio dell’altro, di marito, di padre, di cittadino, di professore di diritto, d’avvocato.

Adesso, ci rendiamo conto che quando gioca, l’avvocato è completamente fuori dal ‘personaggio’ … quasi l’opposto della sua solita immagine pubblica, e quindi qualcosa che non può permettersi di rivelare agli altri.

Guaj, dunque, se il mio segreto si scoprisse!

Noi immaginiamo che l’interesse intenso dell’avvocato nel mantenere il suo segreto possa riflettere la rigidità spietata del mondo in cui abita: solo la sua immagine pubblica è accettabile per le persone che lui serve, e non c’è spazio per l’errore: qualsiasi deviazione da quello personaggio potrebbe rovinare la sua carriera. Di conseguenza, l’avvocato si preoccupa del comportamento della vecchia cagna mentre aspetta in previsione per l’inizio del gioco!

La mia vittima non può parlare, è vero. Tuttavia, da qualche giorno, non mi sento più sicuro. Sono costernato e inquieto. Perché, se è vero che non può parlare, mi guarda, mi guarda con tali occhi e in questi occhi è così chiaro il terrore, che temo qualcuno possa da un momento all’altro accorgersene, essere indotto a cercarne la ragione.

L’avvocato ci informa che considera la sua vita finita, nel senso che lui è rimasto intrappolato in un’immagine pubblica che è al di fuori del suo controllo, un ‘personaggio’ dettato dagli altri che serve, un’immagine pubblica che non lascia spazio per lui d’esprimere se stesso, cioè, per esprimere il suo vero carattere e personalità.

Sarei, ripeto, un uomo finito. Il valore dell’atto ch’io compio può essere stimato e apprezzato solamente da quei pochissimi, a cui la vita si sia rivelata come d’un tratto s’è rivelata a me. 

E poi, l’avvocato ci parla direttamente: ci informa che è difficile spiegare il suo punto di vista … per spiegare quello che lo rende così infelice, ma che ci proverà.

Dirlo e farlo intendere, non è facile. Mi proverò.

Scopriamo che l’avvocato ha lavorato a casa nei precedenti quindici giorni, dopo esser tornato da un viaggio per lavoro a Perugia.

Ritornavo, quindici giorni or sono, da Perugia, ove mi ero recato per affari della mia professione.

L’avvocato rivela quanto fosse esausto a causa di la costante pressione e le richieste schiaccianti associate al suo lavoro: per aver successo nella vita, è stato costretto ad adottare un’immagine pubblica che differisce dal suo vero carattere e personalità.

Uno degli obblighi miei più gravi è quello di non avvertire la stanchezza che m’opprime, il peso enorme di tutti i doveri che mi sono e mi hanno imposto, e di non indulgere minimamente al bisogno di un po’ di distrazione, che la mia mente affaticata di tanto in tanto reclama. L’unica che mi possa concedere, quando mi vince troppo la stanchezza per una briga a cui attendo da tempo, è quella di volgermi a un’altra nuova.

Al termine del lavoro a Perugia, l’avvocato è tornato a casa in treno. Non era capace di riposare, tuttavia: la notevole quantità di lavoro che lui aveva portato con sé era complesso ed esigente, e richiedeva tutta la sua attenzione. Impariamo che ogni volta che incontrava un problema particolarmente complesso, distoglierebbe lo sguardo dal suo lavoro e guardava fuori dal finestrino della vettura. Non era capace di veder nulla della splendida campagna umbra tuttavia perché era impegnato a trovar una soluzione al problema che gli era stato chiesto di risolvere.

M’ero perciò portate in treno, nella busta di cuojo, alcune carte nuove da studiare. A una prima difficoltà incontrata nella lettura, avevo alzato gli occhi e li avevo volti verso il finestrino della vettura. Guardavo fuori, ma non vedevo nulla, assorto in quella difficoltà.

Anzi, l’avvocato ha commentato che mentre i suoi occhi potevano aver notato ed apprezzato la splendida campagna umbra, il suo cervello non era capace di elaborare ed interpretare le immagini … la sua attenzione si era semplicemente rivolta altrove.

Veramente non potrei dire che non vedessi nulla. Gli occhi vedevano; vedevano e forse godevano per conto loro della grazia e della soavità della campagna umbra. Ma io, certo, non prestavo attenzione a ciò che gli occhi vedevano.

