Riassunto: Padron Dio

La novella Padron Dio (L. Priandello) racconta la storia d’un vecchio (il protagonista)—un ex pastore soprannominato Guidè, il cui carattere e personalità sono informati e dominati dalla sua fede cristiana. In effetti, la vita di Giudè sembra esser stata modellata sulla vita di Gesù, come trasmessa dalla Bibbia.

***

Tanti anni fa, a un pittore non si sa donde venuto, egli che viveva da selvaggio sú per le spalle dei monti, guardiano di mandrie, si era prestato a far da modello per una pala d’altare, di cui quegli preparava i cartoni e altri studii preliminari.

Il narratore di Padron Dio, che è innominato, spiega che la storia che sta per raccontarci era accaduta molti anni fa … molto probabilmente, immaginiamo, nelle campagne del sud Italia. All’inizio della storia, ci viene detto che una nuova chiesa era stata costruita (e presto si sarebbe aperta) e che un pittore era stato assunto per creare una pala d’altare. Il tema di questa opera d’arte era la tortura di Cristo prima della sua morte per crocifissione. Il pittore aveva appena iniziato a lavorare a questo progetto e, a tal fine, aveva chiesto a un uomo del posto, un pastore che viveva in estrema povertà nelle campagne, di servire come un modello per gli schizzi preparatori del pittore ed altri studi preliminari.

Il narratore poi spiega che il pastore non era a conoscenza (perché non si era preoccupato di chiedere) esattamente come i suoi sforzi avrebbero dovuto contribuire alla pala d’arte finale. Impariamo che il pittore aveva inteso rappresentare una scena che era allo stesso tempo violenta e cruda. Da parte sua, al pastore era stato chiesto d’indossare uno costume strano e di tenere una verga mentre posava … chiaramente, gli era stato chiesto di rappresentare uno dei partecipanti alla violenza della scena.

Che parte fosse destinato a rappresentare in quel quadro sacro, non si era neppur curato di sapere: si era lasciato vestire di strana foggia e atteggiar d’un gesto violento, con una verga in mano.

Alla fine, la pala d’altare era completata ed accettata dai dirigenti della chiesa nuova. Dopo la sua installazione, era annunciata una celebrazione in cui la chiesa sarebbe consacrata e la pala d’altare svelata. (Questo evento, ovviamente, era stato anticipato dalla comunità con grande interesse.) Tuttavia, al momento della inaugurazione il pastore era inorridito nel vedere che la sua somiglianza era stata rappresentata fedelmente nella figura d’uno dei torturatori di Cristo! … Questo era un anatema! … Certamente era molto più di quanto il povero pastore potesse tollerare, ed in breve tempo aveva creato una rumorosa scena di protesta! (rumorosaaaaa!)

Ma, poco dopo, consacrata la chiesa nuova, e accorso egli con tutto il popolo alla prima funzione, vedendosi nella pala effigiato in uno dei giudici che colpivan Gesú legato alla colonna, s’era messo a gridar furibondo e a piangere e a strapparsi i capelli, pestando i piedi per terra:

— Levatemi di lí! Son cristiano!

(Immaginiamo che il pittore avesse creato una scena simile a quella mostrata sotto, di Caravaggio, intitolata “Incoronazione di spine”:

“Incoronazione di spine” è un dipinto di Caravaggio, realizzato nel 1603. Gli Evangelisti riferiscono che prima della crocifissione, una corona di spine era posta sulla testa di come ‘Re dei Giudei’. Per sbeffeggiare la sua ‘regalità’ gli era anche messa in mano una canna come scettro e una veste scarlatta attorno alle sue spalle. Nel dipinto, Caravaggio immagina le canne utilizzate dallo scagnozzo di Pilato per tormentare Cristo dello stesso materiale dello scettro. Cristo è circondato ma sembra completamente assorto in se stesso, rassegnato al suo destino. L’uomo appoggiato al parapetto vestito in abiti del tempo esprime ‘compassione’ attraverso la sua posizione nel dipinto, la sua posa che fa eco a quella di Cristo e la sua mano che quasi tocca la mano del Figlio di Dio.)

