Riassunto: La casa dell’agonia

Il visitatore, entrando, aveva detto certamente il suo nome; ma la vecchia negra sbilenca venuta ad aprir la porta come una scimmia col grembiule, o non aveva inteso o l’aveva dimenticato; sicché da tre quarti d’ora per tutta quella casa silenziosa lui era, senza più nome, “un signore che aspetta di là”.

Di là, voleva dire nel salotto.

All’inizio di La casa dell’agonia (L. Pirandello) apprendiamo che un uomo è arrivato alla casa d’un altro (entrambi gli uomini sono senza nome) per un appuntamento precedentemente programmato. All’arrivo, il visitatore è accolto da una serva … cioè una vecchia che il narratore (anche senza nome) descrive in termini decisamente poco lusinghieri (per non dire altro). Dopo che la vecchia ha aperto la porta, il visitatore entra nella casa, annunciando chiaramente il suo nome (e, presumibilmente, lo scopo della sua visita). La vecchia, a sua volta, annuncia il suo arrivo ad alta voce; tuttavia, lo fa in un modo ambiguo e spersonalizzato (“un signore che aspetta di là”), sia perché non era in grado di ricordar il suo nome o perché non l’aveva mai sentito. Alla fine, apprendiamo che il visitatore è stato invitato ad aspettare nel salotto … qualcosa che ha fatto per i successivi 45 minuti.

Questa scena d’apertura sembra esser avvolta nel mistero: ci sono così tanti dettagli mancanti! (Anche se riconosciamo che questo è spesso il caso di molti delle novelle di Pirandello, la mancanza di chiarezza qua ci sembra esagerata.) Mentre la leggiamo, la scena sembrava anche un po’ surreale, una volta che ci siamo resi conto che la casa era completamente vuoto, tranne per il visitatore e la vecchia serva. Ci siamo trovati a chiedere, “Perché la vecchia dovrebbe preoccuparsi d’annunciare l’arrivo del visitatore in una casa completamente vuota?”

In casa, oltre quella negra che doveva essersi rintanata in cucina, non c’era nessuno;

La vecchia serva si ritira in cucina, lasciando il visitatore da solo. La casa è brevemente descritta. C’è un orologio a pendolo vecchio stile, che può esser situato nella sala da pranzo, il cui lento meccanismo ritmico può esser ascoltato in tutta la casa.

e il silenzio era tanto, che un tic-tac lento d’antica pendola, forse nella sala da pranzo, s’udiva spiccato in tutte le altre stanze, come il battito del cuore della casa;

Poi, apprendiamo che l’arredamento, in gran parte vecchio e fuori moda, è stato curato con cura. Tuttavia, non viene usato molto, se non del tutto: i mobili sono stati effettivamente abbandonati e non servono più a uno scopo, dato che nessuno viene mai a casa.

e pareva che i mobili di ciascuna stanza, anche delle più remote, consunti ma ben curati, tutti un po’ ridicoli perché d’una foggia ormai passata di moda, stessero ad ascoltarlo, rassicurati che nulla in quella casa sarebbe mai avvenuto e che essi perciò sarebbero rimasti sempre così, inutili, ad ammirarsi o a commiserarsi tra loro, o meglio anche a sonnecchiare.

Il narratore sembra suggerire che ciascuno dei mobili ha una ‘personalità’ o un ‘carattere’ (cioè, un’‘anima’), che si basa sui ricordi conservati delle loro precedenti esperienze di vita. Ne consegue che il più antichi dei pezzi di mobili avrebbero il maggior numero di ricordi e quindi più personalità / carattere.

Hanno una loro anima anche i mobili, specialmente i vecchi, che vien loro dai ricordi della casa dove sono stati per tanto tempo.

Il narratore spiega che i mobili più vecchi considerano con disprezzo ogni nuovo arrivo tra loro, come se fossero pretenziosi intrusi inconsapevoli ed illusi … intrusi, cioè, che devono ancora guadagnarsi il rispetto dei loro coetanei.

Basta, per accorgersene, che un mobile nuovo sia introdotto tra essi.

Un mobile nuovo è ancora senz’anima, ma già, per il solo fatto ch’è stato scelto e comperato, con un desiderio ansioso d’averla.

Ebbene, osservare come subito i mobili vecchi lo guardano male: lo considerano quale un intruso pretenzioso che ancora non sa nulla e non può dir nulla; e chi sa che illusioni intanto si fa.