Il tempo passa e finalmente l’avvocato è in grado di rilassare un po’ la sua attenzione … che gli ha permesso notare la bellezza della campagna.

Se non che, a poco a poco, cominciò ad allentarsi in me quella che prestavo alla difficoltà che m’occupava, senza che per questo, intanto, mi s’avvistasse di più lo spettacolo della campagna, che pur mi passava sotto gli occhi limpido, lieve, riposante.

Questo riposo si è rivelato molto importante, una sorta d’epifania,

Non pensavo a ciò che vedevo e non pensai più a nulla: restai, per un tempo incalcolabile, come in una sospensione vaga e strana, ma pur chiara e placida. Ariosa.

… come l’avvocato ha immaginato un’altra vita … una vita sotto il suo controllo, qualcosa che sarebbe stata guidata più o meno dal suo carattere e dalla sua personalità,

Lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi, in una lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il brulichio d’una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, non qua, non ora, ma là, in quell’infinita lontananza; d’una vita remota, che forse era stata sua, non sapeva come né quando; di cui gli alitava il ricordo indistinto non d’atti, non d’aspetti, ma quasi di desiderii prima svaniti che sorti;

Sarebbe, dunque, una vita ‘istintiva’ (o senza sforzo) … qualcosa che lui ha ipotizzato sarebbe ‘vera e reale’, cioè, l’opposto della sua vita in quel momento.

con una pena di non essere, angosciosa, vana e pur dura, quella stessa dei fiori, forse, che non han potuto sbocciare; il brulichio, insomma, di una vita che era da vivere, là lontano lontano, donde accennava con palpiti e guizzi di luce; e non era nata; nella quale esso, lo spirito, allora sì, ah, tutto intero e pieno si sarebbe ritrovato; anche per soffrire, non per godere soltanto, ma di sofferenze veramente sue.

Il tempo passa. Esausto, l’avvocato si è addormentato. Alla fine lui è stato svegliato quando il treno è arrivato alla sua destinazione. Adesso però la realtà che gli ha accolto era negativa, orrenda: in seguito all’epifania, cioè, l’avvocato sembrava aver subito una trasformazione tale che nulla sarebbe mai stato lo stesso,

Gli occhi a poco a poco mi si chiusero, senza che me n’accorgessi, e forse seguitai nel sonno il sogno di quella vita che non era nata. Dico forse, perché, quando mi destai, tutto indolenzito e con la bocca amara, acre e arida, già prossimo all’arrivo, mi ritrovai d’un tratto in tutt’altro animo, con un senso d’atroce afa della vita, in un tetro, plumbeo attonimento, nel quale gli aspetti delle cose più consuete m’apparvero come votati di ogni senso, eppure, per i miei occhi, d’una gravezza crudele, insopportabile.

… e lo spirito dell’avvocato era oscurato da questa realtà.

Con quest’animo scesi alla stazione, montai sulla mia automobile che m’attendeva all’uscita, e m’avviai per ritornare a casa.

Alla fine è arrivato l’avvocato a casa ma si è fermato davanti al portone prima d’entrare, per prendere in considerazione una targa che decriveva in modo succinto i suoi numerosi successi.

Ebbene, fu nella scala della mia casa; fu sul pianerottolo innanzi alla mia porta.

Io vidi a un tratto, innanzi a quella porta scura, color di bronzo, con la targa ovale, d’ottone, su cui è inciso il mio nome, preceduto dai miei titoli eseguito da’ miei attributi scientifici e professionali, vidi a un tratto, come da fuori, me stesso e la mia vita, ma per non riconoscermi e per non riconoscerla come mia.

Adesso, trasformato, l’avvocato ha creduto che la persona descritta nella targa era qualcuno diverso … uno con un carattere diverso, una personalità diversa.

Spaventosamente d’un tratto mi s’impose la certezza, che l’uomo che stava davanti a quella porta, con la busta di cuojo sotto il braccio, l’uomo che abitava là in quella casa, non ero io, non ero stato mai io. Conobbi d’un tratto d’essere stato sempre come assente da quella casa, dalla vita di quell’uomo, non solo, ma veramente e propriamente da ogni vita. Io non avevo mai vissuto; non ero mai stato nella vita; in una vita, intendo, che potessi riconoscer mia, da me voluta e sentita come mia.

Anzi, l’avvocato ha riconosciuto che la persona descritta nella targa deve aver avuto una forma di corpo diverso, con gli abiti strani … di sicuro, era qualcuno sconosciuto, uno modellato ed influenzato dagli altri.