Come si può facilmente immaginare, lo sfogo del pastore aveva, per non dire altro, interrotto lo svelamento della pala d’altare. (Il pastore ha persino annunciato la sua intenzione di uccidere il pittore per vendetta per quello che era stato fatto!) Nel tempo, tuttavia, il pastore è stato in grado di calmarsi … specialmente una volta che gli era stato assicurato che la pala d’altare sarebbe stata rivista in modo che la sua somiglianza sarebbe sostituita dalla somiglianza d’un altro.

Tratto fuori fra la confusione generale (risa di quelli che lo avevano ravvisato nella pala e domande e supposizioni disparate degli altri che non se n’erano accorti), non si era calmato e non aveva smesso la minaccia di uccidere quel pittore insolente, finché dal vecchio mansionario della nuova chiesa non aveva ottenuto la promessa d’un ritocco alla immagine di quel giudeo per modo che ogni somiglianza con lui fosse cancellata.

E poi, il narratore spiega che, in seguito a questo incidente, i cittadini del villaggio avevano dato al pastore il soprannome ironico di Giudè … un soprannome che il pastore aveva accettato volentieri e che gli era rimasto affezionato da quel momento.

Non pertanto, il nomignolo di Giudè gli era rimasto; e ora, dopo tant’anni, chiamavasi Giudè lui stesso. Ma cosí il volto come la persona avevan perduto quell’espressione di dura fierezza per cui il pittore lo aveva scelto a rappresentar nella pala quella parte odiosa.

A questo punto, la storia del narratore ‘fasts forward’ mentre ci informa che Giudè era ormai un vecchio che era stato ridotto per chiedere l’elemosina: era semplicemente troppo frail per prendersi cura del suo gregge.

Era vecchio ormai il Giudè e non piú buono neppur da condurre al pascolo le mandrie: viveva di elemosina, senza mai chiederla, o meglio, chiedendola in un modo suo particolare.

Il narratore spiega che Giudè aveva adottato uno stile particolare nel chiedere l’elemosina, in cui si concentrava sui ricchi e potenti proprietari terrieri della regione e si era assegnato il ruolo del loro ‘l’esattore’.

Spinto dalla fame, dopo aver vagato come un cane randagio per le pianure deserte, si appressava a una villa e al primo contadino in cui s’imbattesse diceva:

— Dì al tuo padrone che c’è l’esattore.

Il narratore ci informa che la richiesta di Giudè è stata compresa dalla maggior parte dei suoi simili non solo come un commento sugli insegnamenti di Cristo ma anche come un commento sulla giustizia sociale. Dopotutto, Giudè sembrava essere dell’opinione che i padroni che possedevano le grandi tenute (cioè, i grandi tratti di terra nelle campagne) avevano scelto non solo d’ignorare la presenza terrena di Dio, ma anche li insegnamenti di Cristo sull’importanza di umiltàpovertàcarità ed umanità. A questo proposito, Giudè sembrava anche credere che le grandi tenute avessero creato, in effetti, un sistema di governo ingiusto, caratterizzato dalla presenza d’una classe dirigente dei ricchi e potenti e una classe soggiogata di lavoratori che erano impoveriti. Il punto di vista di Guidè era che Dio era l’unico vero padrone qui sulla terra, cioè l’unico vero padrone di tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro posizione sociale.

Un’altr’idea. Giudè sembrava anche credere ferventemente che tutti gli umani dovessero fare i sacrifici qui sulla terra per ottenere l’accesso al Cielo. A questo proposito, era dell’opinione che i contadini della classe operaia fossero abituati a fare sacrifici ogni giorno quindi Giudè aveva scelto di non chiedere loro la carità. Invece, ha scelto di raccogliere una crosta di pane dai ricchi e potenti padroni.