È a questo punto della storia che il narratore descrive la tristezza provata dai vecchi mobili: sembrano comprendere la probabilità che la loro mancanza di utilità, funzione e scopo, a causa del disuso, significhi che nessun nuovo ricordo li raccoglierà … con il rischio concomitante che i loro ricordi precedenti svaniscano gradualmente nel tempo e, come tali, andranno persi le loro personalità / caratteri / anime.

Loro, i mobili vecchi, non se ne fanno più nessuna e sono perciò così tristi: sanno che col tempo i ricordi cominciano a affievolirsi e che con essi anche la loro anima a poco a poco s’affievolirà; per cui restano lì, scoloriti se di stoffa e, se di legno, incupiti, senza dir più nulla nemmeno loro.

Poi, il narratore spiega che anche se i brutti ricordi (cioè, insieme a quelli buoni) corrono anche il rischio di perdersi, questo sarebbe comunque considerato sfortunato: il punto sembra essere che l’identità d’un pezzo di mobile si basi sul ricordo di sia le esperienze positive che quelle negative e, quindi, la perdita d’un ricordo brutto contribuirebbe comunque a una perdita generale d’identità.

Se mai per disgrazia qualche ricordo persiste e non è piacevole, corrono il rischio d’esser buttati via.

Il narratore continua, descrivendo l’angoscia d’una vecchia poltrona alla vista di così tanti mucchietti di polvere trascurati (che le tarme hanno creato) presente sul superficie d’un tavolino che fa parte d’un paio.

Quella vecchia poltrona, per esempio, prova un vero struggimento a vedere la polvere che le tarme fanno venir fuori in tanti mucchietti sul piano del tavolinetto che le sta davanti e a cui è molto affezionata.

A quanto pare, i mucchietti di polvere trascurate servono come un promemoria dello stato generale di disuso e abbandono in casa; destano inoltre una preoccupazione per la propria fragilità della poltrona.

Lei sa d’esser troppo pesante; conosce la debolezza delle sue corte cianche, specialmente delle due di dietro; teme d’esser presa, non sia mai, per la spalliera e trascinata fuor di posto; con quel tavolinetto davanti si sente più sicura, riparata; e non vorrebbe che le tarme, facendogli fare una così cattiva figura con tutti quei buffi mucchietti di polvere sul piano, lo facessero anche prendere e buttare in soffitta.

Poi, apprendiamo che l’intento qua non è stato quello d’antropomorfizzare i mobili. Invece, e come spiega il narratore, queste osservazioni e riflessioni appartengono al visitatore, che in effetti ha immaginato il senso di tristezza dell’arredamento, dovuto al loro disuso, nonché la loro agonia per la perdita graduale della loro identità.

Tutte queste osservazioni e considerazioni erano fatte dall’anonimo visitatore dimenticato nel salotto.

(Fino a questo punto, la storia sembra esser stata concepita come una meditazione sulle perdite cognitive che si verificano alla personalità e al carattere come conseguenza dell’invecchiamento umano. Da questo punto in avanti, tuttavia, la narrazione sembra concentrarsi sul visitatore, cioè, sulle sue esperienze mentre aspetta nel salotto.)

Il tempo passa; il narratore ci spiega che il visitatore stesso sembra aver perso la su’identità. Dopotutto, il suo nome era stato perso ed adesso sembra esser stato lasciato completamente da solo … abbandonato, come un pezzo di mobile, ed assorbito a tutti gli effetti dal silenzio della casa.

Quasi assorbito dal silenzio della casa, costui, come vi aveva già perduto il nome, così pareva vi avesse anche perduto la persona e fosse diventato anche lui uno di quei mobili in cui s’era tanto immedesimato, intento ad ascoltare il tic-tac lento della pendola che arrivava spiccato fin lì nel salotto attraverso l’uscio rimasto semichiuso.

Si dice che il visitatore sia mal vestito e anche “esiguo di corpo”, il che lo fa ‘perdere’ tra i mobili più grandi del salotto.

Esiguo di corpo, spariva nella grande poltrona cupa di velluto viola sulla quale s’era messo a sedere. Spariva anche nell’abito che indossava. I braccìni, le gambine si doveva quasi cercarglieli nelle maniche e nei calzoni. Era soltanto una testa calva, con due occhi aguzzi e due baffetti di topo.

Il tempo passa; il narratore spiega che il visitatore diventa sempre più stanco di aspettare … è convinto che il proprietario abbia scortamente dimenticato il loro appuntamento. Il visitatore si ferma quindi a considerare quanto aspettare,

Certo il padrone di casa non aveva più pensato all’invito che gli aveva fatto di venirlo a trovare; e già più volte l’ometto si era domandato se aveva ancora il diritto di star lì ad aspettarlo, trascorsa oltre ogni termine di comporto l’ora fissata nell’invito.