Anche il mio stesso corpo, la mia figura, quale adesso improvvisamente m’appariva, così vestita, così messa su, mi parve estranea a me; come se altri me l’avesse imposta e combinata, quella figura, per farmi muovere in una vita non mia, per farmi compiere in quella vita, da cui ero stato sempre assente, atti di presenza, nei quali ora, improvvisamente, il mio spirito s’accorgeva di non essersi mai trovato, mai, mai! Chi lo aveva fatto così, quell’uomo che figurava me? chi lo aveva voluto così? chi così lo vestiva e lo calzava? chi lo faceva muovere e parlare così? chi gli aveva imposto tutti quei doveri uno più gravoso e odioso dell’altro?

Poi, l’avvocato ha respinto con forza la persona descritta nella targa: ha messo in dubbio il percorso che lui ha seguito nella vita … le scelte che ha fatto lungo la strada.

Commendatore, professore, avvocato, quell’uomo che tutti cercavano, che tutti rispettavano e ammiravano, di cui tutti volevan l’opera, il consiglio, l’assistenza, che tutti si disputavano senza mai dargli un momento di requie, un momento di respiro – ero io? io? propriamente? ma quando mai? E che m’importava di tutte le brighe in cui quell’uomo stava affogato dalla mattina alla sera; di tutto il rispetto, di tutta la considerazione di cui godeva, commendatore, professore, avvocato, e della ricchezza e degli onori che gli erano venuti dall’assiduo scrupoloso adempimento di tutti quei doveri, dell’esercizio della sua professione?

Poi, l’avvocato ci spiega che una parte di ciò che lo ha imprigionato — di ciò che gli ha impedito d’esprimere il suo carattere e la sua personalità — era dietro il portone, cioè, la sua famiglia.

Ed erano lì, dietro quella porta che recava su la targa ovale d’ottone il mio nome, erano lì una donna e quattro ragazzi, che vedevano tutti i giorni con un fastidio ch’era il mio stesso, ma che in loro non potevo tollerare, quell’uomo insoffribile che dovevo esser io, e nel quale io ora vedevo un estraneo a me, un nemico.

Impariamo che l’avvocato ha ipotizzato che la sua famiglia fosse stata creata sotto preteste false: data la sua epifania, l’avvocato non èra capace di riconoscere più l’uomo (marito e padre) che viveva in questa casa … veramente, non riconosceva più sua moglie e suoi figli.

Mia moglie? i miei figli? Ma se non ero stato mai io, veramente, se veramente non ero io (e lo sentivo con spaventosa certezza) quell’uomo insoffribile che stava davanti alla porta; di chi era moglie quella donna, di chi erano figli quei quattro ragazzi? Miei, no! Di quell’uomo, di quell’uomo che il mio spirito, in quel momento, se avesse avuto un corpo, il suo vero corpo, la sua vera figura, avrebbe preso a calci o afferrato, dilacerato, distrutto, insieme con tutte quelle brighe, con tutti quei doveri e gli onori e il rispetto e la ricchezza, e anche la moglie, sì, fors’anche la moglie…

Ma i ragazzi?

Mi portai le mani alle tempie e me le strinsi forte.

No. Non li sentii miei. Ma attraverso un sentimento strano, penoso, angoscioso, di loro, quali essi erano fuori di me, quali me li vedevo ogni giorno davanti, che avevano bisogno di me, delle mie cure, del mio consiglio, del mio lavoro; attraverso questo sentimento e col senso d’atroce afa col quale m’ero destato in treno, mi sentii rientrare in quell’uomo insoffribile che stava davanti alla porta.

(A questo punto della storia siamo arrivati a comprendere la gravità della situazione: l’avvocato sembra esser pronto a ‘blow up’ sia la sua carriera formidabile che la sua vita personale.)

Alla fine, l’avvocato è arrivato in casa,

Trassi di tasca il chiavino; aprii quella porta e rientrai anche in quella casa e nella vita di prima.

… ed all’entrata si è ricordato della sua epifania: della necessità di vivere istintivamente, libero, in controllo, senza calcoli, fedele al proprio carattere e alla propria personalità, senza i dettami degli altri.

Ora la mia tragedia è questa. Dico mia, ma chi sa di quanti!

Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Perché ogni forma è una morte.