Tutti adesso intendevano e sorridevano, ma la prima volta che il Giudè usò questa frase per la sua questua dovè spiegarla. E la spiegò cosí: che noi tutti sulla terra siamo inquilini del Signore, il quale sarebbe per ciascuno allo stesso modo buon padrone di casa, se molti uomini non si fossero fatta della terra casa propria, senza volere intendere né riconoscere che essa dovrebbe invece esser casa comune. Debbono però questi tali ricordarsi che il Signore è pur padrone di un’altra casa, di là (e il Giudè aveva additato il cielo), della quale vuol che ciascuno paghi anticipata qui la pigione. I poveri la pagano coi patimenti quotidiani del freddo e della fame; basta ai ricchi, per pagarla, che facciano ogni tanto un po’ di bene. Ecco dunque perché egli era pei ricchi l’esattore.

Poi, il narratore racconta una storia che ha messo in evidenza la rigida e rigorosa aderenza di Giudè agli insegnamenti di Gesù. Si scopre che anni fa, senza chiedere il permesso, Giudè aveva coltivato una serie di alberi da frutto (cioè, olive, ciliegie, nespole e melograno) su qualche terrena inutilizzata ed incolta nella campagna. Nel corso del tempo, gli alberi erano maturati ed erano notevolmente produttivi. La domanda per Giudè era, ‘Gli alberi mi appartengono?’ La sua risposta era: ‘No, non lo fanno’. Al contrario, Giudè credeva che gli alberi facessero parte della terra … in altre parole, non appartengono a nessun uomo, ma piuttosto alla natura e a Dio.

Ottenuta l’elemosina in natura, si allontanava; e, andando, riconosceva qua e là per la campagna gli alberi che avrebbero dovuto esser suoi: suoi, perché quell’ulivo, quel ciliegio, quel nespolo, quel melograno eran nati per lui che tant’anni addietro, passando, aveva scavato e buttato il seme alla terra; e la terra, ecco, gli aveva dato l’albero; lo aveva dato a lui … Perché la terra sa forse a chi appartenga?

Il narratore continua dicendo che Giudè aveva ancora un ‘affetto paterno’ per questi alberi e che era giustamente orgoglioso del modo in cui avevano prosperato. Inoltre, quel giorno, non diversamente da tutti gli altri giorni, Giudè era affamato, e gli era venuto in mente che avrebbe dovuto esser autorizzato a raccogliere almeno uno dei frutti. Anzi, gli alberi sembravano offrirgli i loro frutti in segno di apprezzamento. Tuttavia, Giudè si è rifiutato di soccombere alla tentazione: la sua convinzione nella necessità del sacrificio era più potente quel giorno della sua fame.

Ed egli per quegli alberi aveva affetto paterno: gli parevano i piú belli e i piú rigogliosi di tutta la campagna; e si fermava ad ammirarli a lungo e scoteva il capo folto di capelli grigi, ricci, quasi ferruginei. I rami sovraccarichi lo invitavano a cogliere almeno un frutto, poiché tutti eran suoi (ah, essi lo sapevano bene!) — ecco, e glieli offrivano … Ma lui, no: non cedeva alla tentazione; sospirando abbassava la mano che già s’era levata.

E poi, il narratore ha amplificato l’idea dell’impegno di Giudè nella povertà, spiegando che era un senzatetto; che aveva scelto di dormire in una rovina abbandonata in campagna; che vagava per la campagna senza meta, giorno dopo giorno; e che trovava conforto e ha preso consolazione nella sua solitudine e nel silenzio di ciò che lo circondava, un silenzio che era interrotto solo occasionalmente.

Cosí, per le campagne altrui, viveva senza tetto.

Dormiva in un casale smantellato e abbandonato; si destava all’alba e si metteva a errar senza meta, per le solitudini immense e pur piene di tanta vita, in quel silenzio palpitante di foglie e d’ali, a ora a ora tentato dal trillo d’un uccello che s’allontanava.

Sdrajato per terra, s’immergeva in quel silenzio e guardava i fili d’erba che si movevano appena, di tanto in tanto, a un alito d’aura; guardava qualche lucertola che si beava del sole sopra una pietra, e le farfalle bianche che volitavan sicure in tanta pace.