… e come dovrebbe rispondere—con ciò intendiamo che il visitatore calibra quanto dovrebb’esser arrabbiato se per caso il proprietario dovesse presentarsi.

Ma lui non aspettava più adesso il padrone di casa. Se anzi questo fosse finalmente sopravvenuto, lui ne avrebbe provato dispiacere.

E poi, stranamente, il visitatore sente un trambusto nella strada sottostante, appena fuori dalla casa. Ha riconosciuto questi rumori come associati alla morte di una persona.

Lì confuso con la poltrona su cui sedeva, con una fissità spasimosa negli occhietti aguzzi e un’angoscia di punto in punto crescente che gli toglieva il respiro, lui aspettava un’altra cosa, terribile: un grido dalla strada: un grido che gli annunziasse la morte di qualcuno; la morte d’un viandante qualunque che al momento giusto, tra i tanti che andavano giù per la strada, uomini, donne, giovani, vecchi, ragazzi, di cui gli arrivava fin lassù confuso il brusio, si trovasse a passare sotto la finestra di quel salotto al quinto piano.

E poi, il visitatore non può fare a meno di notar un gatto che entra furtivamente nel salotto e si fa strada verso una finestra che si apre sulla strada sottostante.

E tutto questo, perché un grosso gatto bigio era entrato, senza nemmeno accorgersi di lui, nel salotto per l’uscio semichiuso, e d’un balzo era montato sul davanzale della finestra aperta.

Tra tutti gli animali il gatto è quello che fa meno rumore. Non poteva mancare in una casa piena di tanto silenzio.

Il tempo passa; apprendiamo che un vaso con gerani rossi poggia sulla cornice d’azzurro della finestra. La fine della giornata è vicina a mano.

Sul rettangolo d’azzurro della finestra spiccava un vaso di geranii rossi. L’azzurro, dapprima vivo e ardente, s’era a poco a poco soffuso di viola, come d’un fiato d’ombra appena che vi avesse soffiato da lontano la sera che ancora tardava a venire.

Il narratore spiega che fuori dalla finestra si possono vedere alcuni stormi di rondini che volano a casaccio, in un’apparente frenesia. Alcune rondini si scontrano con la finestra, come se stessero provando ad entrare nel salotto. Due di loro effettivamente entrano nella stanza e poi si spostano verso un punto sotto la finestra.

Le rondini, che vi volteggiavano a stormi, come impazzite da quell’ultima luce del giorno, lanciavano di tratto in tratto acutissimi stridi e s’assaettavano contro la finestra come volessero irrompere nel salotto, ma subito, arrivate al davanzale, sguizzavano via. Non tutte. Ora una, poi un’altra, ogni volta, si cacciavano sotto il davanzale, non si capiva come, né perché.

Scopriamo che il visitatore, per curiosità, aveva guardato sotto la finestra prima che il gatto entrasse nella stanza. Ha scoperto un nido attaccato alla parte inferiore della finestra.

Incuriosito, prima che quel gatto fosse entrato, lui s’era appressato alla finestra, aveva scostato un po’ il vaso di geranii e s’era sporto a guardare per darsi una spiegazione: aveva scoperto così che una coppia di rondini aveva fatto il nido proprio sotto il davanzale di quella finestra.

Il narratore riassume la scena per noi: ci sono persone nella strada sottostante che non sono consapevoli del dramma che si sta svolgendo nel salotto; c’è un gatto che sta cacciando le due rondini, che si concentrano sulla costruzione d’un nido; c’è un vaso con gerani rossi appollaiati sulla cornice d’una finestra che è parzialmente aperta.

Ora la cosa terribile era questa: che nessuno dei tanti che continuamente passavano per via, assorti nelle loro cure e nelle loro faccende, poteva andare a pensare a un nido appeso sotto il davanzale d’una finestra al quinto piano d’una delle tante case della via, e a un vaso di geranii esposto su quel davanzale, e a un gatto che dava la caccia alle due rondini di quel nido.

I pericoli, infatti, sono che il gatto può ferire o uccidere una o entrambe le rondini e che i movimenti del gatto possono far cadere il vaso fuori dalla finestra e colpire un passante sotto (cioè uno dei tanti passanti che si sono fermati a guardare i folli schemi di volo delle rondini).

E tanto meno poteva pensare alla gente che passava per via sotto la finestra il gatto che ora, tutto aggruppato dietro quel vaso di cui s’era fatto riparo, moveva appena la testa per seguire con gli occhi vani nel cielo il volo di quegli stormi di rondini che strillavano ebbre d’aria e di luce passando davanti la finestra, e ogni volta, al passaggio d’ogni stormo, agitava appena la punta della coda penzoloni, pronto a ghermire con le zampe unghiute la prima delle due rondini che avrebbe fatto per cacciarsi nel nido.