Poi, lui ha osservato che pochi altri nella società sarebbero stati in grado di comprendere il suo nuovo punto di vista. La saggezza convenzionale, in altre parole, era che tutti noi vogliamo avere successo: vale a dire che tutti noi vogliamo impegnare la società e fare tutto necessario per aver successo, cioè pagare qualsiasi prezzo e fare qualsiasi compromesso necessario per aver successo. Come una conseguenza della sua epifania, dunque, l’avvocato era essenzialmente da solo nel mondo … l’esatt’opposto, notiamo, di quello che era prima del viaggio a Perugia.

Pochissimi lo sanno; i più, quasi tutti, lottano, s’affannano per farsi, come dicono, uno stato, per raggiungere una forma; raggiuntala, credono d’aver conquistato la loro vita, e cominciano invece a morire. Non lo sanno, perché non si vedono; perché non riescono a staccarsi più da quella forma moribonda che hanno raggiunta; non si conoscono per morti e credono d’esser vivi. Solo si conosce chi riesca a veder la forma che si è data o che gli altri gli hanno data, la fortuna, i casi, le condizioni in cui ciascuno è nato. Ma se possiamo vederla, questa forma, è segno che la nostra vita non è più in essa: perché se fosse, noi non la vedremmo: la vivremmo, questa forma, senza vederla, e morremmo ogni giorno di più in essa, che è già per sé una morte, senza conoscerla. Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi è morire.

Data la sua trasformazione, l’avvocato ora si rese conto che sua casa era arrivata a rappresentare una parte di ciò che lo infastidiva, di ciò che lo stava rendendo infelice. In altre parole, la sua casa era diventata a rappresentar il luogo fisico in cui era stato imprigionato dal suo successo.

Il mio caso è anche peggiore. Io vedo non ciò che di me è morto; vedo che non sono mai stato vivo, vedo la forma che gli altri, non io, mi hanno data, e sento che in questa forma la mia vita, una mia vera vita, non c’è stata mai. Mi hanno preso come una materia qualunque, hanno preso un cervello, un’anima, muscoli, nervi, carne, e li hanno impastati e foggiati a piacer loro, perché compissero un lavoro, facessero atti, obbedissero a obblighi, in cui io mi cerco e non mi trovo. E grido, l’anima mia grida dentro questa forma morta che mai non è stata mia: «Ma come? io, questo? io, così? ma quando mai?». E ho nausea, orrore, odio di questo che non sono io, che non sono stato mai io; di questa forma morta, in cui sono prigioniero, e da cui non mi posso liberare. Forma gravata di doveri, che non sento miei, oppressa da brighe di cui non m’importa nulla, fatta segno d’una considerazione di cui non so che farmi; forma che è questi doveri, queste brighe, questa considerazione, fuori di me, sopra di me: cose vuote, cose morte che mi pesano addosso, mi soffocano, mi schiacciano e non mi fanno più respirare.

Ben presto, l’avvocato si rese conto del triste stato di vita sua: era da solo al mondo, imprigionato dai dettami degli altri, vivendo in un modo che non riusciva a riflettere il suo vero carrattere. 

Liberarmi? Ma nessuno può fare che il fatto sia come non fatto, e che la morte non sia, quando ci ha preso e ci tiene.

Ci sono i fatti. Quando tu, comunque, hai agito, anche senza che ti sentissi e ti ritrovassi, dopo, negli atti compiuti; quello che hai fatto resta, come una prigione per te. E come spire e tentacoli t’avviluppano le conseguenze delle tue azioni. E ti grava attorno come un’aria densa, irrespirabile la responsabilità, che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non prevedute, ti sei assunta. E come puoi più liberarti? Come potrei io nella prigione di questa forma non mia, ma che rappresenta me quale sono per tutti, quale tutti mi conoscono e mi vogliono e mi rispettano, accogliere e muovere una vita diversa, una mia vera vita? una vita in una forma che sento morta, ma che deve sussistere per gli altri, per tutti quelli che l’hanno messa su e la vogliono così e non altrimenti? Dev’essere questa, per forza. Serve così, a mia moglie, ai miei figli, alla società, cioè ai signori studenti universitarii della facoltà di legge, ai signori clienti che m’hanno affidato la vita, l’onore, la libertà, gli averi. Serve così, e non posso mutarla, non posso prenderla a calci e levarmela dai piedi; ribellarmi, vendicarmi, se non per un attimo solo, ogni giorno, con l’atto che compio nel massimo segreto, cogliendo con trepidazione e circospezione infinita il momento opportuno, che nessuno mi veda.