(A questo punto della storia, comprendiamo che Giudè era devoto e che il suo carattere e la sua personalità erano rigorosamente informati e severamente governati dalla sua fede e dalla sua comprensione del significato della vita di Gesù. Inoltre, il suo carattere e la sua personalità non erano né ambigui né incoerenti, qualcosa di cui sospettiamo ha portato al riluttante rispetto dei suoi pari. Immaginiamo anche che Giudè fosse una figura unica nella sua comunità. Certamente, per i padroni della classe dirigente la sua vita sembrava rappresentare un rimprovero costante … in un certo senso, Giudè era l’antitesi d’un padrone.)

Adesso, il narratore spiega che Giudè era diventato gradualmente consapevole d’altri appezzamenti di terra inutilizzata nella campagna. (Erano appezzamenti di terra che apparentemente non potevano esser facilmente coltivati per una ragione o l’altra). Giudè in realtà non aveva idea di chi potesse aver posseduto questa terra inutilizzata … anzi, aveva notato con un certo grado d’ironia che la terra (cioè, la natura o Dio) sembrava ‘recuperare’ questa terra nella forma d’un erbacce invasivo e pervasivo inutile per l’uomo o l’animale.

O perché mai nascevano certe erbe? Non per gli uomini, certo, né per le bestie, che non ne mangiavano … Nascevano perché Dio le voleva e la terra le faceva, senza curarsi del dispiacere che recava agli uomini prepotenti, i quali credono d’aver dominio su lei; tanto è vero che, strappate, tornava a farle; e lí che nessuno le toccava, esse crescevano senza fine — come la terra le voleva …

Giudè, dopo aver fatto quest’osservazione, ha poi fatto un’analogia tra l’erbaccia e la sua stessa vita.

“Dio ha voluto anche me,” il Giudè pensava “e intanto non ho un palmo di terra in cui mi possa stare, dicendo: è mio. Son come quest’erbacce, che nessuno vuole nel proprio campo. Solo dov’esse crescono indisturbate posso stare anch’io. Vuol dire che il padrone non c’è o non se ne cura.”

Nel corso del tempo, i pensieri di Giudè sulla terra non coltivata hanno cominciato a ‘take hold’. È arrivato a credere che non fosse diverso dall’erbaccia che aveva occupato questa terra, e alla fine si è chiesto, ‘Cosa succederebbe se, invece dell’erbaccia, io dovessi occupare e tentare di coltivare questa terra che ha rimasto incolta per così tanto tempo?’

Parecchie volte era stato colpito da questa idea. Conosceva certe terre abbandonate, per cui non passava mai anima viva, e nelle quali egli, dacché era vivo, cioè per tant’anni che non si ricordava il numero, aveva sempre veduto quell’erbacce; né mai alcuna traccia, anche lontana, di coltivazione; né mai alcun segno, anche antico, del dominio di qualcuno. Quelle terre adunque, da tempo almeno per lui immemorabile, appartenevano a se stesse, libere di produrre, non quel che gli uomini vogliono, ma quel che a loro piaceva.

Giudè ha compreso bene che la terra incolta doveva prima esser preparato per la coltivazione. Inoltre, ha deciso che avrebbe provato a coltivare il frumento. Prima d’iniziare il progetto, ha anche considerato i problemi che potrebbero sorgere se avesse scelto un appezzamento di terra che apparteneva effettivamente a un padrone. Per evitare questo problema, ha semplicemente deciso di stare attento … cioè, ha deciso di nascondere i suoi sforzi agli altri nel miglior modo possibile.

“E se io” pensava il Giudè “da un lembo qui nel mezzo, che nessuno se n’accorga, strappo le male erbe, e vi butto un pugno di frumento, non mi darà questa terra un po’ di grano? Lo darebbe a me come a chiunque … Il padrone, ammesso che ci sia, è chiaro che ha sempre rinunziato a trar da questo podere qualsiasi profitto. Non sarà lo stesso per lui se in un pezzetto qui in giro, invece di sterpi inutili, crescerà un po’ di grano per me? Egli, queste terre le ha abbandonate, né io me le piglio: farò soltanto che un breve tratto di esse, almeno per una volta, invece di sterpi inutili produca grano … Del resto, chi è il padrone?”