Il narratore spiega che l’ansia del visitatore cresce man mano che si rende conto tutto ciò.

Lo sapeva lui, lui solo, che quel vaso di geranii, a un urto del gatto, sarebbe precipitato giù dalla finestra sulla testa di qualcuno; già il vaso s’era spostato due volte per le mosse impazienti del gatto; era ormai quasi sull’orlo del davanzale; e lui non fiatava già più dall’angoscia e aveva tutto il cranio imperlato di grosse gocce di sudore.

Allo stesso tempo, tuttavia, il visitatore, che è arrabbiato e sconvolto dal modo maleducato in cui è stato trattato, ‘vede’ i suoi pensieri diventare ‘diabolici’. (È anche stanco ed ansioso.) Chiede, ‘E se fossi stato io a mandare il vaso fuori dalla finestra ai passanti nella strada sottostante?’

Gli era talmente insopportabile lo spasimo di quell’attesa, che gli era perfino passato per la mente il pensiero diabolico d’andar cheto e chinato, con un dito teso, alla finestra, a dar lui l’ultima spinta a quel vaso, senza più stare ad aspettare che lo facesse il gatto. Tanto, a un altro minimo urto, la cosa sarebbe certamente accaduta.

Il narratore spiega, tuttavia, che il visitatore non è capace di fare una cosa del genere.

Non ci poteva far nulla.

Il tempo passa; l’identità del visitatore sembra essersi persa … cioè, susseguita dai suoi immediati dintorni. Più che mai, sembra comprendere le conseguenze della perdita di utilità e identità.

Com’era stato ridotto da quel silenzio in quella casa, lui non era più nessuno. Lui era quel silenzio stesso, misurato dal tic-tac lento della pendola. Lui era quei mobili, testimonii muti e impassibili quassù della sciagura che sarebbe accaduta giù nella strada e che loro non avrebbero saputa.

E poi, per ragioni che non sono completamente chiare, il narratore spiega che il visitatore è arrivato a credere che qualsiasi tentativo da parte sua di rettificare le cose (cioè, per scacciare il gatto, ad esempio, al fine di proteggere le rondini o muoversi il vaso in un posto sicuro) sarebbe inutile.

La sapeva lui, soltanto per combinazione. Non avrebbe più dovuto esser lì già da un pezzo. Poteva far conto che nel salotto non ci fosse più nessuno, e che fosse già vuota la poltrona su cui era come legato dal fascino di quella fatalità che pendeva sul capo d’un ignoto, lì sospesa sul davanzale di quella finestra.

Era inutile che lui toccasse a quella fatalità la naturale combinazione di quel gatto, di quel vaso di geranii e di quel nido di rondini.

(Forse non è più in grado di pensare razionalmente? Ci chiediamo perché, ad esempio, il visitatore non abbia semplicemente riposizionato il vaso, scacciato il gatto e chiuso la porta del salotto dietro di lui … e poi, spiegato la situazione alla serva in modo che lei non avrebbe cambiato le cose indietro? Forse, dopo che era trascorso così tanto tempo mentre aspettava nel salotto, lui era troppo stanco e stressato per pensare chiaramente? As the old proverb says, “Brilliant after-thoughts litter every roadside.”)

In altre parole, qualsiasi cosa possa fare in questo momento per mitigare il rischio / pericolo sarebbe inevitabilmente inutile.

Quel vaso era lì proprio per stare esposto a quella finestra. Se lui l’avesse levato per impedir la disgrazia, l’avrebbe impedita oggi; domani la vecchia serva negra avrebbe rimesso il vaso al suo posto, sul davanzale: appunto perché il davanzale, per quel vaso, era il suo posto. E il gatto, cacciato via oggi, sarebbe ritornato domani a dar la caccia alle due rondini.

Era inevitabile.

Dunque, il visitatore decide di lasciare semplicemente la casa del padrone. Quando raggiunge la strada, si rende conto che il tempismo potrebb’esser tale che lui stesso è quello che verrà colpito dal vaso con i gerani rossi!

Ecco, il vaso era stato spinto ancora più là; era già quasi un dito fuori dell’orlo del davanzale.

Lui non potè più reggere; se ne fuggì. Precipitandosi giù per le scale, ebbe in un baleno l’idea che sarebbe arrivato giusto in tempo a ricevere sul capo il vaso di geranii che proprio in quell’attimo cadeva dalla finestra.

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