(Secondo noi, l’avvocato sembrava esser un attore … qualcuno che aveva assunto il personaggio d’un’altra persona. Sfortunatamente per l’avvocato, non è mai stato capace di ‘lasciare il palco’ … to ‘turn off’ il personaggio.)

Il tempo passa, e la nostra attenzione si rivolge alla vecchia cagna dell’avvocato: ci informa che l’ha vissuta con la famiglia per undici anni.

Ecco. Ho una vecchia cagna lupetta, da undici anni per casa, bianca e nera, grassa, bassa e pelosa, con gli occhi già appannati dalla vecchiaja.

Poi impariamo anche che l’avvocato e la cagna hanno avuto una relazione tenue in parte perché l’avvocato ha richiesto completo silenzio in casa mentre lavorava.

Tra me e lei non c’erano mai stati buoni rapporti. Forse, prima, essa non approvava la mia professione, che non permetteva si facessero rumori per casa;

L’avvocato ci informa anche che la vecchia cagna ha imparato come trarre vantaggio dal ‘sistema’, in particolare ha imparato come trovar uno spazio ‘libero’ dal gioco duro dei figli.

s’era messa però ad approvarla a poco a poco, con la vecchiaja; tanto che, per sfuggire alla tirannia capricciosa dei ragazzi, che vorrebbero ancora ruzzare con lei giù in giardino, aveva preso da un pezzo il partito di rifugiarsi qua nel mio studio da mane a sera, a dormire sul tappeto col musetto aguzzo tra le zampe. Tra tante carte e tanti libri, qua, si sentiva protetta e sicura. Di tratto in tratto schiudeva un occhio a guardarmi, come per dire:

– Bravo, sì, caro: lavora; non ti muovere di lì, perché è sicuro che, finché stai lì a lavorare, nessuno entrerà qui a disturbare il mio sonno.

Adesso arriviamo a capire che l’avvocato ha giocato il gioco segreto con la cagna ogni giorno dei quindici giorni precedenti.

Così pensava certamente la povera bestia. La tentazione di compiere su lei la mia vendetta mi sorse, quindici giorni or sono, all’improvviso, nel vedermi guardato così.

Il gioco è descritto … Oh Mio Dio! è un ridicolo po’ della stupidità! … una cosa banale, sì, ma anche, forse, il primo passo che il protagonista compirà per ottenere una sorta d’equilibrio in vita sua.

Non le faccio male; non le faccio nulla. Appena posso, appena qualche cliente mi lascia libero un momento, mi alzo cauto, pian piano, dal mio seggiolone, perché nessuno s’accorga che la mia sapienza temuta e ambita, la mia sapienza formidabile di professore di diritto e d’avvocato, la mia austera dignità di marito, di padre, si siano per poco staccate dal trono di questo seggiolone; e in punta di piedi mi reco all’uscio a spiare nel corridojo, se qualcuno non sopravvenga; chiudo l’uscio a chiave, per un momentino solo; gli occhi mi sfavillano di gioja, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d’esser pazzo, d’esser pazzo per un attimo solo, d’uscire per un attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di distruggere, d’annientare per un attimo solo, beffardamente, questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia; corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto; piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non più, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro.

E poi, proprio così, il gioco è finito … il segreto è rimasto intatto così come la reputazione dell’avvocato.

Questo è tutto. Non faccio altro. Corro subito a riaprire l’uscio adagio adagio, senza il minimo cricchio, e mi rimetto in trono, sul seggiolone, pronto a ricevere un nuovo cliente, con l’austera dignità di prima, carico come un cannone di tutta la mia sapienza formidabile.

La storia sembra finire con una nota di speranza. Abbiamo tutti i motivi per credere che alla fine l’avvocato troverà un posto per la sua vita professionale / personale e anche un luogo sicuro dove può esprimere il suo carattere e la sua personalità.

Ma, ecco, la bestia, da quindici giorni, rimane come basita a mirarmi, con quegli occhi appannati, sbarrati dal terrore. Vorrei farle intendere – ripeto – che non è nulla; che stia tranquilla, che non mi guardi così.

Comprende, la bestia, la terribilità dell’atto che compio.

Non sarebbe nulla, se per ischerzo glielo facesse uno dei miei ragazzi. Ma sa ch’io non posso scherzare; non le è possibile ammettere che io scherzi, per un momento solo; e seguita maledettamente a guardarmi, atterrita.

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