Alla fine Giudè si è convinto: aveva deciso di creare un campicello di frumento da un appezzamento di terra incolta. E adesso, quando ha fatto il suo giro chiedendo una crosta di pane, ha anche chiesto una manatella di frumento.

Vinto da questa idea, il Giudè nelle sue questue si mise d’allora in poi a chiedere, oltre al tozzo di pane consueto, una manatella di frumento.

— O che ha rincarato la pigione padron Dio, Giudè? — gli domandavano scherzando i fattori delle ville, a cui egli si presentava da esattore.

Il Giudè, sorridendo umilmente, si stringeva nelle spalle:

— Se volete…

Il lavoro necessario per preparare il campicello per la coltivazione era estenuante. Giudè ha fatto del suo meglio con il semplice strumento che aveva preso in prestito. Sebbene avesse dei dubbi, confidava che i suoi sforzi fossero sufficienti.

E intanto che raccoglieva cosí da seminare, apparecchiava lí, nella solitudine, il terreno — oh, alla meglio, sprovvisto com’era degli arnesi necessari. Aveva soltanto un logoro marrello, tolto in prestito, col quale, zappettando, cavò prima via l’erbacce maligne; poi scavò, scavò quanto piú a fondo gli permise la forza delle povere braccia sfibrate dagli stenti e dalla vecchiaja: e questo al terreno doveva bastare. Non al suo desiderio però, che gli faceva seguir con gli occhi invidiando l’opera degli aratri negli altri campi e i seminatori che gittavano il grano fiduciosi nel lavoro coscienziosamente fornito. Ah, egli non aveva nemmeno potuto incalcinare i semi, perché non involpassero: li aveva cosí, quasi alla ventura, consegnati alle zolle appena appena rimosse …

Poco dopo, il frumento era stato seminato e le prime piogge primaverili erano arrivate. Poco dopo, Giudè era in grado di veder chiaramente le prime prove che il suo grano aveva messo radici e germogliato.

Vennero le prime acque, e il Giudè, udendo dal suo covo notturno scrosciar la pioggia, pensò che anche su quel suo lembo di terra in quel momento pioveva … Poi, con un gaudio che lo fece lagrimare, vide il grano sbullettare e poi dalla terra umida spuntar timide le prime pipite. Ah, ecco, ecco, la terra gli dava il grano! era suo! Poi guardò il cielo donde l’acqua benefica era caduta anche per lui, anche per quel suo primo tesoro; ma la vista del cielo lo sconsolò: avrebbe voluto vederlo cosí basso da chiudere e nascondere quel piccolo lembo coltivato, perché nessuno lo scoprisse, lí, tra quelle erbacce intorno.

Il suo frumento ha prosperato. Affascinato, Giudè non ha potuto più fare a meno di vegliare sul suo campo … anche se il tempo quella primavera era severo e lui era esposto.

E man mano le pipite sfronzarono, accestirono. E ormai il Giudè non sapeva staccarsi piú da quel pezzetto di terra, nonostante il freddo acuto e le intemperie: quasi covava con gli occhi quel suo grano; e nel vedere l’aura avvivare di tremiti le tenere foglioline, tutta l’anima gli tremava.

Poi, una mattina, Giudè si è svegliato con quasi nessun energia affatto. Il suo sonno la notte prima era stato interrotto dai sogni (che potrebbero essere stati indotti dalla febbre). Quella mattina Giudè era ovviamente febbrile e ha manifestato altri segni / sintomi d’un’infezione acuta.

Se non che, un giorno di quelli, non si sentí la forza di sbucare dal casale abbandonato in cui s’era fatto il covo. 

Il sole era già alto, e il Giudè, seduto per terra, con le spalle al muro, le ginocchia abbracciate, guardava innanzi a sé, stordito ancora dai sogni della notte, e tremava tutto di freddo e i denti gli battevano.

Come risultato dell’infezione, Giudè ‘slipped’ dentro e fuori dalla coscienza, e quando privo di sensi, ha continuato a sognare … per esempio, d’un raccolto abbondante in autunno.

Che era avvenuto? Dov’era il suo campicello? E i granaj dov’erano? Tutti quei granaj pieni, con tanti e tanti misuratori allegri che davan via frumento, frumento, frumento, cantando e senza togliere con la rasiera il colmo dello stajo? E quella povera donna che era accorsa con un grembiale bucato, donde giú tutti i chicchi scorrevano cosí a sgorgo, che la grembiata si votava prima ch’ella raggiungesse la porta del granajo? Ah, la poverina tornava sempre indietro, daccapo, disperatamente, urtata, spinta tra la ressa degli altri poveri accorrenti senza fine, e mai nessun chicco le restava in grembo …

— Date via! date via! — incitava il Giudè i misuratori.

— Cosí mi pago la pigione dell’altra casa del Signore, lassú …

E i granaj non si votavano mai: dalle finestre in alto, sopra i mucchi addossati alle pareti, il frumento sgorgava, veniva giú come cascata d’acqua, continuamente, frusciando. E ora, ecco, quel fruscío continuo nel sogno gli era rimasto nelle orecchie … Ah, la febbre! egli aveva la febbre, e tremava di freddo.

Alla fine, Giudè ha provato ad alzarsi, ma è crollato poco dopo aver fatto qualche passo. Non capiamo cos’è successo dopo—ma presumibilmente il corpo privo di sensi di Giudè è stato scoperto da un contadino, che l’ha trasportato in un ospedale. Quando Giudè riprese conoscenza, era in ospedale sotto la cura di medici ed infermieri.

Si levò in piedi a stento: vacillava … Si trascinò fuori del casale diruto per ritornare al campicello lontano, ma dopo un breve tratto di cammino s’accasciò, in un completo abbandonamento di membra.

Si ritrovò dopo alcuni giorni, stupito e sgomento, su un lettuccio d’ospedale, in un lungo camerone silenzioso. 

“Ah, è segno che son morto, se mi hanno accolto qui” pensò il Giudè.

Giudè era molto malato.

La testa gli pesava come se fosse di piombo, e non aveva forza neanche d’aprir le pàlpebre. Quel filo d’anima che gli restava si rincantucciò sotto la superstiziosa paura che il luogo gl’ispirava; ed egli abbandonò disajutato il vecchio corpo affranto e inerte alle cure dei medici e degli infermieri, senza neppur domandare che male avesse.

In ospedale, Giudè ha continuato a ‘slip’ dentro e fuori dalla coscienza e, quando privo di sensi, ha continuato a sognare—per esempio, del suo campicello di frumento, che immaginava avesse continuato a prosperare ed era pronto per essere raccolto.

Con gli occhi chiusi, tutto rannicchiato quasi per schermirsi dai brividi incalzanti della febbre, spingeva il pensiero lontano lontano, al campicello suo; e lí, sovr’esso, a poco a poco s’addormentava. Attorno a lui, allora, sentiva e vedeva il grano già accestito mandar sú sú sú il gambo della spiga … ma troppo alto … non cosí, possibile? ogni gambo piú alto d’un pioppo? Il Giudè, smaniando, voleva impedir quel rigoglio dispettoso e inverosimile, ma non poteva: i gambi gli si allungavano da ogni lato, visibilmente, fino a quella altezza, l’uno dopo l’altro, e a poco a poco lo seppellivano. Ora, smaniando l’aria, il Giudè si rizzava, ma – o stupore! – anch’egli era piú alto assai delle spighe … Si guardava attorno smarrito, poi guardava il cielo, ed ecco la luna, a portata della sua mano: alzava un braccio e la prendeva e con essa si metteva a falciare. Poi, tutt’a un tratto, il sogno crollava, e il Giudè si destava di soprassalto.

In alternativa, tuttavia, Giudè ha sognato d’un campicello di frumento che aveva quasi fallito, che non era in grado di prosperare nel clima severo di quella primavera. Era un campicello che, secondo lui, doveva esser raccolto immediatamente, prima che il raccolto andasse perso per sempre.

Vedeva allora in contrapposto venir sú gracile e pallido e rado il suo grano e i poveri gambi acquattati dalla pioggia o spezzati dal vento… E sospirava: — L’aratro! ci voleva l’aratro! … — Ché certo la terra da quel suo logoro marrello non si era neppur sentita vellicare …

Ha passato il tempo e la sua infezione ha man mano iniziato a ridursi in intensità. Questa volta, quado ha ripreso conoscenza, era disorientato … ha immaginato che fosse la fine dell’estate.

Intanto i giorni passavano, ma non le febbri al Giudè. Aveva perduto la memoria del tempo, e non chiedeva nemmeno in che stagione si fosse, per paura che gli rispondessero: è finita l’estate.

Tutto ciò nonostante, quando Giudè ha guardato fuori dalla finestra della sua stanza d’ospedale, si rese conto che poteva sbagliarsi. Ha cominciato anche a preoccuparsi che il suo campicello di frumento potesse esser stato scoperto mentre era in ospedale. Ma era anche preoccupato per la possibilità che il campicello non fosse stato scoperto (che a sua volta lo ha portato a preoccuparsi della sua possibile abbandono).

Si provava a levare un po’ il capo dal guanciale per guardar sopra gli altri letti l’ampia finestra in fondo al camerone: intravedeva appena il cielo limpido fiammante di sole. Ma forse era ancor primavera. “Chi sa però:” pensava il Giudè “qualcuno forse, passando di là, avrà scoperto tra le erbacce il grano, e l’avrà fatto suo … Ma se poi nessuno lo scopre, non è anche peggio? Quella grazia di Dio si perderà, aspettando invano sotto il sole la falce. E la terra avrà dato il grano inutilmente …”

Alla fine, Giudè ha deciso di riporre la sua fede in Dio. Poco dopo era dimesso dall’ospedale; era l’inizio di giugno.

Come Dio volle però (e fu Dio, certo, dietro tante preghiere), il Giudè poté lasciar l’ospedale – uscir di prigione – guarito, sui primi del giugno.

Giudè si diresse immediatamente verso il campicello di frumento, che aveva continuato a prosperare mentre era in ospedale. Presto, si rese conto che c’era un contadino e il suo cane che erano stati mandati a guardia del campo.

Subito volò di lungo al suo campicello; scorse da lontano il biondeggiar del grano, ma a un tratto sentí mancarsi le gambe, cascarsi le braccia… Tutt’intorno alla messe quasi miracolosa (tanto era alta e folta!) correva una siepe; a un canto sorgeva un pagliajo, e un cane, udendo tra le erbacce oltre la siepe fruscío di passi, si mise a latrare.

Si affacciò alla siepe il contadino di guardia, con una mano a riparo degli occhi.

Il contadino ha calorosamente salutato Guidè, dicendo che aveva anticipato il suo ritorno. Sembrava chiaro che il contadino sapesse che si trattava del suo campicello.

— Oh, benvenuto, Giudè! T’aspettavo… Dimmi che vuoi tu ora qui.

Il narratore spiega che adesso il potere del sacrificio è riemerso: Giudè ha deciso che non avrebbe rivendicato né la terra né il frumento (proprio come aveva fatto, una volta prima, con il frutto). Ciò che contava di più era il suo legame con la terra e il frumento. Niente di più. Nientemeno.

Il Giudè, affranto dalla corsa e dal cordoglio, si pose a sedere per terra, calandosi pian piano, appoggiato al lungo bastone.

— Non voglio nulla… — poi disse, rattenendo le lacrime. — Quieta il tuo cane. Sono venuto soltanto per vedere codesto miracolo: il grano che t’è nato solo, e cosí bello, da sé…

— E di chi era la terra, Giudè?

— Era di quest’erbacce qui, che non fanno pane… — rispose il povero vecchio. — Dillo, dillo al tuo padrone…

E rimase a lungo lí, per terra, a guardar quelle spighe alte e piene, che, mosse dal vento, tentennando, pareva lo commiserassero.

Leave a comment